Sognando con Silent Hill II: infanzia e traumi

Era il 2006. All’epoca avevo 9 anni e frequentavo la quarta elementare. Non era un bel periodo della mia vita. Vivevo in una cittadina lontano da casa. Mi sentivo solo. Non avevo nessuno con cui parlare.  I giorni erano grigi e trascorrevano allo stesso modo: sveglia, scuola, sport, studio e così via. Immagino sia una routine comune per un bambino di quell’età. Le giornate erano così identiche che non riuscivo neanche a distinguerle.

Ma in fondo a questo grigiore senza fine, c’era una luce. Avevo la Playstation 2 e una pila di giochi ereditata dal mio vicino di casa, oltre che alla mia scorta personale. Un titolo tra tutti spiccava. Silent Hill II è un nome che è comparso spesso in queste pagine. Difficile trasmettere le emozioni che provai per la prima volta. Ero confuso, spaventato, disorientato. Non avrei descritto quel gioco come una bella esperienza.

Le lunghe camminate per le strade di Silent Hill immerse nella nebbia più fitta, i mostri dall’aspetto sin troppo umano e la natura brutale e sessuale di alcune scene, mi facevano percepire una forte sensazione di disagio e, a volte, di sporcizia. Un’ulteriore conferma di come Konami abbia svolto un lavoro magistrale nel dipingere un quadro psicologico di una tale complessità.

Non capivo perfettamente la storia. Non afferravo i chiari riferimenti a Carl Jung e David Lynch. Una cosa avevo capito: un tizio cercava la moglie morta in una cittadina piena di mostri. E la trama, almeno all’apparenza, è proprio così.

James Sunderland riceve una lettera da Mary, la moglie deceduta tre anni prima a causa del cancro, che lo prega di tornare e incontrarla a Silent Hill, la città che simboleggiava il loro “posto speciale”. Confuso, James parte alla volta della città ma, una volta giunto, non trova più l’idilliaca Silent Hill di cui conservava un caro ricordo.

Qui tutto è marcio, devastato e abitato da creature, mostri disgustosi ed esseri umani. Nel suo viaggio verso questo inferno, James incontrerà diverse persone. Prima tra tutte è Angela Orosco, una ragazza mentalmente instabile dallo stato emotivo profondamente danneggiato dalle continue violenze sessuali subite dal padre e dall’abuso psicologico della madre.

Silent Hill: purgatorio e ombre del passato

Con il proseguire della trama, James incontra Eddie Dombrowski, un ragazzo in forte sovrappeso che ha avuto gravi problemi di autostima a causa del bullismo. Qui si comincia a percepire qualcosa che non va.

Come mai tutti gli esseri umani che James incontra sono indifferenti al caos che regna a Silent Hill? Perché nessuno è preoccupato dall’avanzare dei mostri deformi che compaiono in ogni luogo della città? Un ulteriore interrogativo viene sollevato quando James incontra Laura, una bambina di 8 anni senza genitori che vaga liberamente per le strade di Silent Hill.

Come si scoprirà, Laura era amica di Maria, la moglie di James, ed è venuta a Silent Hill apposta per vederla di nuovo. Qui c’è decisamente qualcosa che non va. Sembra quasi che i personaggi si muovano in una differente versione di Silent Hill e che questa città richiami un certo tipo di persone.

Una delle spiegazioni più comuni è che Silent Hill ha la funzione di un purgatorio, un luogo in cui chiunque non sia riuscito a superare un forte trauma viene costretto ad affrontarlo. Un purgatorio mutaforme che assume l’aspetto delle paure e delle frustrazioni dell’individuo.

L’arte dietro il concept è stata ispirata ai lavori dell’artista Hans Bellmer

James si sente ancora in colpa per la morte della moglie e non riesce a liberarsi della sindrome del sopravvissuto. Ogni mostro che incontra è pregno di significati allegorici sessuali. Ad esempio mannequin, forse simbolo dell’immaginario collettivo di Silent Hill, un esempio della chiara frustrazione sessuale di James quando Mary lottava contro il cancro. O Pyramid Head, il mostro senza volto che prende con la forza ciò che vuole. Il personaggio di Maria è altresì degno di nota. Maria è la copia fisica di Mary, ma il suo carattere è completamente diverso. Maria è la spogliarellista di Heaven’s Night di Silent Hill. Maria potrebbe rappresentare lo sdoppiamento di personalità di Mary, nonché il desiderio di James.

Ancora in quella città

Cosa dire? Silent Hill II è un viaggio nella profondità della psiche umana che non lascia indifferenti. Non mi stupisce che un gioco talmente pieno di metafore, odio, traumi e redenzione mi donasse una sensazione di sporcizia da bambino.

Il viaggio di James lo porterà finalmente alla verità, al “posto speciale” condiviso con Mary. Sei sono i finali disponibili. Nessuno è canonico. Io posso semplicemente parlare del finale che ho avuto nella mia run che ho completo per la prima volta (non ho mai finito il gioco da bambino) pochi mesi fa. Il finale è intitolato Leave: James ha l’occasione di affrontare il suo passato una volta per tutte e parla con sua moglie per l’ultima volta. James lascia finalmente Silent Hill con Laura. Ha guadagnato il diritto di elaborare il trauma e di abbandonare la città. Silent Hill ha un’anima in meno da tormentare.

