Cyberpunk: Edgerunner, sognando la Luna in un appartamento nella periferia di Night City

Ultimamente mi sento come se il tempo mi stesse scivolando per le mani. I giorni passano e si trasformano velocemente in mesi e poi in anni. Non riesco a smettere di pensare che un giorno, con una sicurezza matematica del 100%, non sarò più qui. Sono molto più attaccato alla vita di quanto pensassi. Eppure, per quanto io riconosca il valore (seppur effimero) della mia esistenza, ho ancora la sensazione di non riuscire a vivere appieno.

Come molti sono prigioniero di una routine che, per quanto sana e costruttiva, lascia poco spazio all’avventura e ai sogni. Come recita Fight Club “Questa è la tua vita e sta finendo un minuto alla volta”. Forse ho preso troppi pugni nello sparring, ma questa frase acquisisce sempre più senso man mano che continuo a vivere. La nostra vita è molto fragile e può finire da un momento all’altro. Forse è il caso di farci qualcosa nel frattempo oppure, almeno, godersela per quanto possibile. Perlomeno questo è il messaggio che mi pare di aver colto da Cyberpunk: Edgerunners, la serie anime targata Netflix ispirata al videogioco della casa di produzione CD Project RED.

You are going to carry that weight…

Cyberpunk: Edgerunners ricorda a tratti Devilman Crybaby

Come si potrebbe evincere dal nome, la serie ricade sul filone narrativo cyberpunk, il quale, come chiarisce Wikipedia, tratta di scienze avanzate, come l’information technology e la cibernetica, accoppiate con un certo grado di ribellione o cambiamento radicale nell’ordine sociale.

L’anno è il 2077. Il protagonista della serie è David, un ragazzo di strada che vive nella periferia di Night City insieme alla madre Gloria. David è una mente brillante e tra i primi della classe all’Arasaka Academy, la scuola più prestigiosa della città. La madre fa due lavori per mantenere la retta e cercare di dare al figlio un futuro dignitoso che lei non ha potuto avere per se stessa.

Un incidente stradale fa subito traballare questo equilibrio precario: Gloria rimane gravemente ferita e il suo ceto sociale non è abbastanza elevato per permetterle cure mediche di prim’ordine. Con la sua morte, David rimane solo a Night City. Tormentato dai suoi compagni di classe per essere povero e con un forte senso di colpa per non essere riuscito a proteggere la madre, David decide di lasciare l’Arasaka Academy e modificare il proprio corpo con un impianto Sandevistan di tipo militare che gli permetterà di essere più forte fisicamente ma che tuttavia gli causerà danni psicofisici che graveranno sempre di più sulla sua mente.

In poco tempo si introdurrà nella criminalità di Night City alla ricerca di un posto che possa chiamare casa. E così David fa la conoscenza di Lucy, una ladra di professione che bazzica nel temuto gruppo di Maine, il cyberpunk criminale. Ed è così che ha inizio la nuova vita di David alla scoperta di sé stesso. Night City è una giungla urbana e ogni giorno può essere l’ultimo.

La vita umana vale in proporzione al denaro che viene guadagnato: una lezione che il protagonista ha imparato a caro prezzo con la morte della madre. Una storia di formazione che trova spazio anche per temi importanti come l’amore, riflessioni sul senso della vita e la natura umana che spinge ognuno di noi a trovare un posto in cui ci si senta accettati. In dieci episodi questa serie offre molto più di quanto altri anime non riescano a delineare in 8 stagioni: una storia autoconclusiva con personaggi umani e perfetti nelle loro imperfezioni.

Il finale è un qualcosa di straziante che però è maledettamente in linea con la premessa iniziale della serie: “Non ci sono lieto fine a Night City”. Tuttavia, almeno per i più ottimisti, è presente un briciolo di speranza per il futuro a cui, con un po’ di forza di volontà, ci si può aggrappare. Per quanto possa essere scontato dirlo, la vita è davvero imprevedibile e breve: tanto vale godersi il viaggio anche nelle sue sfumature più negative. Una serie altamente consigliata per chiunque.

Menzione speciale per la colonna sonora firmata da Akira Yamaoka, storico compositore di Silent Hill.

Alice in Borderland: un gamer apprezza di più la vita rischiando la morte ogni giorno

È passato qualche anno da quando vidi la prima stagione di questa serie. Ero tornato dal Galles ormai da qualche mese appena terminata la mia laurea. Mi sarebbe piaciuto restare lì, ma era il periodo del Covid e della Brexit e fui quasi costretto a prendere un volo per Roma. È stato un periodo piuttosto buio della mia vita. Avevo giurato che non avrei mai più fatto ritorno nella casa della mia adolescenza. Non aver mantenuto fede alla mia promessa mi aveva devastato. Non avevo un lavoro, né la scusa degli studi. Passavo le giornate in completo isolamento. Tra i pochi svaghi che avevo l’immancabile lo-fi, Monster Energy, qualche libro, la televisione e Bloodborne.

