Giappone: un piccolo sogno che diventa realtà tra lo-fi e Monster Energy

Un sogno che avevo da tempo sta cominciando a prendere forma. Ad agosto partirò per il Giappone, una terra che mi affascina ormai da sei anni. Dopo aver acquistato un biglietto andata-ritorno, mi sono fermato a pensare ai traguardi che ho raggiunto in questi due anni da quando mi sono trasferito a Milano. Ho ottenuto la certificazione per il corso da sceneggiatore e il mio viaggio verso il primo match di boxe prosegue.

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Non amo molto parlare della mia vita ma fare un piccolo recap di queste soddisfazioni, per quanto modeste siano, mi danno coraggio per tornare a riscrivere su questo blog che ho abbandonato ad agosto.

Il viaggio in Giappone rappresenta forse il primo, vero regalo che mi concedo. Ho ritrovato la lista delle mie “esperienze da fare almeno una volta nella vita” che ho scritto 6 anni fa. Una di queste era: sorseggiare una Monster Energy mentre ascolto musica lo-fi (un rituale che ho seguito spesso nei miei solitari anni all’Università) in un parco di Tokyo.

Mi piacerebbe ascoltare qualcosa del genere (lo stesso tipo di musica che è nella mia playlist Spotify)

Ovviamente non mi limiterò a visitare solo Tokyo. Ho in programma un bel viaggio che spazia dalla capitale a Okinawa fino a passare per Kyoto e Osaka. Forse un po’ mainstream, me ne rendo conto, ma per la prima volta nel Sol Levante direi che possa andare.

Adesso che penso a tutto quello che vorrei, ancora, ottenere realizzo una cosa: mi è sempre mancata un po’ di disciplina. È meraviglioso tuffarsi nei progetti quando si è agli inizi, che sia la scrittura, la palestra o altro, ma non è per tutti continuare anche (soprattutto) se non si ottengono i risultati sperati.

Non ho una grande ambizione nella vita se non fare delle mie passioni un lavoro e guadagnare abbastanza per potermi permettere qualche esperienza come il Giappone. Anzi… ormai è da qualche tempo che accarezzo l’idea di poter diventare un nomade digitale: avere la libertà di poter lavorare dappertutto solo grazie ad un pc portatile.

Credo che uno dei motivi per cui molti hanno in testa di diventare ricchi non sia tanto per i soldi in sé ma per assecondare un desiderio innato di libertà. Essere liberi di essere dove si vuole, di spendere il proprio tempo nel fare ciò che realmente si sogna: tutto questo però non è alla portata di tutti. Serve un prezzo da pagare per raggiungere quei livelli di libertà economica che non tutti sono disposti a pagare e che, per quanto sia triste ammetterlo, non tutti possono farlo nonostante gli sforzi (chissà… forse rientro tra questi). La vita non è di certo un manga: l’impegno non è garanzia di successo. Tuttavia, una grande motivazione mista a duro lavoro offre almeno la speranza di poter cambiare vita e questo potrebbe veramente non avere prezzo.

Romanzo Criminale, il libro di Giancarlo De Cataldo

Per chi mi segue da un po’ di tempo avrà capito che il genere crime è tra i miei preferiti in assoluto. La figura del criminale è romanticizzata da molti attraverso i media e si può quasi dire che appaia come eroica. Quanti di noi hanno sognato anche solo una volta di essere dei gangster dopo aver visto Goodfellas o The Wolf of Wall Street? Qual è la ragione per cui a volte sogniamo di essere come loro? Non serve pensare troppo. Sono uomini pieni di soldi e donne che si prendono ciò che vogliono senza farsi troppi problemi: molto spesso l’opposto dello spettatore che li guarda. Credo sia normale voler essere di più come loro… soprattutto nella loro versione dipinta dai media.