Sono grato di aver avuto accesso a questo finale: gli altri epiloghi hanno avuto uno sviluppo decisamente più tetro da quello che ho letto. Eppure, una parte di me sarà sempre legata a quella città. Forse ho abbandonato Silent Hill per il momento. Ma a volte riesco a vederla nei miei sogni. James ha compiuto il suo viaggio. Per me credo che ci voglia ancora un po’.

Ma non mi dispiace.

Nel bene o nel male, io sono ancora a Silent Hill.  

Shenmue I: take it easy

Non sono mai stato un videogiocatore competitivo. I giochi online sono molto simili tra loro. Giocare a call of duty nel 2021 vuol dire entrare in una lobby di gamers di undici anni in preda a sbalzi ormonali che urlano tra di loro: in sottofondo, puoi sentire i loro genitori lamentarsi cercando di capire cosa abbiano fatto di male nella vita precedente. La schermata di caricamento è infinita. La fissazione con i battle royale è insensata. Ne ho provato uno (meglio non menzionarlo): ho corso in una mappa deserta senza incontrare nessuno e dopo venti minuti un cecchino mi ha centrato in pieno. I battle royale sono più solitari (e frustranti) di Shadow of the Colossus.

Preferisco di gran lunga un gioco orientato sulla componente narrativa con il gameplay ridotto al minimo e senza persone. Perché dovrei giocare online? Uno dei motivi per cui sono un giocatore è proprio per prendermi una pausa dalla realtà ed entrare nell’universo narrativo di una persona che odia la realtà quanto me.

Facendo una breve ricerca mi sono imbattuto in Shenmue. La trama prometteva bene: il giovane artista marziale Ryo Hazuki osserva impotente mentre il padre muore per mano di un misterioso uomo cinese in uno scontro corpo a corpo. Ryo medita vendetta ma prima deve scoprire chi è l’uomo che ha ucciso suo padre. Ryo comincia ad investigare e a chiedere a ogni abitante della cittadina di Yokosuka che gli capiti a tiro dettagli sulla strana comparsa dell’uomo cinese.

Qui comincia l’avventura di Shenmue. Il gioco è lento.

Estremamente lento.

La città è realistica.

Estremamente realistica.

Si può bussare a una porta di un’abitazione per chiedere informazioni ma non è detto che chiunque vi sia dentro vi aprirà la porta. Ogni abitante segue la proprio routine. I negozi della città aprono e chiudono a una determinata ora. Se un personaggio vi dovesse dare un’appuntamento per l’indomani voi dovrete aspettare ventiquattr’ore (che credo siano trenta minuti nel gioco).

Ogni giorno Ryo si sveglia alle otto del mattino e può stare in giro in città fino a mezzanotte. Se, tuttavia, dovreste rincasare molto tardi la governante vi dirà di essere più cauti e tentare di tornare a casa prima per non farla stare in pensiero. Ogni abitante ha la propria personalità e linee di dialogo pressoché infinite da utilizzare con Ryo.

Guardate come si preoccupa per Ryo. Quando Ine-san mi ha pregato di tornare a casa presto ci sono rimasto parecchio male. Shenmue ti da la possibilità di deludere genitori che non hai mai avuto.

Ci sono sale giochi, parchi, dialoghi opzionali, quest secondarie che arricchiscono l’esperienza di Shenmue. Se il giocatore sarà abbastanza paziente, Shenmue potrà rivelarsi un’esperienza calda, confortevole e simile a una seconda vita. È incredibile pensare che questo gioco sia stato pubblicato nel 2000. Shenmue ha creato il genere FREE (Full Reactive Eyes Movement) basato sulla massiva interazione del giocatore sull’ambiente circostante e con i personaggi del mondo che lo compone. Senza Shenmue, probabilmente, non ci sarebbero stati giochi come Heavy Rain, Detroit becoming human o Resident Evil 4. La trama di vendetta del giovane Ryo passa quasi in secondo piano. Shenmue è una completa immersione in un mondo video-ludico ai limiti del realismo. Per farvi capire: sono state registrate le reali condizioni atmosferiche durante il 1986/1987 (periodo in cui la storia del gioco si svolge) e sono state inserite nel gioco, dando al giocatore la possibilità di scegliere il tempo atmosferico reale di quel tempo nei pressi di Yokosuka.

I combattimenti, per quanto siano rari, sono ben fatti e responsivi con una buona dose di quick time events (un tasto appare improvvisamente sullo schermo e il giocatore deve premerlo in fretta per permettere a Ryo di reagire). Shenmue è un’esperienza meravigliosa. A volte mi dimenticavo di giocare a un videogioco e camminavo senza fretta tra le strade di Yokosuka, ammirando le vetrine dei negozi e intrattenendomi con i passanti. Shenmue è un’esperienza intima e un gioco d’altri tempi che merita di essere provato.