Non c’è da meravigliarsi se all’epoca mi sono immedesimato subito in Arisu, il protagonista di Alice in Borderland. Ma andiamo per ordine: Arisu è un neet (neither in employment or education: non lavora né studia) e passa le giornate chiuso in camera a giocare ai videogame. Un fenomeno tristemente noto soprattutto in Giappone, patria degli hikikomori, persone che non escono mai al di fuori della propria camera (per un approfondimento completo cliccare qui).

Arisu non ha prospettive per il futuro. Suo padre lo guarda dall’alto in basso e lo paragona sempre a suo fratello, il quale ha completato con successo il ciclo di studi e ha un lavoro. L’unico suo sfogo risiede nell’ottenere il punteggio più alto negli sparatutto e uscire con i suoi due amici Chōta e Karube. Un giorno, dopo essere stato bacchettato per l’ennesima volta da suo padre per il suo stile di vita, Arisu decide di incontrarsi con i suoi amici in una mattina di calda estate al centro di Tokyo.

Per un attimo tutto sembra aver senso per Arisu e prende respiro dalle ansie che gli impediscono di vivere appieno il presente. L’idillio continua fino a quando la piazza di Shibuya viene scossa dal rombo di diversi fuochi d’artificio che illuminano la città nonostante sia pieno giorno.

Chōta, Arisu e Karube

D’un tratto, i tre amici si ritrovano in una versione alternativa di Tokyo. La natura ha preso il sopravvento: la vegetazione si è fatta strada tra i grattacieli che compongono la skyline della città. Sembra non esserci nessuno. La folla di Shibuya è scomparsa e non c’è segno di vita. I tre decidono di esplorare la città in cerca di risposte.

Il sole fa posto alla luna e nel cielo compaiono alcune scie luminose. Arisu, Chōta e Karube si dirigono in uno dei luoghi illuminati. Al loro ingresso nel palazzo di luce inizia il game Dead or Alive. Una voce robotica informa loro che non è più possibile uscire dal palazzo: pena la morte tramite un laser che compare dal cielo. Le regole sono semplici: il gruppo è costretto a scegliere una di due porte in cui entrare entro un certo limite di tempo. Una conduce a morte certa e l’altra è la via per la salvezza.

Viene scoperto in poco tempo che per sopravvivere in questa versione di Tokyo è indispensabile giocare a questi game mortali. Ognuno dei personaggi che è stato trasportato in quel mondo ha un visto con un certo numero di giorni. Al termine del visto, la persona muore. Per ottenere più giorni nel visto è quindi necessario superare i game.

Un qualcosa in cui Arisu si può definire un esperto. Si scoprirà con il passare della serie che molte persone si trovano in questa nuova versione della città. Nessuna ne sa il motivo e tutti sono alla ricerca di un modo per tornare a casa.

Questo è solo il primo episodio di una serie composta da due stagioni tratte dal manga di Haro Aso. Un manga all’apparenza fantascientifico ma che si pone importanti domande sul senso della vita e quanto sia importante viverla al meglio ogni giorno. Nel corso della serie, il passato dei personaggi verrà messo a nudo: ognuno ha il suo motivo per sopravvivere e tornare a casa e, allo stesso modo, ognuno ha un motivo che lo ha portato a sfuggire dai traumi della realtà esattamente come Arisu.

Non mi piace utilizzare troppo la parola “capolavoro” ma credo seriamente che sia uno degli aggettivi che più si addice a questa serie. Ha molti difetti, primo tra tutti un ritmo lento, ma racchiude un grandissimo messaggio di speranza. Anche nelle situazioni più orribili della vita è possibile trovare una ragione per continuare a respirare. Ogni giorno, per quanto cliché possa sembrare, potrebbe essere l’ultimo. Il finale della serie lascia veramente spazio al desiderio di rinascita che ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita. Forse la vita che viviamo non è troppo differente da uno dei game descritti da quel genio di Aso. Non importa quanto siamo bravi: alla fine c’è un game over per tutti. Quello che conta però è vivere al meglio il viaggio che abbiamo scelto di intraprendere.

Molte cose sono cambiate nella mia vita da quando vidi la prima stagione della serie. E, in un certo senso, anche io sono cresciuto insieme ad Arisu in questi tre anni. Alice in Borderland è quel genere di storia a cui ritorni ogni volta che hai bisogno di conforto. Quella versione di Tokyo, esattamente come Silent Hill, è il luogo che ogni anima persa visita per ritrovare la redenzione o la distruzione totale. Altamente consigliato per chiunque.