Leggendo Romanzo Criminale per la prima volta mi sono ricordato di come anch’io, da bambino, romanticizzavo queste figure: persone senza talenti o meriti ma che potevano definirsi i nuovi Re di Roma a poco meno di trent’anni. Peccato che questa storia, come tutte le favole a sfondo criminale, non ha una lunga durata. Peccato che non ci sia neanche un lieto fine… ma non preoccupatevi. Non è uno spoiler: solo il naturale ordine delle cose.

Ma procediamo con ordine: Libanese, Dandi, Bufalo e Freddo sono pesci piccoli nel vasto mare della criminalità organizzata romana, accumunati dal sogno di prendersi la Città Eterna. Un luogo che non ha mai voluto padroni e che mai ne vorrà. Qui la criminalità è decentralizzata e limitata alla supremazia di quartiere. Manca una vera e propria banda che faccia capo al commercio di droga e gioco d’azzardo. Ed è da questo sogno che nasce la Banda della Magliana e le origini di Mafia Capitale.

Si tratta di un progetto ambizioso che pone le sue fondamenta con il rapimento del barone Rosellini, un colpo eseguito con maestria e che genera alla Banda un generoso profitto. Ma ecco la pensata geniale direttamente dalla mente del Libanese: non bisogna dividere il malloppo per ciascun membro del Gruppo ma investire il totale nel commercio di droga per ampliarsi. Il resto? Stecca para per tutti.

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Una cosa così a Roma non si era mai vista. Ed è proprio da qui che incomincia l’origine della Banda. Alle loro costole, il giovane commissario Scialoja insieme al sostituto procuratore Fernando Borgia.

Un romanzo scritto con uno stile fluido e semplice che racconta una delle storie, e delle fantasie, che hanno plasmato l’Italia come la conosciamo adesso. Ovviamente molti eventi sono stati cambiati e romanzati, così come i nomi dei protagonisti, per ottenere una trama più avvincente. La caratterizzazione dei personaggi è di una umanità sconcertante tanto che, spesso, si dimentica che si sta parlando di assassini. Alcuni passaggi, come il Libanese e il Freddo che si concedono una carbonara al ristorante o la Banda che decide all’unisono come spendere i soldi del colpo, sono scritti in maniera tale da rendere queste persone quasi vive e, in un certo senso, amici del lettore. Un romanzo sicuramente consigliato e che ha gettato le fondamenta per una delle serie tv italiane più belle nel panorama internazionale.

Il principe nell’alta torre III – Il Conte di Montecristo e Mike Tyson

La biografia di Mike Tyson è un piccolo capolavoro della letteratura, nonché uno dei miei libri preferiti. Un uomo che si eleva al grado di Dio dopo che la vita gli ha riservato più di un colpo basso, per poi cadere in una spirale di autodistruzione causata dell’ego e, infine, risorgere dalle proprie ceneri divenendo uno dei filosofi più influenti del ventunesimo secolo: il viaggio di Iron Mike è davvero imperdibile.

Cosa ascolto quando scrivo parte III

Ogni episodio e aneddoto della sua biografia possano essere tranquillamente incisi in pietra con caratteri dorati per essere lasciati in eredità alle generazioni future, ma una storia rimane la mia preferita. Un po’ di contesto: all’età di 27 anni, Mike Tyson viene arrestato per il presunto stupro dalla reginetta di bellezza Miss Black Rhode Island Desiree Washington.

Nonostante la scarsità delle prove, Tyson è costretto a scontare una pena di dieci anni ma che viene ,fortunatamente, ridotta a tre anni per buona condotta. Durante il suo soggiorno in carcere, Mike ha avuto modo di esplorare il mondo della letteratura. Tra gli scrittori menzionati da lui stesso vi sono: Hemingway, Fitzgerald, Tolstoj, Macchiavelli e Voltaire.

