Guts’ theme (racconto breve)

C’è una palestra all’aperto vicino al posto dove lavoro.

Non che due sbarre di metallo arrugginito, un sacco da boxe di gomma piuma sventrato e una panca per gli addominali possano essere definiti come una ‘palestra’ ma sono grato di essere a due passi da tutto ciò. È un angolino nascosto nel cuore del parco pubblico di S. e nessuno, se non gli abitanti del quartiere, sa della presenza della ‘palestra’. Il sole è alto e la farmacia in fondo la strada informa i passanti che ci sono ventotto gradi.

È l’una e il mio turno inizia all’una e mezza. Mi tolgo la camicia e resto in jeans stretti. Il sudore mi cola sulla fronte per il solo sforzo di respirare. Mi appendo alla barra e comincio a fare dieci trazioni. Il cuore comincia a battermi forte. Non perché faccio fatica a portate la mia testa sopra la sbarra ma perché la mia mente è rivolta al turno di lavoro che mi aspetta tra poco.  Invece di fermarmi e riposare, faccio altre cinque trazioni per schiarirmi la mente. Ora sono abbastanza stanco per poter pensare lucidamente.

Ogni ora prima di lavorare mi prendono i crampi allo stomaco. Immagino sia un meccanismo di autodifesa del mio sistema immunitario. Da bambino mi succedeva la stessa cosa prima di andare a scuola. Crampi allo stomaco e nausea per tutto il giorno. Non è cambiato assolutamente nulla da quando avevo 12 anni. Ora sono passati dieci anni e ho ancora la nausea.

Attacco di nuovo con le trazioni. Ne faccio dieci e poi ne faccio due con una sola mano. Lo sforzo è così grande che per un singolo istante la mente si schiarisce e sorrido al nulla. Un mese fa non sapevo farne neanche una di trazione a mano singola. Questo mi da la convinzione (o l’illusione) che con il tempo anche la mia vita possa cambiare. Un passo alla volta, giusto?

Cammino fino al sacco e tiro un jab molto pigramente. Il sudore vola sull’erba secca. Il sacco si sposta a malapena. La gomma piuma che penzola dal sacco vibra impercettibilmente. Questa è ormai la mia routine da un mese. Dirigermi al lavoro due ore prima del mio turno e passare mezz’ora nella ‘palestra’, un luogo che appartiene solo a me, distaccato dalla realtà. Qui posso essere ciò che voglio. Qui non sono prigioniero della realtà. Ci sono solo io.

A volte mi viene da pensare che cosa accadrebbe se restassi in quel parco per sempre. Confinato nella stretta superficie della ‘palestra’. So già la risposta. Non accadrebbe nulla di importante.  Il mio telefono squillerebbe un paio di volte (immagino due o tre chiamate dall’ufficio). Poi arriverebbero i messaggi. Poi le vibrazioni nella tasca dei miei jeans.

Poi il nulla.

Arriverebbe la sera e i grilli comincerebbero a cantare indisturbati dalla mia lunga ombra proiettata sulle sbarre di ferro. Probabilmente nessuno si accorgerebbe più della mia assenza. Forse qualcuno ne sarebbe persino rallegrato. Il mio corpo diventerebbe parte integrante di quella ‘palestra’ e osserverei anche io le persone che vagano nel parco cercando di dimenticare il passato e scappare dal presente modellare la propria schiena con qualche trazione di troppo.

Questo pensiero mi fa sorridere. Guardo l’orologio. È quasi ora. Mi incammino verso il posto di lavoro a torso nudo senza degnare di uno sguardo la camicia. Devo cambiarla in ogni caso.