The First Slam Dunk non si regola: un gioiello d’animazione si rivela un’autentica esperienza cinematografica

Il mio primo approccio con Takehiko Inoue, la mente dietro Slam Dunk, è stato con Vagabond. La storia, i dialoghi, la filosofia e i disegni hanno contribuito a creare una delle rivisitazioni più riuscite della biografia di Musashi Miyamoto, il leggendario samurai realmente esistito che non ha mai perso in uno scontro e che ha avuto il privilegio di morire di cause naturali. È grazie ad Inoue che mi sono approcciato al Libro dei cinque anelli, gli scritti che un ormai vecchio Miyamoto ha lasciato in eredità a chiunque voglia seguire la via del samurai.

Slam Dunk, ovviamente, si tratta di una storia completamente differente a cui non mi sono mai avvicinato prima di questo film. Non sono un grande appassionato di basket e i manga sullo sport (spokon), fatta eccezione per quelli basati sulle arti marziali, non sono tra i miei preferiti. Inutile dire che questo film ha superato di gran lunga ogni mia aspettativa. The First Slam Dunk è uno dei film sportivi più belli che abbia mai visto e che riesce a stare sullo stesso livello del primo Rocky.

L’intera storia ruota su una delle partite più decisive descritte nel manga: il match liceale tra la squadra Shohoku e il Sannoh. Come in molti film sportivi, il tema della rivalsa sociale gioca un ruolo di grande importanza. Lo Shohoku è una squadra di teppisti, bulli, perdenti: il lato più negativo della società giapponese, visti costantemente dall’alto in basso. Ognuno dei membri della squadra ha un passato che ha influenzato negativamente la propria vita ed è come se fossero bloccati in un’eterna aura di mediocrità. Ma, adesso, lo Shohoku ha l’occasione di rivalsa ed è pronto a sfidare l’invincibile Sannoh, l’esatto opposto dello Shohoku: ogni membro della squadra avversaria è un vincente nato con all’interno il player considerato come il migliore del Giappone. Il Sannoh non ha mai perso un match e non c’è nulla che indichi che possa essere sconfitto dallo Shohoku.

Nonostante la meravigliosa premessa della storia, anche se un tantino cliché per il genere, sin da subito nasce un interrogativo: come rendere un film sportivo dal ritmo scorrevole se ci si basa solo su una partita? Vengo subito smentito all’inizio con un meraviglioso flashback in cui vengono, pian piano, mostrate le ragioni che spingono Ryota Miyagi, uno dei protagonisti, ad addentrarsi nel mondo del basket. Ed è così che trovo la risposta al mio quesito iniziale.

Il film si divide in due parti: il trauma emotivo che accompagna Ryota sin dall’infanzia, la perdita del fratello che adorava il basket, e il momento decisivo in cui lui e la Shohoku affrontano Sannoh. Il ritmo è meraviglioso con l’alternarsi di scene d’azione incredibili che si tramutano in sipari profondamente umani e malinconici.

Non sono un esperto di basket, ma la persona che mi ha accompagnato in sala ha giocato come amatore in diverse partite regionali e mi ha detto di essere stato colpito dalla profonda cura che è stata messa nella realizzazione della partita.

Un altro punto di forza è il 3D: come molti, io sono un fan delle animazioni più classiche ma l’elemento della terza dimensione ha accentuato una realtà più autentica e dinamica che, a mio parere, si sarebbe persa senza il suo utilizzo. Al contrario, le scene dei flashback sono in 2D e sono caratterizzate da un ritmo più lento, introspettivo e piacevole. Ogni scena è bilanciata alla perfezione. Ogni personaggio è curato nei minimi dettagli… nonostante non avrei disprezzato qualche scena in più sul roscio Sakuragi.

Una favola moderna fantastica in cui tutti gli underdog e i sottovalutati della vita possono rispecchiarsi. Alla fine del film è partito un applauso: un qualcosa che è capitato, nelle mie esperienze in sala, solo con La La Land. Ogni spettatore è rimasto seduto sulla poltrona ad ascoltare la melodia della colonna sonora portante. Le lyrics tradotte della canzone scorrevano insieme ai titoli di coda. Un momento meraviglioso che mi rimarrà impresso per molto, molto tempo. Non si tratta solo di una trasposizione ben riuscita ma di un’esperienza cinematografica unica nel suo genere. Unica nota dolente: il fatto che il film in lingua originale è stato disponibile solo per il 10 maggio. Avrei voluto tanto di rivederlo in giapponese una seconda volta ma mi accontenterò della versione in italiano. Un film fantastico consigliato a chi ama gli anime, il basket, il cinema o, semplicemente, un’ottima storia. E ora mi tocca aggiungere un altro manga alla mia lista…