Il Conte di Montecristo: prigione, vendetta e crescita personale

La sua lettura preferita rimane però uno dei romanzi più famosi dello scrittore Alexandre Dumas: il Conte di Montecristo. La trama in due parole: un uomo viene incarcerato ingiustamente. I suoi nemici prosperano mentre l’uomo in questione, Edmond Dantès, rimane inerme a veder passare gli anni della sua vita dietro le sbarre. Edmond non perde tempo e decide di imparare la storia, la letteratura e le scienze dal suo dotto compagno di cella che lo renderà un uomo forte, brillante e capace di ottenere la propria meritata vendetta contro il trattamento subito.

Non è difficile capire perché questo sia il romanzo preferito di Tyson. Posso immaginarmelo: un gigante di cento chili che legge le sventure di Dantès con la schiena appoggiata al cancello della sua cella. In maniera simile a Dantès, Mike Tyson decide di migliorarsi e affrontare la prigione con un forte spirito di stoicismo senza imprecare contro gli dei per il destino avverso ma per rendersi un uomo migliore. Se Dantès non avesse mai messo piede in quella cella, forse la sua vita avrebbe avuto un corso più felice ma è proprio grazie a quell’esperienza che ha avuto modo di viaggiare per il mondo e diventare il famigerato conte dell’isola di Montecristo. Da qualcosa di orribile c’è sempre la possibilità di far crescere qualcosa di buono.

Negatività e pressione

Il desiderio di vendetta è profondamente umano. La rivincita è un tema fondamentale, nonché genesi della giustizia: chi la ottiene è in grado di proseguire nella propria vita; chi non la ottiene è ancorato al passato con un senso di frustrazione tanto grande quanto il suo ego ferito. Ma c’è una terza via: usare tutto quell’odio e rancore per costruire qualcosa che non si interamente negativo. Il passato non può essere cancellato ma il futuro può essere costruito.

Non ha senso perdere la propria vita per un evento negativo. Ma per quanto riguarda chi ha fatto del male per primo? È forse giusto perdonarlo? È forse giusto che prosegua la sua vita normalmente mentre ha distrutto quella di altri? Non è una risposta semplice. A volte si è impossibilitati ad avere giustizia per circostanze al di fuori del nostro controllo. La realtà del mondo è spesso deludente. Ma ciò potrebbe essere un ottimo modo per diventare una persona migliore, il che, già per esso, è un atto di dolce vendetta.

Nelle parole di Edmond Dantès, il Conte di Montecristo: “Servono le sventure per scavare certe miniere misteriose nascoste nell’intelligenza umana; serve la pressione per far esplodere la polvere.”

Nelle parole di Mike Tyson: “God lets everything happen for a reason. It’s all a learning process, and you have to go from one level to another.”

Little death (short story fragment)

It’s 2 am and all I can think about is killing myself.  It is the most reasonable conclusion to end all of my problems. It’s dark and I can’t see a single thing. I visualize every object inside of my bedroom. A desk, a chair, a closet, a pile of dirty clothes that looks like a Christmas tree.

 Christmas.

I vividly remember my Christmas day two years ago. I was alone in a house in the middle of nowhere. I bought vanilla ice-cream, chicken breast and one kilo of rice. I watched something on tv sipping a can of beer like a fine dry gin. Seems like yesterday. I had a good time. For some reason I cannot remember last year Christmas. Memory is a funny thing.

It’s too dark. I open my eyes and I close them. No difference. It doesn’t even seem I am living. I am in another dimension, floating inside a pool of negative emotions. I am almost sure I am not in the real world. It’s similar to the distorted vision of the hotel in Murakami’s novel or in Silent Hill II. There are no noises outside the window. My body is silent. It seems I forgot how to breathe.

Is there a solution for this?

Of course there is. I could stop drinking Monster. I could start by having a positive attitude. I could open up a little bit. Or I could die, living in this ethereal world made of darkness and silence. It’s not that bad. Nothing good will ever happen but, at the same time, nothing bad will happen. The risk is too big. At least for me.

This is the time I feel alive the most.

A place in the heart of darkness made only for me. No job, no talking, no duties… but also no happiness, no catharsis and no life. Mere relief. Maybe this is the reason why I don’t sleep at night. This is where I belong. I don’t want to wake up and join nonfictional life.