Spreco di ossigeno: Bloodborne e Berserk (breve riflessione)

Ho giocato a Bloodborne prima di vendere definitivamente la mia playstation 4. Non ricordo neanche perché l’ho venduta. Forse volevo avere più tempo per dedicare alla produttività e ai miei progetti. Mi piacerebbe dire che è andata così… ma così non è stato. Non era un gioco a cui fossi particolarmente interessato ma ne ho sentito parlare bene e così l’ho installato (all’epoca era gratuito se abbonato al servizio playstation plus). Non avevo idea a cosa sarei andato incontro.

L’atmosfera del gioco, l’architettura squisitamente gotica, la soundtrack imponente… questo gioco colpisce sin da subito.

Per prima cosa, come oggi gioco di ruolo che si rispetti, il giocatore deve scegliere la ‘classe’ a cui il suo personaggio appartiene. Alcune classi donano al giocatore statistiche differenti. Ad esempio:

  • la classe ‘passato violento’ aumenta i parametri di attacco, forza, resistenza. Parti da livello 10. Descrizione: ‘Le imprudenze passate ti hanno reso più forte.’
  • la classe ‘nobili origini’ aumenta i parametri di arcano e di echi del sangue (oggetti che rilasciano i nemici uccisi con cui puoi comprare armi, oggetti e abilità). Parti da livello 10. Descrizione: ‘Discendi da un’antica famiglia e confidi delle tue origini.’
  • la classe ‘spreco d’ossigeno’ ha tutti i valori ridotti al minimo indispensabile. Parti da livello 4. Descrizione: ‘Non hai alcun talento. La tua nascita è stata vana’.

Leggere la classe ‘spreco d’ossigeno’ mi ha strappato qualche risata. L’avevo scartata a prescindere dato che Bloodborne ha la fama di essere un gioco difficile. Poi ci ho ripensato. Mi sembrava molto bella la decisione di iniziare la mia avventura con uno zero assoluto e portarlo alla gloria. Così sono diventato uno ‘spreco di ossigeno’. E sono rimasto nell’area di Yarhnam centrale (la prima area di gioco) per circa tre ore.

Tre ore per completare un tutorial e uccidere il primo boss (Cleric Beast) che era del tutto opzionale. Ho avuto la forte tentazione di rinunciare completamente a questo gioco più di una volta. Ero frustato, arrabbiato, deluso e annoiato. Davo la colpa al gioco che la mia esperienza fosse cosi orribile. Qualcosa, però, mi ha fermato. È stata una epifania. La colpa non era del gioco. La colpa era mia: ero una sega. Un titolo come Bloodborne ti da tutti gli strumenti per vincere e per passare al ‘livello successivo’: chiunque può farlo. Se non ce la fai basta ritentare. Una volta. Due volte. Dieci volte. Venti volte. Morirai. Tante. Tante volte. La scritta ‘you died’ comparirà nei tuoi sogni.

Ma la scritta è solo una scritta. Non muori per davvero. Ogni volta rinasci nel sogno del cacciatore. La notte è ancora lunga ed è nella natura del cacciatore quella di cacciare. Perciò ci riprovi. Uccidi più nemici, collezioni più ‘echi del sangue’, fai l’upgrade del tuo armamento e ritenti. Non sei più quello di prima. Sei più saggio, più forte e più competente e usi la frustrazione di ogni singolo fallimento per avvicinarti alla vittoria. Questo gioco è stato una rivelazione: vieni trasferito a forza in un incubo (la trama è criptica) e sai solo che devi cacciare dei mostri che hanno perso il raziocinio in questa notte maledetta. Nel corso del gioco (i più attenti) sapranno mettere al proprio posto i tasselli che compongono la trama di Bloodborne ma per farlo bisogna sopravvivere. Il cacciatore dovrà proseguire il suo viaggio interminabile nell’abisso se vuole vedere la luce. Non è difficile capire come Miyazaki (il creatore di questo gioco e presidente di FromSoftware) abbia preso spunto da un’opera come Berserk (e infinite altre fonti tra cui i racconti di H.P. Lovecraft): sei in un oscuro tunnel. Arrendersi non è un opzione e devi trovare il tuo lieto fine. Da solo.

Un elemento del gioco che mi ha riscaldato il cuore: i messaggi degli altri giocatori. Scegliendo la versione ‘online’ è possibile trovare piccoli messaggi che i giocatori più esperti hanno lasciato nel corso della loro avventura. Bloodborne è un gioco infido e pieno di trappole e imboscate mirate a snervare la salute mentale del giocatore. A volte, se si è fortunati, è possibile leggere alcuni messaggi che avvertono del pericolo: ‘Attenzione. Trappola più avanti,’ per esempio. Alcuni messaggi sono d’incoraggiamento. Poco prima di entrare in una boss battle per l’ennesima volta alcuni messaggi incoraggiano il giocatore: ‘Non arrenderti!’ dicono alcuni; ‘Stai attento,’ dicono altri. A volte, in uno scorcio panoramico particolarmente suggestivo come questo, alcuni giocatori potrebbero aver lasciato un messaggio con su scritto: ‘meravigliosa luna’.