I Guardiani della Galassia III: l’anima di un procione si rivela nell’esperienza più orribile della sua vita

L’altro giorno mi sono visto I Guardiani della Galassia III. Non è esattamente il tipo di film che vedo solitamente, ma i primi due non erano affatto male e James Gunn è un regista che sa il fatto suo: adoro il senso di caratterizzazione dei personaggi che ha donato alla sua trilogia e il suo tocco inconfondibilmente emotivo e malinconico mi ha sempre fatto commuovere in più di una occasione. Protagonista indiscusso della pellicola è Rocket, o per meglio dire il suo passato, che è sempre stato accennato nei film precedenti ma mai esplorato nel modo che meritava.

Prima di arrivare a questo punto, però, vorrei spendere un paio di parole sul perché ho adorato i Guardiani sin dal primo film. Il tono scanzonato, provocatorio, divertente e sopra le righe mi ha fatto subito innamorare dell’opera. La scrittura è divina se paragonata al filone dei film della Marvel. La regia meravigliosa. Ma è nella storia che accade la vera magia: soprattutto nel lato umano della pellicola.

Una canzone che ha un certo peso nel film

Nel concreto: un essere umano, un’aliena verde, un procione parlante, un albero senziente e Dave Bautista (categoria a parte) si ritrovano insieme per puro caso e, nonostante le differenze, trovano in ognuno di loro un qualcosa che è sempre mancato nella propria esistenza: una famiglia. Nonostante il tono del film che mira ad un pubblico molto giovane, ognuno dei Guardiani è prigioniero del proprio passato e, a causa di orribili esperienze subite, non riescono ad andare avanti con le loro vite. Sono una banda di reietti, ladri, assassini, guerrieri che hanno sempre fatto del loro meglio per sopravvivere ma che hanno sempre peccato del fatto di non avere uno scopo nella vita: uno scopo che ritrovano nella formazione dei Guardiani della Galassia.

Siamo venuti a conoscenza del passato di Quill, Drax, Gamora ma non di Rocket: non del personaggio che ha sofferto di più. Il tema dell’andare avanti grazie alle connessioni che si creano tramite l’amicizia è uno dei più importanti nei Guardiani. Ma a volte è impossibile scappare da ciò che abbiamo passato e bisogna farci i conti per tutta la vita come afferma l’opening di Full Metal Alchimist. Detto questo non bisogna affrontare quei demoni per forza da soli. Dopo un tentativo di rapimento da un essere misterioso, Rocket è in fin di vita e toccherà al suo team, ancora profondamente scosso dagli eventi accaduti in precedenza, a soccorrerlo.

Ed è qui che il film si divide in due parti distinte: l’escursione nel passato di Rocket, il motivo per cui è un procione che parla, il fatto che possieda un quoziente intellettivo di 250 e la ragione dietro le cicatrici sulla schiena; e, infine, il viaggio dei Guardiani che faranno di tutto per non perdere un membro della loro famiglia. Uno splendido racconto sul superare e, inevitabilmente, convivere con i traumi della vita. Se proprio dovessi il trovare un difetto sarebbero i vari riferimenti delle opere al di fuori del franchising dei Guardiani. Nonostante io abbia visto gli altri due film, alcune cose erano completamente nuove per me: perché c’è un’altra versione di Gamora che non ricorda nulla del suo amore per Quill? Quando hanno detto che Mantis è la sorella di Quill? Sospetto che la risposta a queste domande sia in Avengers Infinity War ma, in fin dei conti, sono stati bravi a riempire queste lacune con qualche spiegone.

Ovviamente nulla da dire sulla colonna sonora e il mitico Awesome Mix III, vero e proprio coprotagonista della vicenda, che rispetto agli altri due capitoli precedenti assume toni più malinconici e cupi. Un film assolutamente consigliato e la degna fine di una trilogia che rappresentava l’anima della Marvel.

Suzume: viaggio on the road in compagnia di una sedia alla ricerca di un gatto per chiudere una porta

Ho visto questo film un paio di volte nel corso della settimana. Il primo è stato subito dopo una sessione di sparring particolarmente brutale con più di 10 round. I pugni che ho preso nel corso di quella mezz’ora mi hanno aiutato ad immergermi completamente nello stile artistico, onirico e surreale dell’anime: firma inconfondibile del regista Makoto Shinkai. La seconda volta è stata in compagnia di una ragazza conosciuta su Tinder che era incuriosita dal film. Considerando che adoro vedere più di una volta i film al cinema, perlomeno quelli che mi sono piaciuti, ho accettato di buon grado la proposta.