I want to stay in this distorted hotel of mine. Every time  I am forced to leave it I experience a little death. I decide to get up from the bed. It’s like I have chains all over my wrists but somehow I manage to get up. I dress and I leave my room. Ii put my headphones on. ‘Little Dark Age’ is the first song on my playlist and I press ‘play’ without hesitation. It’s 3 am and it’s raining outside.

I am going out for a walk.

Notte insonne I

Osservo la lunghezza della crepa sul soffitto che taglia in due parti uguali la stanza in diagonale. Il contorno della crepa è gialla. Sospetto sia a causa dell’umidità. Dall’interno della crepa fuoriesce un ragno piccolo dalle zampe esili ma immensamente lunghe. Cerco di soffiare verso il ragno ma è troppo lontano.

Non si muove neanche. Si limita a restare fermo. Forse anche lui mi osserva. O forse si sta ambientando nella nuova dimensione della camera. Deve essere un’esperienza terrificante trovarsi sopra il soffitto di una camera così grande. Abituato alla superfice stretta, buia e accogliente dell’interno dell’intonaco, il ragno deve sentirsi spaesato e impaurito. Forse non immaginava che il mondo la fuori fosse così vasto. Il respiro appannato e ritmico del mio compagno di stanza  mi ricorda che è notte e dovrei dormire. Lo so perché il mio compagno di stanza non chiude mai la bocca quando è sveglio. Allungo la mano verso il comodino e afferro il telefono.

Sono le due e un quarto del mattino.

 Cosa dovrei fare? Andare in cucina? Leggere? Masturbarmi? L’indecisione mi deprime e non ho la forza neanche per ascoltare il respiro del mio compagno di camera. Il solo percepire che è vivo è una grande fonte di disturbo per me. Mi limito a restare fermo, lo sguardo fisso sul ragno. Che strana creatura. Ha un corpo piccolo, insignificante simile a un punto disegnato con la matita su un foglio A4. Le gambe sono ridicolamente lunghe. Dalla mia prospettiva sembrano chilometriche. Lontane anni luce dal corpo.

Come fa un essere del genere a muoversi? Forse vorrebbe tornare all’interno della crepa ma non ha idea di come riuscirci. È in uno stallo. Non può andare avanti e non può tornare indietro. Guardo l’orologio.

Le due e mezza.

È ora di scegliere, amico. Cosa vuoi fare? Non puoi rimanere lì fermo, non pensi? Sei un ragno o no? Comportati come tale. Scegli. Ti avventuri nell’ignoto o torni da dove sei venuto? In qualche modo puoi rientrare nella crepa. Da come sei uscito così puoi rientrare. Oppure preferisci esplorare questo mondo Lovecraftiano popolato da giganti che non hanno la forza di alzarsi?

Le tre.

Il coinquilino/compagno di stanza comincia a russare. Ciò mi ricorda che domani devo andare a lavoro. Non ho idea come le due cose siano connesse ma così è. Il ragno cammina (forse ‘fluttua’ sarebbe un verbo migliore?)  lungo il soffitto, allontanandosi dalla crepa.

Buon per te, amico. Vivi la tua vita.

Dopo un po’, forse dopo cinque minuti o cinque mesi, si ferma completamente. Torna indietro verso la crepa.

Le quattro. I primi raggi del sole cominciano a farsi strada attraverso le verande.

Amico mio, torna dentro la crepa. Non vuoi affrontare questo giorno. Torna nell’oscurità. Lo farei se ne avessi la possibilità. Portami con te se puoi.

Le quattro e mezza. Comincio a sbadigliare. Ho sonno. Finalmente. Guardo il ragno per l’ultima volta e mi rigiro su me stesso. Chiudo gli occhi. È solo un incubo.

Le cinque. Il suono di una cascata. La sveglia suona.

‘Buongiorno!’ quasi grida il mio coinquilino.

