Ho sempre odiato la scuola. Mi piaceva imparare. Alcune materie le trovavo persino interessanti. Ciò che non sopportavo era svegliarmi alle 07:00, prendere i mezzi pubblici e parcheggiarmi per sei ore su una sedia in mezzo ad altri 22 ragazzi. Non mi sono mai sentito a mio agio nei luoghi sovraffollati e alcune persone, soprattutto gli insegnanti, non facevano che rinfacciarmelo. “Perché non parli mai?” “Sei muto?” E, spesso, queste considerazioni da premio Nobel provocavano più di una risata tra i miei compagni di classe. Dicono che la scuola ti prepari alla vita e non potrei essere più d’accordo.
La scuola ti prepara a passare il resto della tua vita a svegliarti presto, a incurvati le spalle su una metro, a passare le giornate con persone che preferiresti evitare, ad ascoltare i tuoi superiori (insegnanti, capi: fa lo stesso) a dirti cosa fare con un vago cenno di frustrazione nelle loro voci perché anche loro non vorrebbero essere in quel posto.
Forse la faccio un po’ tragica. Non tutti gli insegnanti erano così male e non tutti godevano nell’asserire autorità a dei ragazzini con rimarchi più che discutibili. La maggior parte sì. Credevo di essere l’unico ad aver avuto un’esperienza orribile al liceo ma sta di fatto che non è così. Con chiunque abbia avuto modo di parlare, la scuola – soprattutto il liceo – è stato percepito come un periodo se non orribile, perlomeno negativo. Ma, come direbbe il professor Oak in Pokémon, non è questo il luogo o il momento per muovere una critica al sistema scolastico. La scuola è essenziale per la crescita mentale di un individuo. Letteratura, matematica, arti, scienze: tutto è fondamentale. Ma la scuola raramente si basa sull’apprendimento delle materie, basandosi di più su una burocrazia infondata e insensata che non porta a risultati tangibili.
Come avveniva il confronto con il mio professore nella mia testa. Montante e gancio sinistro. Una delle mie combinazioni preferite.
Si sta avvicinando la mia stagione preferita, l’autunno. Già oggi ho visto un bambino insieme alla mamma che comprava un quaderno a righe e un compasso. Ciò mi ha fatto tornare alla mente ricordi che avrei preferito dimenticare. Ore e ore della mia vita a sentirmi inadeguato e depresso in un’aula anonima di provincia. L’unica cosa positiva di quel periodo era la mia ragazza e Il Trono di Spade. A pensarci bene, forse, la colpa non è del sistema scolastico ma solo mia. Se avessi avuto una bella esperienza le mie parole sarebbero ben diverse.
Eppure, sono grato di non essere più uno di quei bambini costretti a varcare le porte di un liceo. E sono ancora più grato di non essere uno che varca le porte di un ufficio. Ogni volta che entravo in quei posti mi sentivo un animale pronto per essere macellato. Forse anche i Pink Floyd si sono sentiti così. Quel video è stata un’esperienza catartica.
Io lo sono stato per troppo tempo. Mi ricordo ancora quando mio padre mi diceva: “Adesso odi la scuola ma da grande ti mancherà tutta questa spensieratezza e vorrai tornare indietro per rivivere questi meravigliosi anni!”
Preferirei un avvelenamento da cianuro piuttosto che rivivere quegli anni. Ho ventiquattro anni, un pelo grigio nella mia barba da tre giorni, lavoro da remoto, ho quattro paia di jeans e vivo in una casa in affitto lontano dal posto in cui sono nato. Non è molto ma in confronto a quell’obbrobrio della mia vita a sedici anni mi sento Elon Musk. E, cosa più importate, ho un obiettivo, un sogno e qualcosa di tangibile a cui aggrapparmi. Quella scuola non è stato altro che un inferno per me. Credevo di averla lasciata una volta per tutte dopo un ricco 95/100 alla fine degli esami. Ma le cicatrici sono ancora qui dentro di me. A volte odio me stesso per lasciare che il passato mi influenzi ancora. Ho una lunga strada di fronte a me ma sono fiducioso.
Sono grato di ciò che mi è successo. Le esperienze negative possono essere tanto utili, se non più utili, di quelle positive. I rimpianti sono per i perdenti. Ciò che è accaduto è accaduto. Tanto vale imparare la lezione e andare avanti. Non si può cambiare il passato, ma si può agire nel presente e cambiare il futuro. Questo è già qualcosa.
Buona fortuna per chiunque sia ancora alle prese con le mirabolanti avventure nel sistema scolastico.
C’è una palestra all’aperto vicino al posto dove lavoro.
Non che due sbarre di metallo arrugginito, un sacco da boxe di gomma piuma sventrato e una panca per gli addominali possano essere definiti come una ‘palestra’ ma sono grato di essere a due passi da tutto ciò. È un angolino nascosto nel cuore del parco pubblico di S. e nessuno, se non gli abitanti del quartiere, sa della presenza della ‘palestra’. Il sole è alto e la farmacia in fondo la strada informa i passanti che ci sono ventotto gradi.
È l’una e il mio turno inizia all’una e mezza. Mi tolgo la camicia e resto in jeans stretti. Il sudore mi cola sulla fronte per il solo sforzo di respirare. Mi appendo alla barra e comincio a fare dieci trazioni. Il cuore comincia a battermi forte. Non perché faccio fatica a portate la mia testa sopra la sbarra ma perché la mia mente è rivolta al turno di lavoro che mi aspetta tra poco. Invece di fermarmi e riposare, faccio altre cinque trazioni per schiarirmi la mente. Ora sono abbastanza stanco per poter pensare lucidamente.