Ma ecco le mie considerazioni: la direzione artistica, i disegni e l’animazione sono fuori da questo mondo: ogni frame del film è degno di essere incorniciato ed essere appeso lungo i corridoi di un museo. La colonna sonora è incredibile e il tema di Suzume risuona sin dentro la propria anima con un meraviglioso tu tu rurururururuuuuuu rururururu ruuruuuu…. (nonostante credo di aver espresso egregiamente il ritmo e il suono della canzone, metto il video qui sotto).

Ma veniamo alla trama: Suzume è una liceale come tante che vive in un paesino nella prefettura di Miyazaki (un nome che credo abbia avuto un certo peso in più di un senso). Suzume ha perso sua madre in giovane età ed è stata cresciuta dalla zia. Le cicatrici di quella perdita pesano ancora sul suo subconscio ma, in fondo, riesce a condurre una vita sana. Un giorno incontra per caso Sōta, un ragazzo alla ricerca di una misteriosa porta abbandonata la quale, in realtà, è il portale per un’altra dimensione. Suzume scopre suo malgrado questo mondo e il “verme”: una creatura fatta di fumo che solo lei e Sōta possono vedere. A quanto pare quando le porte vengono aperte, questi vermi giganteschi vengono prodotti per abbattersi sulla nostra dimensione e causare dei terremoti. Il compito di Sōta è quello di prevenire i terremoti e tenere a freno i vermi.

Tuttavia, qualcosa non va per il verso giusto: Sōta viene maledetto da un’entità che faceva da guardiano alla porta, un gattino, e la sua anima viene spostata all’interno di una sedia per bambini, la stessa sedia che la mamma di Suzume aveva creato per lei prima di sparire.

Inizia allora il viaggio di Suzume e di Sōta, ormai una sedia, in un Giappone nostalgico alla ricerca del gatto che ha maledetto quest’ultimo e per chiudere le porte che favoriscono il passaggio dei vermi e causano terremoti.

La trama segue i protagonisti in un lungo viaggio psicologico e surreale in cui Suzume dovrà confrontarsi con il trauma ancora irrisolto della morte della madre. Non ho potuto fare a meno di notare che il film possiede un tono quasi post-apocalittico: a quanto pare la maggiore fonte di ispirazione è stato il terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011, tragedia che ha scosso profondamente il Giappone.

Le porte che i protagonisti ricercano sono all’interno di aree sperdute che una volta erano piene di vita: scuole, luna-park, città che ormai rappresentano scheletri di una quotidianità che è stata persa per sempre. Shinkai ha cominciato a lavorare sulla pellicola nel 2020, poco prima dell’emergenza Covid. Non è stato difficile vedere qualche parallelismo anche su questa tragedia. I personaggi si muovono da soli in aree abbondonate ma, forse proprio per questo, che brillano di una luce propria. Sono costretti a pensare al loro passato esattamente come molti di noi hanno dovuto rielaborare alcuni fatti spiacevoli riportati alla luce dal periodo del distanziamento sociale. Un film che, a grandi linee, mi ha ricordato i romanzi di Murakami.

Un film meraviglioso in cui si sente tutta la maturità tecnica ed emotiva del maestro Shinkai e del suo team: forse il mio preferito subito dopo 5 centimetri al secondo.

Dragonball, lo-fi and Starbucks

One of my favorite places in Milan is Starbucks Reserve. It’s not a normal Starbucks but a mix between a coffee shop and a roastery where you can drink a first-rate coffee blend. It is not the kind of place that I would have discovered on my own, and for this I have to thank my job that allowed me to write a story about it. And if there is one thing I love to mix with my coffee, that’s lo-fi. Holding a steaming cup of coffee in my hands while listening to lo-fi playlists is a ritual I indulge in every Sunday. It would be heaven on earth if it wasn’t for all the customers, but meeting lots of people is quite a high risk in Starbucks. It would be like complaining about the queue at McDonald’s.

On this particular day, with headphones ringing out the remixed openings of Dragonball in the Japanese version, I think back to my childhood and how similar I was to Goku as a kid: thoughtless, cheerful, combative, full of energy and stupid.
I can’t help but think that something must have gone wrong. I don’t have a bad life. I’d even be on the verge of saying that I like the life I’ve created for myself. Still, I can’t stop feeling like I’m living below my potential: I had something as a kid that, trauma after trauma, mixed with loneliness, may never come back.

I have tried many things: boxing, working hard like Elon Musk (or at least pretending), cultivating hobbies, friendships, relationships and so on. I’ve really put a lot of effort into this kind of stuff (even now all these activities take up a large part of my time) and my life has improved exponentially.