Non riesco a capire se sono sveglio o meno. Tutto sembra la copia di una copia di una copia. Oggi è ieri. Ieri è oggi. Oggi è domani.

Guardo sul soffitto. Il ragno è sparito probabilmente all’interno della crepa.

Qualcosa che vorrei dire anche per me.

Un altro giro (racconto breve)

La superficie della mia scrivania alle 23:00 si presenta con una bottiglia d’acqua da mezzo litro, una lattina di pepsi, un quaderno, un laptop con un documento di word aperto sul desktop e musica di Youtube da una finestra seminascosta su Chrome.

Di solito a quest’ora ho sonno ma impongo al mio corpo e alla mia mente di restare sveglio. Se dormissi adesso mi ritroverei al mattino seguente confuso e disorientato come se qualcuno avesse voltato la pagina di un romanzo o se avesse tagliato una scena di un film per andare a quella successiva.

La notte è quel piccolo ritaglio di tempo che appartiene solo a me. Non riesco a ragionare con lucidità e tutto assume un contorno onirico. Scrivo ma le parole che compaiono su Word non sono veramente mie. Sono un misto della musica che ascolto (in questo momento una colonna sonora), stanchezza, forse speranza e forse odio.

Vado avanti così fino a quando mi è possibile; di solito fino alle tre del mattino o fino a quando la sveglia non suona. Ogni secondo della giornata che passo nel mondo reale (al lavoro, al di fuori, al contatto con tutte le altre persone che non siano me) penso alla notte.

Penso al gusto della pepsi che si scioglie sulla lingua, la musica nelle cuffie, il freddo sguardo del documento bianco su Word e, forse cosa più importante, il fatto che io sia troppo stordito per apprezzare tutto questo.  A volte mi capita di addormentarmi ma succede solo per pochi secondi. Poi mi risveglio. Faccio molti sogni e la concezione del tempo si perde completamente.

A volte faccio un sogno molto lungo. Quando mi risveglio mi preoccupo subito che io abbia dormito troppo ed è già mattina. L’orologio in basso a destra dello schermo mi tranquillizza.

‘È solo l’una, Struggler. Continua il tuo viaggio. L’alba è ancora lontana.’

Non so bene chi sia a parlare ma le parole mi confortano. Mancano cinque ore alla sveglia. Sei ore all’alba. Nel mio mondo, di notte, cinque ore equivalgono a dodici ore. Sorrido.

Posso restare ancora.

Il mondo reale può aspettare.

Guts’ theme (racconto breve)

C’è una palestra all’aperto vicino al posto dove lavoro.

Non che due sbarre di metallo arrugginito, un sacco da boxe di gomma piuma sventrato e una panca per gli addominali possano essere definiti come una ‘palestra’ ma sono grato di essere a due passi da tutto ciò. È un angolino nascosto nel cuore del parco pubblico di S. e nessuno, se non gli abitanti del quartiere, sa della presenza della ‘palestra’. Il sole è alto e la farmacia in fondo la strada informa i passanti che ci sono ventotto gradi.

È l’una e il mio turno inizia all’una e mezza. Mi tolgo la camicia e resto in jeans stretti. Il sudore mi cola sulla fronte per il solo sforzo di respirare. Mi appendo alla barra e comincio a fare dieci trazioni. Il cuore comincia a battermi forte. Non perché faccio fatica a portate la mia testa sopra la sbarra ma perché la mia mente è rivolta al turno di lavoro che mi aspetta tra poco.  Invece di fermarmi e riposare, faccio altre cinque trazioni per schiarirmi la mente. Ora sono abbastanza stanco per poter pensare lucidamente.

Ogni ora prima di lavorare mi prendono i crampi allo stomaco. Immagino sia un meccanismo di autodifesa del mio sistema immunitario. Da bambino mi succedeva la stessa cosa prima di andare a scuola. Crampi allo stomaco e nausea per tutto il giorno. Non è cambiato assolutamente nulla da quando avevo 12 anni. Ora sono passati dieci anni e ho ancora la nausea.