Il semplice fatto che io abbia ammirato la stessa fantastica luna piena in un luogo tanto orribile quanto affascinante come quello proposto da Bloodborne e un giocatore (prima di me) abbia fatto lo stesso mi riempie il cuore di serenità senza neanche capirne a pieno il perché.

Bloodborne è un gioco fantastico che, a mio avviso, può far diventare tutti più resilienti e grati della propria vita. Finire questo gioco come ‘spreco di ossigeno’ mi rende (per quanto strano possa ammetterlo) davvero orgoglioso.

‘Queste note ti sono state utili, Cacciatore?’

Griffith did nothing wrong I- Alcuni pensieri su The Last of Us II

Molte delle mie storie preferite ruotano intorno alla vendetta. C’è un piacere immenso nel vedere qualcuno che ha ricevuto un torto pareggiare i conti. Tu mi hai tolto qualcosa, io tolgo qualcosa a te. Tu mi fai qualcosa, io faccio qualcosa a te. Non è un semplice capriccio vedere la persona che odi sprofondare nell’abisso (soprattutto se sprofonda per mano tua). La vendetta è stata la prima forma di giustizia. Nelle tribù preistoriche la vendetta era vista come un simbolo di potere e chiunque si faceva giustizia da se otteneva il rispetto delle altre persone. Il messaggio era chiaro: ‘Non sono una persona con la quale scherzare troppo‘. Se, al contrario, si rimaneva inermi e sottomessi di fronte a un affronto, si veniva percepiti come esseri deboli e l’intera tribù si schierava con il carnefice adottando la cara vecchia mentalità del ‘cacciatore e preda’.

Non si scordano facilmente certe cose. Solo il titolo che ho messo per questo post farà incazzare qualcuno.

Con il tempo le cose sono cambiate. Si predica il perdono e il lasciarsi tutto alle spalle. D’altronde è meglio vivere felici piuttosto che vivere nel passato e ricordare ogni giorno ciò che ti è stato fatto. Per dirlo con le parole del grande Frank Sinatra: ‘La vendetta migliore è il successo.’

O no?

A quanto pare è stato dimostrato che ottenere vendetta porta benefici alla salute mentale e fisica. Avere soddisfazione personale tramite la sofferenza di coloro che hanno attaccato per primi è scritta nel nostro DNA. Un po’ come dire: ‘Ciò che ho perso (qualsiasi cosa sia) non tornerà ma perlomeno questo cazzone (chiunque esso sia) ha avuto quello che si merita’. Non a caso molte storie nei media utilizzano il leitmotiv della vendetta: è un qualcosa a cui ognuno di noi ha pensato almeno una volta nella vita. Per caso o per fortuna, ultimamente tutto ciò che ho letto, visto e giocato ha avuto a che fare con la vendetta (The Last of Us II, Oldboy, Ricochet, Il Conte di Montecristo). Non parlerò di Berserk…anche se questo blog è dedicato proprio a quell’opera. Bensì partirò da un videogioco che ha fatto parlare di se negli ultimi tempi. Ovviamente parlo di Among usThe Last of Us II.

SPOILER DA QUI IN AVANTI

Questo titolo mi è piaciuto più del primo. Ecco. L’ho detto. Il primo non era niente di speciale.

Cosa c’è da dire su questo titolo?

L’ho adorato: dal primo all’ultimo frame, the Last of Us II racconta una storia semplice ed efficace che esplora i sentimenti di frustrazione, vendetta e PTSD di entrambe le protagoniste, Ellie e Abby. Ognuna ha degli ottimi motivi per desiderare la morte dell’altra. Ellie ha assistito alla morte del ‘padre adottivo’ Joel per mano di Abby, la quale ha visto la morte di suo padre per mano di Joel. Purtroppo la vendetta è un circolo vizioso e potrebbe durare in eterno come dimostra questo gioco. Le condizioni psicologiche e fisiche di Ellie peggiorano a mano a mano che si inoltra nella missione di rendere giustizia a Joel. Dovrà rinunciare ai suoi amici, alla famiglia che aveva a Jackson (la città in cui viveva con Joel) e a non poche norme morali che la distinguevano dai personaggi più ambigui dello scorso titolo. Ellie distruggerà tutto ciò che ha costruito nel presente, come la relazione con Dina, per fare pace con le visioni della morte di Joel che non la fanno dormire di notte. Come dice quel detto: ‘Chi cerca vendetta deve scavare due fosse: una per lui e una per il suo nemico.’

Vivere nel passato porta a condannare il presente e a perdere tutto ciò che si è costruito. Perciò se la vendetta non è un’opzione, il perdono rimane l’unica alternativa. Ellie pare capirlo e lascia andare Abby quando capisce che la sua morte non potrà farle riavere Joel. Un finale che è stato a lungo criticato ma che è profondamente umano. Ellie capisce di aver perso tutto e non vuole che Abby faccia la sua stessa sorte: non vuole che il legame tra lei e il bambino Lev si spezzi a causa sua. Quando Ellie torna a casa: ovviamente non c’è nessuno ad aspettarla. Ciò che restava delle sue conoscenze ha deciso di vivere altrove. Tuttavia, Ellie trova ciò che le apparteneva nel suo studio. Tutto è rimasto com’era prima. Comincia a suonare la chitarra ma nel suo viaggio verso la vendetta ha perso due dita e ha qualche difficoltà: anche l’ultimo legame che aveva con Joel (la chitarra e il fatto che lui stesso le avesse insegnato a suonarla) è andato.