But this feeling still remains. Skipping even a workout, neglecting even for an hour my projects and small set backs that happen from time to time inevitably lead me to remember bad moments in my life that I could have avoided if I had been just a little stronger and smarte. I wonder how much more I can punish myslef for the mistakes I made in high school. It’s now been 8 years and I still use that stuff for motivation. It makes me survive but, at the same time, it consumes me. I am more present in the past than in the present (haha).

This brings me back to a quote from Godor, blacksmith of Berserk: “Hate is one of those places where people who can’t face sadness seek comfort. Seeking revenge is like sharpening a blade rusted by blood by immersing it in a pool of blood. To mend the blade of your heart rusted by sadness, you’re sinking it in blood. But the more you sharpen it, the more it rusts. And the more it rusts, the more you sharpen it. In the end, you’ll be left with just a handful of rust.”

I have no hatred and certainly I have no desire for revenge but I still feel that reliving those memories every day is rusting me. Maybe I think they motivate me but, probably, they are just slowly wearing me down. In a way, I am grateful I had those negative experiences. I am convinced that those who have seen the negative side of life can also be able to see the most beautiful one. However, this requires a lot of work, commitment and even a certain amount of delusion.

It’s one of the reasons I’ve always liked Goku: he always believes he can defeat the next opponent no matter what. He certainly isn’t gifted with intelligence and sometimes he should have run away (fortunately there are dragon balls) but his stubbornness led him to literally become a God. It is no coincidence that many shonen protagonists are so incompetent at the beginning ( Naruto, Luffy) are built on this model: they are essentially losers with a heart of gold united by the desire to become stronger and stronger. It wouldn’t be bad if I were more like them. However, as I said before, my life has improved over the years and this, in itself, is a small victory.

Dragonball, vivere nel passato e sfuggire al presente

Uno dei miei posti preferiti a Milano è lo Starbucks Reserve a Cordusio. Non è uno Starbucks normale bensì una via di mezzo tra una caffetteria e una torrefazione dove poter osservare la lavorazione del caffè mentre si beve una miscela scelta di prim’ordine. Non è il genere di posto che avrei scoperto da solo e per questo devo ringraziare il mio lavoro che mi ci ha indirizzato per farci un pezzo di cronaca.

E se c’è una cosa che adoro associare al caffè, questo è il lo-fi (sta diventando un blog tematico, eh?). Stringere tra le mani una tazza fumante ascoltando playlist come questa è un rituale che mi concedo ogni domenica. Sarebbe un paradiso in terra se non fosse per tutti i clienti, ma incontrare persone è un rischio piuttosto alto quando ci si reca da un marchio del genere. Sarebbe un po’ come lamentarsi della fila al McDonald.

Comunque sia, in questo particolare giorno, con le cuffie che risuonano le intramontabili sigle di Dragonball in versione giapponese, ripenso all’infanzia e di quanto fossi simile a Goku da bambino: senza pensieri, allegro, combattivo e pieno d’energia.

Non faccio a meno di pensare: qualcosa deve essere andato storto. Non ho una brutta vita. Sarei persino sul punto di dire che mi piace l’equilibrio che mi sono creato. Tuttavia, non riesco a smettere di avere la sensazione di vivere al di sotto delle mie potenzialità: un qualcosa che avevo da ragazzino e che, trauma dopo trauma, imbastito con un po’ di solitudine che sta bene con tutto, potrebbe non tornare mai più.

Ho provato molte cose: boxe, buttarmi sul lavoro, coltivare hobby, amicizie, rapporti e così via. Mi ci sono impegnato davvero molto (ancora adesso tutte queste attività occupano una gran parte del mio tempo) e la mia vita è migliorata esponenzialmente. Ma questa sensazione rimane. Saltare anche un allenamento, trascurare anche solo per un’ora i miei progetti e piccoli set back che accadono di tanto in tanto mi portano inevitabilmente a ricordare brutti momenti della mia vita che avrei potuto evitare se fossi stato solo un po’ più forte, intelligente e capace. Mi domando quanto ancora possa punirmi per gli sbagli che ho fatto al liceo. Sono passati ormai 8 anni e uso ancora quella roba come motivazione. Mi fa sopravvivere ma, al tempo stesso, mi consuma. Sono più presente nel passato che nel presente (ahah).

Ciò mi riporta a una frase di Godor, fabbro di Berserk: “L’odio è uno di quei luoghi in cui la gente che non riesce ad affrontare la tristezza cerca asilo. Vendicarsi è come affilare una lama arrugginita dal sangue immergendola in un lago sempre di sangue. Per riparare la lama del tuo cuore arrugginita dalla tristezza, la stai inabissando nel sangue. Ma più l’affili, più si arrugginisce. E più si arrugginisce, più l’affili. Alla fine rimarrai solo con un pugno di ruggine”.