Attacco di nuovo con le trazioni. Ne faccio dieci e poi ne faccio due con una sola mano. Lo sforzo è così grande che per un singolo istante la mente si schiarisce e sorrido al nulla. Un mese fa non sapevo farne neanche una di trazione a mano singola. Questo mi da la convinzione (o l’illusione) che con il tempo anche la mia vita possa cambiare. Un passo alla volta, giusto?

Cammino fino al sacco e tiro un jab molto pigramente. Il sudore vola sull’erba secca. Il sacco si sposta a malapena. La gomma piuma che penzola dal sacco vibra impercettibilmente. Questa è ormai la mia routine da un mese. Dirigermi al lavoro due ore prima del mio turno e passare mezz’ora nella ‘palestra’, un luogo che appartiene solo a me, distaccato dalla realtà. Qui posso essere ciò che voglio. Qui non sono prigioniero della realtà. Ci sono solo io.

A volte mi viene da pensare che cosa accadrebbe se restassi in quel parco per sempre. Confinato nella stretta superficie della ‘palestra’. So già la risposta. Non accadrebbe nulla di importante.  Il mio telefono squillerebbe un paio di volte (immagino due o tre chiamate dall’ufficio). Poi arriverebbero i messaggi. Poi le vibrazioni nella tasca dei miei jeans.

Poi il nulla.

Arriverebbe la sera e i grilli comincerebbero a cantare indisturbati dalla mia lunga ombra proiettata sulle sbarre di ferro. Probabilmente nessuno si accorgerebbe più della mia assenza. Forse qualcuno ne sarebbe persino rallegrato. Il mio corpo diventerebbe parte integrante di quella ‘palestra’ e osserverei anche io le persone che vagano nel parco cercando di dimenticare il passato e scappare dal presente modellare la propria schiena con qualche trazione di troppo.

Questo pensiero mi fa sorridere. Guardo l’orologio. È quasi ora. Mi incammino verso il posto di lavoro a torso nudo senza degnare di uno sguardo la camicia. Devo cambiarla in ogni caso.

Sognando con Silent Hill II

Ho già parlato della mia speciale relazione con la musica mentre sono solo e studio qui.

All’università ascoltavo lo-fi in una biblioteca che sembrava uscita da un romanzo di Charles Dickens dalle 22:00 alle 05:00 del mattino. Non avevo bisogno di stare in quella biblioteca per così tanto tempo e di certo non studiavo per sette ore di seguito. Stavo lì perché adoravo stare da solo a guardare la piccola città di Bangor assopita e illuminata da lampioni che riflettevano le ombre dei rami degli alberi spogli sulle strade. 

Mi riferisco a questa biblioteca. Quando ci sei solo, di notte, seduto al lato della finestra,fa tutt’altro effetto.

Studiavo per due ore e mezza o tre e poi ascoltavo musica dal mio laptop guardandomi intorno e passeggiando nei lunghi corridoi della biblioteca. A volte aggiornavo il mio diario. A volte leggevo Murakami o Lovecraft. A volte scrivevo. Tutto con il sottofondo musicale coperta in parte dalla pioggia sempiterna (ma chi mi credo? Shakespeare?non so neanche che vuol dire) del Galles.

Eccetto il lo-fi ascoltavo le colonne sonore dei miei film e videogiochi preferiti: ‘L’ultimo samurai’, ‘ Requiem for a dream’, ‘Shadow of the Colossus’ (che ricordi…), Eternal Darkness: Sanity Requiem (che trip…) e, infine, Silent Hill II. All’epoca non ci avevo ancora giocato (l’ho recuperato un annetto fa) ma la colonna sonora risuonava direttamente nella mia anima. Osservavo la pioggia scendere lentamente dalla finestra a mosaico accanto a me con la compagnia di una Monster Energy ghiacciata e pagata il doppio in un distributore automatico. Erano bei tempi. Sognavo in grande ed ero fortemente ottimista. Adesso lo sono ancora di più e spero di continuare su questa strada.