Un ultimo flashback ci viene mostrato: Ellie che rimprovera a Joel il fatto di non averla sacrificata per salvare il genere umano. Joel le dice che avrebbe fatto quella scelta ancora una volta. E ancora. E ancora. Lei era la figlia che aveva perso e il genere umano non significava nulla per lui. Il mondo e le emozioni umane ruotano intorno all’egoismo. Joel non è diversa da Abby che non è diversa da Ellie. Tutti i personaggi sono profondamente umani e vivono in un mondo che di umano ha ben poco. Credo che Ellie abbia capito tutto questo alla fine e decida di fare ammenda. Perdona Joel, perdona Abbie e perdona se stessa. Questo seguito della Naughty Dog si è rivelato essere davvero un gioco brutale. Ognuno qui impara le sue lezioni ma a un prezzo veramente troppo alto.

Quando hai tempo… mi dai la scheda per le braccia, Abby?

Devil May Cry- il videogioco non è male, l’anime?

Quanto mi mancano i videogiochi. L’ultima volta che ho giocato a qualcosa è stata l’estate scorsa. Volevo portare con me la playstation da casa… ma ho tanto da fare e temevo che avere una console mi avrebbe solo distratto. Peggiore decisione della storia. Ho molto tempo adesso. Uno dei miei generi preferiti è l’hack ‘n’ slash che significa letteralmente ‘tagliare e squarciare’. Si trattano di giochi in cui esiste una forte componente dedicata al combattimento: Bayonetta, Darksiders, Ninja Gaiden, la vecchia trilogia God of War… dite che non è un hack ‘n’ slash? Kratos letteralmente ‘taglia e squarcia’ per più della metà del tempo che lo osserviamo. God of War III è personalmente il mio preferito. Trucidare un pantheon di dei è il sogno di chiunque. Il God of War nuovo, invece, non mi è piaciuto più di tanto: la storia è bella, la caratterizzazione dei personaggi è credibile e il corso degli eventi è fluido. Cosa manca? Il caro, vecchio Kratos che prima uccideva e poi parlava. Non il Kratos babysitter e Mimir con le sue battute fuori luogo alla Eddie Murphy.

Bellissimo titolo… ma non l’ho percepito come un vero ‘God of War’. Tipo se andassi a vedere al cinema ‘2001 Odissea nello spazio’ e ci fosse scritto ‘diretto da Tarantino’. 2001 è un capolavoro (come il nuovo God of War) ma quando leggo ‘diretto da Tarantino’ mi aspetto qualcosa di diverso e pieno di sangue: stesso discorso con God of War. Ha senso?

Ma immagino che ormai sia diventata una moda cambiare completamente la natura di un videogioco che fa parte di una serie: god of war, assassin’s creed… no, solo questi. Non mi vengono altri esempi. Volevo fare il radical chich ma (grazie al cielo) non ci sono riuscito. Uno di questi giochi hack ‘n’ è stato uno dei primi titoli che acquistai per playstation 3. Il fantastico ‘Devil May Cry 4’: un titolo marchiato con il ferro nel mio cuore. Forse l’ho adorato perché avevo dodici anni ed è stata una delle mie prime esperienze da gamer. Forse l’ho adorato per il sistema di combattimento e gli enigmi. Forse l’ho adorato per il simbolismo religioso. Un titolo fantastico che mi ha fatto affezionare a Nero e Dante, i protagonisti della serie. Ho accolto con sorpresa il fatto che avessero prodotto una serie anime dal videogioco. Ho iniziato a vedere la serie con tutti i pregiudizi del mondo (solitamente videogiochi, cinema e serie televisive non vanno proprio d’accordo), ma mi è piaciuto veramente tanto. Ecco cosa ne penso:

La trama di Devil May Cry la conoscono quasi tutti: il figlio del leggendario demone Sparda e l’umana Eva è un investigatore privato che possiede l’agenzia investigativa ‘Devil May Cry’. Il suo nome è Dante e il suo compito è quello di trovare e uccidere i demoni. Ovviamente, la stragrande maggioranza di persone non è minimamente a conoscenza che il mondo sia popolato da demoni e l’agenzia di Dante è sempre vuota sempre sull’orlo del fallimento economico. Dante è sempre al verde e vive la situazione con distacco emotivo, sempre con la battuta pronta e una personalità tenebrosa e affascinante. In più di un’occasione il buon Dante mi ha ricordato Dylan Dog per questo aspetto. La somiglianza con i due, però, finisce qui. Dante è un grande pistolero e sa maneggiare la spada (no pun intended), difensore dei più deboli e con un discreto successo con il sesso femminile. L’anime non ha una vera e propria trama: lo spettatore osserva Dante destreggiarsi nelle varie missioni che gli vengono proposte con sporadici attimi di pausa per ammirarlo nelle situazioni quotidiane. I personaggi sono ben scritti e ci numerose interazioni con Lady (una cacciatrice di demoni alleata di Dante introdotta in Devil May Cry 3) e Trish (un demone dalla forma femminile): entrambi personaggi originali della serie che stringono l’occhio ai fan di lunga data. Avendo solo giocato al quarto, conoscevo solo Trish. Tuttavia la serie ha un arco completo con un inizio e una fine e non c’è alcun bisogno di aver giocato alle fonti originali per capirci qualcosa.