Non nutro odio e non ho certo desideri di vendetta ma sento comunque che rivivere ogni giorno quei ricordi mi stia arrugginendo. Forse credo che mi motivino ma, più probabilmente, mi stanno solo consumando lentamente. In un certo senso sono grato di aver vissuto quelle esperienze negative. Sono convinto che chi ha visto il lato negativo della vita possa anche riuscire a vederne quello più bello. Questo però richiede molto lavoro, impegno e anche una certa dose di illusione.

È uno dei motivi per cui mi è sempre piaciuto Goku: lui crede sempre di potercela fare e sconfiggere il prossimo avversario. Non brilla di certo di intelligenza e a volte avrebbe fatto meglio a scappare (fortuna che ci sono le sfere del drago) ma la sua caparbietà lo ha portato a diventare letteralmente un Dio. Non a caso molti protagonisti shonen sono così poco competenti all’inizio (Naruto, Luffy) sono costruiti su questo modello: sono essenzialmente dei perdenti dal cuore d’oro accumunati però dal desiderio di diventare sempre più forti. Non sarebbe male se fossi più simile a loro. Detto questo, come ho detto prima, in questi anni la mia vita è migliorata e questo, già di sé, è una piccola vittoria.

Venice, lo-fi and fireworks

Last year I was in Venice with a girl I liked for the Fireworks Festival. I’m not the type of person who likes to think about the past but this is one of the few memories I have worth reliving. Especially on nights like this where there isn’t much to do and there are only tea and lo-fi to keep me company. We spent three full days touring the city. It was his first time and I had already been there for the Carnival more than ten years during middle school.

We booked a room near Mestre station and in order to get to the center we had to travel by bus. I forgot how beautiful this city is. Walking through the tunnels and narrow streets that led to dead ends blocked by countless water canals was pure magic.

After carrying out the usual tourist activities, we spent whole hours inside the various stands of the Biennale, where exhibitions aimed at representing every artistic expression were hosted. I’m not exactly a fan of modern art but some of the installations were truly remarkable.

We spent one evening on a beach not far from the city centre. X (first letter of her surname)  was tired of the crowd around Venice and I couldn’t blame her so she dragged me to this small beach she found on Google Maps.

We have crossed a small pier abandoned by all. The sun was about to set. Do you know when the colors of the sky take on a red and purplish colour near the sea and the trails of passing planes draw those almost phosphorescent lines in the sky like highlighters on a blue sheet? It is not uncommon to see such a show in a seaside town.

Although I was born in a small town near the sea, this color has always brought me melancholic feelings. As I said, I don’t like thinking about the past since the vast majority of memories related to my teenage years are far from goof. My life began when I was 18 and, fortunately, since then, I have had more than positive experiences. I am not my past but some experiences must be kept with great care in one’s mind. That’s what I think about while listening to lo-fi. I’m not a person who enjoys pictures either but I really want to share that late stage sunset in Venice.

After an indefinite amount of time we got up and walked along the center to watch the fireworks even though, after that sunset, they faded into the background. Yare yare. Sometimes I think lo-fi is the closest thing to a time machine there is. I still feel the scent of the sea, the soft light of the setting sun on my skin and the touch of X on my arm who was cold despite the heat in July. The more I think about it, the more it looks like a Ghibli movie.

I look away from the computer for a moment and pause the music. I breathe and look at my desk: an empty teacup, a notebook, a pen, a highlighter, a Leone mouthguard and a pair of headphones is all I find. It’s always difficult to return to reality but that is where new memories are formed. It’s 11.10 pm and maybe I still have time to stay in Venice with X for another half hour.

Lo-fi a Venezia: fuochi d’artificio e ricordi

L’anno scorso ero a Venezia con una ragazza a cui tenevo molto per il Festival dei fuochi d’artificio. Non sono il tipo di persona a cui fa piacere pensare spesso al passato ma questo è uno dei pochi ricordi che vale la pena di rivivere. Specialmente in notti come questa dove non c’è molto da fare e a farmi compagnia ci sono solo il tè e lo-fi. Abbiamo trascorso tre giorni pieni a visitare la città. Era la sua prima volta ed io c’ero già stato in occasione del Carnevale più di dieci anni nel periodo delle medie.

La compilation di lo-fi che mi ha portato a scrivere questa breve riflessione

Avevamo preso una stanza vicino la stazione di Mestre e per arrivare al centro dovevamo servirci di un autobus. Mi ero scordato di quanto fosse bella come città. Passeggiare tra i cunicoli e le strette vie che portavano in vicoli ciechi bloccati dagli innumerevoli canali era ciò che preferivamo. Dopo aver svolto le solite attività da turista, abbiamo passato ore intere all’interno dei vari stand della Biennale, in cui venivano ospitate mostre volte a rappresentare ogni espressione artistica. Non sono esattamente un fan dell’arte moderna ma alcune istallazioni erano davvero notevoli.