È passato un anno e mezzo da allora ma alcune abitudini non sono cambiate. Ora sono a Milano, in un ostello e sono nella sala comune a scrivere queste righe. Non c’è nessuno. Solo la musica di Silent Hill II, una bottiglia mezza piena di Tè freddo al limone (chiunque preferisca quello alla pesca ha dei problemi), un laptop con il tasto della freccia ‘su’ rotto, un quaderno e una penna… sognando un futuro radioso e un passato meno deprimente: purtroppo non posso fare nulla per quest’ultimo ma posso fare molto per il futuro.

Menzione speciale per la mia compilation preferita di lo-fi.

American Psycho, manuale di crescita personale (film)

Non centra nulla. È ciò che ascolto mentre scrivo.

Oggi ho rivisto il film di American Psycho per la quarta volta nel corso della mia vita. Ogni volta è come se fosse la prima volta. Un film magistrale tratto da un romanzo che definisce la letteratura moderna insieme a Fight Club e Trainspotting. Patrick Bateman ha tutto nella vita: un lavoro ben retribuito a Wall Street, un attico nella zona più lussuosa di New York (ma che non si affaccia su Central Park… fottuto Van Allen e le sue prenotazioni al Dorsia), un fisico scolpito da allenamenti quotidiani nelle palestre più esclusive di New York.

Eppure Patrick è preda di una grande insoddisfazione personale. Odia il suo lavoro, odia le apparenze, odia i continui confronti con i suoi colleghi eppure sono questi ultimi su cui si basa la sua vita.

Prenota il locale migliore per la sera. Prendi il vestito migliore. Fatti di steroidi. Fatti una lampada due volte a settimana. Sii un membro produttivo, rispettabile della società. Per Patrick, però, non è abbastanza. Vuole essere il migliore sotto qualsiasi aspetto.

‘Se odi tanto il tuo lavoro perché non te ne vai?’ mi chiede Evelyn.

‘Perché voglio integrarmi…’

Ed è proprio il bisogno sfrenato di essere superiore e di essere accettato che porta Patrick alla follia. Tra un allenamento e l’altro, infatti, Patrick Bateman uccide e tortura diverse prostitute, senzatetto e amiche della sua Università. La sua facciata da ‘ragazzo della porta accanto’ si fa sempre più sottile rivelando una persona essenzialmente fragile e preda dell’opinione degli altri.

Il suo continuo mentire sulla sua presunta amicizia con Donald Trump ne è un chiaro esempio così come la sua frustrazione per non riuscire ad effettuare una prenotazione al locale più esclusivo di Manhattan, il Dorsia.

American Psycho parla delle ossessioni di un uomo che, semplicemente, non si sente abbastanza e della sua conseguente frustrazione su se stesso e su gli altri: Patrick è una vittima passiva di una società consumistica di cui diventa sempre più difficile far parte. Non riesce a vivere senza continuare ad ottenere di più per compiacere persone che disprezza. Non vuole essere lasciato in disparte. La soluzione? Scatenare il suo malessere con se stesso verso gli altri. Fantasie e azioni di violenza si mescolano alla sua routine fatta di palestra, bevute con gli ‘amici’, cocaina e concerti. Forse questo è l’unico modo in cui Patrick possa trovare sollievo nella sua missione per integrarsi.

Tuttavia Patrick è una persona di successo ma non riesce a vederlo. La sua visione è oscura e distorta dal perenne confronto con gli altri in questioni davvero banali da cui ne esce quasi sempre perdente. Ad esempio, il confronto dei format dei biglietti da visita in ufficio.

rectangular white table with rolling chairs inside room
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Eccetto la salute mentale, gli impulsi omicidi e la completa sociopatia di Patrick credo che ci sia qualcosa o due da imparare da lui; prima tra tutte, la voglia di vincere.