Dante: il carismatico rubacuori abile con la pistole intento a studiare una strategia per massacrare l’ennesimo demone.

Le animazioni, la colonna sonora, la storia e le relazioni tra i personaggi sono più che buone. Un prodotto assolutamente consigliato per chi volesse perdersi in una storia di ‘cacciatori di demoni’ senza troppe pretese. Dodici episodi che scorrono come l’acqua: non è male per un binge-watching. Ovviamente, però, il cuore dell’universo di Devil May Cry risiede nei videogiochi e chiunque voglia conoscere affondo Dante (e Nero… praticamente un Dante 2.0) è caldamente consigliato di giocare alla fonte originale.

Doki Doki Literature Club! Solitudine e impotenza

I videogiochi sono stati la mia passione per anni. Il mio primo gioco in assoluto è stato pokemon rubino per gameboy advance. Bei ricordi quelli. Con il tempo, ho sempre coltivato questa passione diventando un fedelissimo cliente di casa Sony. Purtroppo oggi non ho più il tempo che avevo una volta… chi prendo in giro? Vado all’università. Volendo avrei tempo per programmare un gioco tripla A ogni due mesi. Comunque sia, sono uno studente con sede all’estero e dove sono ora -top segreto- non possiedo una console. Il punto è che non gioco più spesso come vorrei. Un paio di anni fa si vociferava di un gioco horror dalla trama così spaventosa e ben fatta da far gelare il sangue del più temerario dei giocatori.

Era un horror psicologico d’azione alla Outlast?

Era il seguito di Silent Hill ? (Lo avevi promesso, Konami…)

Niente di tutto questo. Il gioco trattasi di una visual novel (GRATUITA) che ti metteva nei panni di uno studente del liceo che entra nel club di letteratura della sua scuola. Gli altri membri del club sono ragazze che sembrano essere innamorate di noi.

Da una parte abbiamo Natsuki (la preferita di chiunque abbia un minimo di gusto): la tsundere per eccellenza; è quel tipo di ragazza che finge indifferenza e disprezzo nei confronti del protagonista ma in realtà è segretamente innamorata di lui.

Si prosegue con la bella Sayori: la nostra amica di infanzia con la testa fra le nuvole e che spera di diventare più di un’amica.

Yuri… ciao Yuri.

E, per ultima, ma non per importanza, Monika, la leader del club che non ha difetti: bellissima, atletica, prima della classe e via dicendo.

Chi sceglierà il nostro protagonista che non è così interessato al mondo della letteratura? Riuscirà una di queste ragazze a rapire il suo (tuo) cuore?

Tipica copertina di un gioco horror. Da sinistra a destra abbiamo: Sayori, Yuri, Monika e Natsuki.
Monika e le sue calze piene di simbolismo…

Prima di tutto partiamo dalle basi. Una visual novel, come è intuibile dal nome, è un romanzo digitale in cui il giocatore può scegliere diverse opzioni di dialogo e giocare la sua storia personalizzata. Nel corso della storia, le quattro ragazze mostreranno un interesse verso il giocatore, il quale dovrà scegliere chi di più solletica il proprio interesse. D’altronde queste ragazze sono l’unica ragione per cui il personaggio principale (inserire il vostro nome) decide di entrare a far parte del club di letteratura. I primi minuti di gioco sembrano usciti da una favola. Non sono un grande appassionato di storie d’amore e harem, tuttavia la scrittura che accompagna il giocatore alla conoscenza del club di letteratura e il vivido interesse che le ragazze mostrano per il giocatore (ci sono state scene in cui ho arrossito per i complimenti) denotano sin da subito la cura maniacale con cui questo gioco è stato creato.

Stai criticando la mia scrittura, Yuri?

Però… c’è un però. Sono passate un paio d’ore da quando ho installato il gioco. Le opzioni di dialogo sono fantastiche. Adoro leggere le poesie delle ragazze (si… leggere le poesie è componente fondamentale del gioco. Ma come ha fatto questo titolo ad avere più di un milione di download?)

Ma dov’è la componente horror?

All’inizio del gioco-poco prima dell’installazione- il titolo recita: non giocare a questo gioco se soffrite di depressione. Non mi sono dimenticato di quell’affermazione. Allora perché il gioco ha un’atmosfera così meravigliosa e rosa? Perché non c’è conflitto? Perché leggo poesie?! (Nonostante siano poesie meravigliose, tranne quelle di Natsuki). Proprio dopo essermi posto questi interrogativi, la vera natura del gioco si è manifestata e ho cominciato a guardare la fatica del team Salvato (gli sviluppatori del gioco) con nuovi occhi.