Una sera l’abbiamo trascorsa in una spiaggia poco lontana dal centro della città. X (prima lettera del suo cognome) si era stancata della calca intorno a Venezia e non potevo darle torto perciò mi ha trascinato in questo lembo di sabbia su Google Maps.

Abbiamo attraverso un piccolo pontile dimesso e abbandonato da tutti. Il sole stava per tramontare. Avete presente quando i colori del cielo assumono una tonalità rossa e violacea in prossimità del mare e le scie degli aerei che passano disegnano quelle linee quasi fosforescenti nel cielo come evidenziatori su un foglio azzurro?  Non è raro vedere uno spettacolo del genere in una città marittima.

Nonostante sia nato in una cittadina vicino al mare questo colore mi ha sempre portato sensazioni malinconiche. Come ho detto, non mi piace pensare al passato perché la grande maggioranza dei ricordi legati al periodo della mia adolescenza non sono il massimo. La mia vita è cominciata a 18 anni e, fortunatamente, da allora, ho avuto esperienze più che positive. Non sono il mio passato ma alcune esperienze vanno custodite con gran cura nella propria mente. Questo è quello a cui penso mentre ascolto lo-fi. Non sono neanche una persona da foto ma ci tengo a condividere quel tramonto nella fase più avanzata.

Dopo un tempo indefinito ci siamo alzati e incamminati lungo il centro per osservare i fuochi d’artificio nonostante, dopo quel tramonto, siano passati in secondo piano. Yare yare. A volte credo il lo-fi sia la cosa più simile ad una macchina del tempo che ci sia. Sento ancora il profumo del mare, la tenue luce del sole che tramonta sulla mia pelle e il tocco di X che aveva freddo nonostante il caldo il luglio. Più ci penso, più sembra un film Ghibli.

Distolgo lo sguardo per un attimo dal computer e blocco la musica. Respiro e guardo la mia scrivania: una tazza da tè ormai vuota, un quaderno, una penna, un evidenziatore, un paradenti Leone e un paio di cuffie sono tutto quello che trovo. È sempre difficile tornare alla realtà e al presente ma è lì che si formano nuovi ricordi. Sono le 23:10 e forse ho ancora tempo per restare a Venezia in compagnia di X. Ancora una mezz’ora.

The Sopranos: life and misery of a nobody

When I got my high school diploma, I had to prepare a case study related to some of the courses I followed: Italian, science, English, German and other stuff that doesn’t really makes sense to remember. It’ like trying to resume a corpse you desperately wanted to get rid of. Anyway, at that time I was obsessed by crime tv series and how cool the main characters were, so my case study was “Criminality as a form of super heroism”. The heroes in crime fiction (anti-heroes would be a better definition) are written in such a way to inspire people to be like them. I focused especially on The Sopranos, Breaking Bad, Dexter and others I can’t remember.

The point was that everybody secretly wants to be a gangster. Being respected, have a sort of honourable code, being almost a good guy who is second to none. There are plenty of examples of the romantic aspects of criminality depicted in media. Probably the most famous one is The Wolf of Wall Street. Anyone I met wanted to become like Jordan Belfort: the guy who went to jail and that now is selling his finance courses online on Youtube (Check out his channel with lots of free advices on selling)

The Sopranos, Breaking Bad, Goodfellas

Living such a strong fantasy of power filled with money and women can somehow be dangerous for people approaching this kind of stories with a wring mindset. Sometimes I dreamed about being as smart as Walter White, as ruthless as Tony Soprano and as good in business as Jordan Belfort. It’s kind of sad how psychopaths are seen as winners in this life but that’s the reality of it. They are likeable because they are winners and they embody the type of man that the viewers would like to be. I am not an exception. I don’t want to be part of the mob but sure as hell I would like to be a billionaire and a winner. I was rewatching The Sopranos after 6 years and I realized that I didn’t change a lot. I am still rooting for the bad guy because my life is completely different from theirs. There is a line from the Goodfellas that always resonated with me.

Becoming someone

At the end of Goodfellas, it might seem as though Henry, the main character, gets off easy by selling out all his friends to the FBI and leave the Mob. But he’s left completely unfulfilled. He had everything he ever wanted and then lost it. Now, he has to live a normal life in the neighbourhood like everybody else.

“I’m an average nobody. I get to live the rest of my life like a schnook.”

He basically says that life is different when you are just a random person without power, social status and money. This doesn’t apply only in the gangster world. People who made it (in every field) truly have a different life: they are happier and more fulfilled. This is why I always watch these kinds of stories to get inspired. Like I said, I don’t want to be a criminal (I would be a terrible one in any case) but I want to be someone.