E, a mio parere personale, credo sia questo il messaggio di American Psycho: non criticare aspramente la società consumistica e yuppie ma di aspirare alla grandezza e alla ricchezza con una mentalità equilibrata e logica, senza lasciare che il giudizio degli altri (positivo o negativo che sia) ti trasformi in un mostro. Credo che questo messaggio non sia tanto rilevante quanto oggi. È difficile trovare un uomo di successo ma ancora più difficile è trovare un uomo equilibrato… ed è questo che porta realmente al vero successo.

Il mio lo-fi

Durante le vacanze di Natale la biblioteca della mia Università era aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. In quel periodo invertivo il giorno con la notte e varcavo le porte della biblioteca intorno a mezzanotte. Le sale erano completamente vuote. In quel periodo dell’anno tutti se ne tornano a casa dai propri genitori. Chi è che rimarrebbe da solo in una cittadina del Galles dove piove sempre nel periodo di Natale? Solo io e un orfanello con una cicatrice sulla fronte a forma di saetta.

Lo-fi, Monster e tempi andati

C’è qualcosa di magico nello stare da soli in una biblioteca mentre fuori piove e la pioggia scende lentamente sulle vetrate a mosaico raffiguranti due leoni rampanti (il simbolo dell’università). Ci sei solo tu.

Tu, te e te stesso seduti in un tavolo immenso da quindici persone. Il rumore del tuo respiro e della pioggia accompagnano le parole che scrivi insieme alla ronda del custode notturno che si fa vedere ogni due ore e ti offre una porzione dello spuntino preparato dalla moglie (arrosto con patate). La ventola di areazione del tuo portatile fa il suo lavoro (quasi) silenziosamente.

Passano ore.

Ho finito il lavoro per cui avevo sentito il bisogno di entrare in biblioteca (un tema sul cinema francese di Godard o qualcosa del genere) ma non voglio andarmene. Non piove più. Non voglio andare a casa. Apro il computer, digito ‘youtube’ e tra i video consigliati c’è un’immagine accattivante di una ragazza con le cuffie che studia china sui libri. Il titolo è: ‘Lofi hip hop mix Beats to Relax Study to 2018’.

Ci clicco sopra senza pensarci troppo e guardo le ultime gocce di pioggia colare dal mosaico di fuori. Il tempo vola. Non faccio neanche caso alla musica che non riesco a capire se sia malinconica, rilassante, triste o un curioso mix tra le tre. Penso alla fortuna che ho avuto ad andarmene di casa e non tornare per tre anni di fila. Penso a quanto sia bello vivere in un posto che mi piaccia sul serio. Infine penso a quanto sia bello il semplice fatto di essere semplicemente in vita. Mi alzo dalla sedia, cammino per quindici minuti fino al distributore automatico e mi concedo una Monster gelata al modico prezzo di due sterline e dieci. Ritorno al mio posto, stringo la lattina ricoperta da una patina di ghiaccio con entrambe le mani fino a quando non perdo parzialmente la sensibilità nelle dita e bevo un sorso.

Probabilmente questo è uno dei ricordi più belli della mia vita.

Al minuto ’09:05′ del video Lo-fi vedo sorgere l’alba. La cittadina è completamente addormentata. I lampioni rischiarano la fitta nebbia che avvolge quel posto tanto simile a Silent Hill. Il signor custode mi saluta e io ricambio. Apro la finestra dall’altro lato della biblioteca e il profumo dell’erba tagliata bagnata dalla pioggia mi sveglia più della Monster.

Tutto questo è successo più di tre anni fa sullo sfondo musicale del genere Lo-fi. Ogni volta che la ascolto ripenso a quella notte e a quel periodo fatto di solitudine e riflessioni. Quanto mi manca.

Yare yare. Perché apprezzo veramente qualcosa solo quando non ce l’ho più?

Non che questo abbia importanza. Fino a quando avrò una lattina di Monster, un foglio bianco e musica riuscirò sempre a vedere un’alba magnifica.