SPOILER

Ragazzi miei… sapevo che c’era qualcosa di strano e che Yuri non fosse del tutto normale. Sapevo che queste ragazze fossero innamorate di me per una ragione oscura. Dopo che Sayori confessa i nostri sentimenti per noi, il giocatore si ritrova con due scelte: accettare i suoi sentimenti per noi e dichiarare che anche noi proviamo lo stesso o friendzonarla come se non ci fosse un domani. In entrambi i casi, Sayori si suiciderà e il gioco andrà in crash (per chi non fosse avvezzo a certi termini, il gioco smetterà di funzionare). Non ci resta che avviare il gioco di nuovo.

“An exception has occurred”… Eri troppo pura per questo mondo, Sayori.

La storia ricomincia da capo, solo che non ci sarà più Sayori. Il giocatore non si ricorderà più di lei e, per fortuna, Monika riesce a distogliere il personaggio principale dal pensare alla povera Sayori. Il giocatore dovrà di nuovo scegliere con quale ragazza dovrebbe passare il suo tempo libero, ma ora le opzioni sono più ridotte di prima: Sayori non è più disponibile e Monika… non è mai stata un’opzione da poter scegliere. Scegli di innamorarti di Natsuki. Scegli di innamorarti di Yuri. Poco cambia poiché moriranno entrambe. Yuri si scoprirà avere un’ossessione per il giocatore che la porterà ad impazzire e, infine, a suicidarsi. Natsuki, invece, verrà uccisa senza alcuna (apparente) spiegazione. Solo Monika è rimasta.

Monika. Non abbiamo più molta scelta se non Monika. E qui si incomincia a intravedere la realtà. Le ragazze non esistono più. La scuola non esiste più. Esiste solo Monika. Just Monika. Quella stessa Monika che si rivolge al giocatore: non parla più al personaggio principale ma al giocatore stesso. Monika era al corrente di essere dentro a un videogioco. Le ragazze erano programmate per innamorarsi del giocatore. Monika era l’unico essere cosciente della realtà del videogioco: lei voleva disperatamente riunirsi con il giocatore e, per farlo, è costretta ad uccidere le sue amiche. Monika è esattamente come il giocatore: sola e bisognosa di affetto. Non mi stupisce che alcune persone nella vita reale si siano innamorate di lei e sono cadute in depressione (da qui, l’avvertenza di non giocare al gioco). Non mi stupisce che Doki Doki abbia avuto un successo così globale nonostante non sia un videogioco “vero”. Monika fa leva sulle emozioni del 90 percento delle persone che si rifugia nei videogiochi per mancanza di contatto umano: questa di certo non vuole essere una critica e non voglio dire che tutti quelli che giocano hanno una mancanza sotto quel punto di vista. Io, però, posso perlomeno parlare di me stesso e, nel mio caso, devo dire che è vero.

Monika… sei un assassino. Io non ti perdono ma ti capisco.

Se non provassi quella particolare sensazione di vuoto e di mancanza, non cercherei di migliorare me stesso con lo studio, il pugilato, il powerlifting e la scrittura. Doki Doki esplora la solitudine come nessun altro gioco e lo fa lasciandoti l’amaro in bocca. Alla fine, il giocatore (noi, il vero personaggio principale) è costretto a ‘uccidere’ Monika cancellando il file del suo personaggio dalle cartella delle proprietà del gioco su STEAM… facendo così, non solo il giocatore si sente in colpa di uccidere un personaggio che considera come ‘vivo e senziente’ ma la meta narrativa (una storia dentro una storia, consapevole di essere finzione) acquista così un nuovo grado di originalità ed efficacia: questi obiettivi non sono cosa da poco.

Il gioco finisce con una nota dolente: nessuno ottiene ciò che vuole: non Monika, non le altre ragazze e neanche il giocatore stesso. Tutti intrappolati in un mondo senza nessuna via d’uscita. Eccetto il finale segreto in cui le ragazze possono trovare un minimo di sollievo. Per sbloccarlo è necessario passare il tempo libero con tutte e tre le ragazze e salvare prima del suicidio di Sayori. Dovete completare il gioco tre volte. Ovviamente non cambierà molto, ma farete felici le tre ragazze che vi ringrazieranno per aver speso il vostro tempo prezioso con loro. Non un lieto fine, ma un qualcosa che accresce di molto la capacità narrativa di un titolo fantastico come Doki Doki Literature Club.

Consigliato? Assolutamente. Potete scaricare il gioco in questione su Steam o sul sito ufficiale del gioco.

Applicare le regole dell’arte della guerra di Sun Tzu in Shadow of the colossus

Un altro venerdì. Un altro fine-settimana in cui sopravvivere. Come ogni venerdì degno di questo nome, esco dalla mia palestra, mi preparo qualcosa da mangiare, metto in ordine i miei appunti, accendo la mia Playstation 4 e metto qualche gioco comprato in offerta il giorno prima. Questa volta è il turno di Shadow of the Colossus, un remake di un gioco molto più anziano, comperato al modico prezzo di dieci euro. A dire la verità, avevo già sentito parlare di questo titolo nella mia esistenza. Difficile non conoscere la fatica di Team Ico anche quando non ho vissuto a pieno la generazione della Playstation 2.

Un capolavoro di videogioco a detta di alcuni. Una rottura di palle con una bella grafica a detta di altri. Lasciandomi alle spalle le opinioni di queste persone, mi addentro nella Forbidden Land con il protagonista Wander (nome meraviglioso) insieme al suo cavallo Agro e al cadavere della principessa Mono(noke). Non avrei di certo saputo che avrei sconfitto 6 colossi in meno di dieci ore (lo so, è tanto, ma io sono uno di quelli che esplora la mappa in lungo e largo per osservare i panorami).

Non parlerò della grafica meravigliosa che accompagna il giocatore in uno degli scenari più belli che il mondo dei videogiochi abbia mai presentato. Non parlerò della struggente e semplice storia d’amore che porta Wander a intraprendere un viaggio tanto epico quanto solitario.

Parlerò, invece, della perseveranza di Wander nella sua impresa contro i sedici colossi sotto la lente d’ingrandimento dell’opera di Sun Tzu, l’Arte della Guerra. Mi spiego meglio. Nel post precedente, ho spiegato come l’Arte della Guerra mi abbia aiutato a fare luce su alcuni elementi determinanti per il successo di una persona che a me ovviamente mancano (un saggio su come vincere e sottomettere i propri avversari scritto da un generale militare cinese del VI secolo A.C.)

Cosa centra questo con Shadow of the Colossus? Probabilmente nulla. Tuttavia, nel percorrere le lande desolate della Forbidden Land con l’unico suono degli zoccoli di Agro a penetrare il suolo e il fischio del vento a muovere le sabbie del deserto, ho avuto un paio di momenti per pensare a come Shadow of the Colossus possa essere interpretato come un inno alla persevaranza e all’egoismo umano.

Non ho trovato nulla di nobile nell’impresa di Wander, ma ho percepito in lui una determinazione e una forza di volontà che raramente si trova nelle persone (ma mi rendo conto che è un videogioco?). Per vincere la sua guerra, per ottenere il suo obiettivo (non farò spoiler, ma la trama di Shadow of the Colossus la sappiamo tutti, non è vero?) Wander dovrà sconfiggere sedici colossi, ognuno, presumibilmente, più forte di lui. L’intero gioco è diviso in due blocchi principali: trovare il Colosso grazie al raggio di una spada che ha la stessa funzione di una bussola e, infine, uccidere il Colosso.

Una parte di pura introspezione in cui Wander è immerso nei suoi pensieri insieme al giocatore che, nel frattempo, è immerso nei suoi di pensieri. Una parte di azione in cui Wander, una volta trovato il Colosso, elabora una strategia per ucciderlo.

Il gioco ha pochi dialoghi e la storia è ridotta all’osso. Wander, l’eroe solitario, farà qualsiasi cosa per uccidere i Colossi. Ciò che mi ha colpito di più è la perseveranza e la calma che animano le azioni del protagonista.

Da qui, tre delle regole dell’Arte della guerra presenti in Shadow of the Colossus:

  • Conosci te stesso:

Wander non ha neanche il bisogno di capire a fondo questa frase. Il suo amore per Mono lo porterà dentro al cuore delle Forbidden Land. Conoscere se stesso, in questo caso, è conoscere il tuo desiderio.

  • Il generale non deve combattere se il suo cuore è animato dalla rabbia:

Trasformare la rabbia in perseveranza. Non ha senso provare rabbia e tristezza per la morte di Mono. Nel suo mondo, esiste un modo per riportare in vita i morti. Ciò è abbastanza per Wander per sopprimere le proprie emozioni e portare avanti un’impresa tutt’altro che nobile.

  • Gli esperti nell’arte della guerra inducono a combattere e non fanno mai la prima mossa:

Questa è un pò forzata considerando che i colossi non sono essere umani ma delle entità antiche che non sembrano nemmeno interessate ad attaccare Wander ma solo a difendersi. Tuttavia, l’anti-eroe di questa storia (controllato dal giocatore), osserva come il suo avversario si muove sul campo di battaglia, lo induce all’attacco scoccando una o due frecce e, presumibilmente, elabora una strategia che possa portarlo più vicino all’abbraccio di Mono… sono lacrime queste?

Indurre il nemico all’attacco e gestire le proprie azioni dalla sua reazione… Non fate caso alla barra della stamina di questo tizio. Imbarazzante a dir poco.

Detto ciò, posso sicuramente affermare di aver forzato ogni singola regola di Sun Tzu in questo piccolo, grande capolovoro di videogioco che meriterrebe una remaster per ogni generazione di console. Ecco, invece, un’altra massima che vale la pena di ricordare, la mia preferita:

  • Con ordine, affronta il disordine; con calma, affronta l’irruenza. Questo significa avere il controllo del cuore.

Forse, se Wander avesse seguito il consiglio di Sun Tzu, avrebbe potuto evitare di far nascere la dinastia dei bambini con le corna che abbiamo imparato a (non) conoscere in Ico.