Ogni ora prima di lavorare mi prendono i crampi allo stomaco. Immagino sia un meccanismo di autodifesa del mio sistema immunitario. Da bambino mi succedeva la stessa cosa prima di andare a scuola. Crampi allo stomaco e nausea per tutto il giorno. Non è cambiato assolutamente nulla da quando avevo 12 anni. Ora sono passati dieci anni e ho ancora la nausea.
Attacco di nuovo con le trazioni. Ne faccio dieci e poi ne faccio due con una sola mano. Lo sforzo è così grande che per un singolo istante la mente si schiarisce e sorrido al nulla. Un mese fa non sapevo farne neanche una di trazione a mano singola. Questo mi da la convinzione (o l’illusione) che con il tempo anche la mia vita possa cambiare. Un passo alla volta, giusto?
Cammino fino al sacco e tiro un jab molto pigramente. Il sudore vola sull’erba secca. Il sacco si sposta a malapena. La gomma piuma che penzola dal sacco vibra impercettibilmente. Questa è ormai la mia routine da un mese. Dirigermi al lavoro due ore prima del mio turno e passare mezz’ora nella ‘palestra’, un luogo che appartiene solo a me, distaccato dalla realtà. Qui posso essere ciò che voglio. Qui non sono prigioniero della realtà. Ci sono solo io.
A volte mi viene da pensare che cosa accadrebbe se restassi in quel parco per sempre. Confinato nella stretta superficie della ‘palestra’. So già la risposta. Non accadrebbe nulla di importante. Il mio telefono squillerebbe un paio di volte (immagino due o tre chiamate dall’ufficio). Poi arriverebbero i messaggi. Poi le vibrazioni nella tasca dei miei jeans.
Poi il nulla.
Arriverebbe la sera e i grilli comincerebbero a cantare indisturbati dalla mia lunga ombra proiettata sulle sbarre di ferro. Probabilmente nessuno si accorgerebbe più della mia assenza. Forse qualcuno ne sarebbe persino rallegrato. Il mio corpo diventerebbe parte integrante di quella ‘palestra’ e osserverei anche io le persone che vagano nel parco cercando di dimenticare il passato e scappare dal presente modellare la propria schiena con qualche trazione di troppo.
Questo pensiero mi fa sorridere. Guardo l’orologio. È quasi ora. Mi incammino verso il posto di lavoro a torso nudo senza degnare di uno sguardo la camicia. Devo cambiarla in ogni caso.
Oggi ho rivisto il film di American Psycho per la quarta volta nel corso della mia vita. Ogni volta è come se fosse la prima volta. Un film magistrale tratto da un romanzo che definisce la letteratura moderna insieme a Fight Club e Trainspotting. Patrick Bateman ha tutto nella vita: un lavoro ben retribuito a Wall Street, un attico nella zona più lussuosa di New York (ma che non si affaccia su Central Park… fottuto Van Allen e le sue prenotazioni al Dorsia), un fisico scolpito da allenamenti quotidiani nelle palestre più esclusive di New York.
Eppure Patrick è preda di una grande insoddisfazione personale. Odia il suo lavoro, odia le apparenze, odia i continui confronti con i suoi colleghi eppure sono questi ultimi su cui si basa la sua vita.
Prenota il locale migliore per la sera. Prendi il vestito migliore. Fatti di steroidi. Fatti una lampada due volte a settimana. Sii un membro produttivo, rispettabile della società. Per Patrick, però, non è abbastanza. Vuole essere il migliore sotto qualsiasi aspetto.
‘Se odi tanto il tuo lavoro perché non te ne vai?’ mi chiede Evelyn.
‘Perché voglio integrarmi…’
Ed è proprio il bisogno sfrenato di essere superiore e di essere accettato che porta Patrick alla follia. Tra un allenamento e l’altro, infatti, Patrick Bateman uccide e tortura diverse prostitute, senzatetto e amiche della sua Università. La sua facciata da ‘ragazzo della porta accanto’ si fa sempre più sottile rivelando una persona essenzialmente fragile e preda dell’opinione degli altri.
Il suo continuo mentire sulla sua presunta amicizia con Donald Trump ne è un chiaro esempio così come la sua frustrazione per non riuscire ad effettuare una prenotazione al locale più esclusivo di Manhattan, il Dorsia.
American Psycho parla delle ossessioni di un uomo che, semplicemente, non si sente abbastanza e della sua conseguente frustrazione su se stesso e su gli altri: Patrick è una vittima passiva di una società consumistica di cui diventa sempre più difficile far parte. Non riesce a vivere senza continuare ad ottenere di più per compiacere persone che disprezza. Non vuole essere lasciato in disparte. La soluzione? Scatenare il suo malessere con se stesso verso gli altri. Fantasie e azioni di violenza si mescolano alla sua routine fatta di palestra, bevute con gli ‘amici’, cocaina e concerti. Forse questo è l’unico modo in cui Patrick possa trovare sollievo nella sua missione per integrarsi.
Tuttavia Patrick è una persona di successo ma non riesce a vederlo. La sua visione è oscura e distorta dal perenne confronto con gli altri in questioni davvero banali da cui ne esce quasi sempre perdente. Ad esempio, il confronto dei format dei biglietti da visita in ufficio.
Eccetto la salute mentale, gli impulsi omicidi e la completa sociopatia di Patrick credo che ci sia qualcosa o due da imparare da lui; prima tra tutte, la voglia di vincere.
E, a mio parere personale, credo sia questo il messaggio di American Psycho: non criticare aspramente la società consumistica e yuppie ma di aspirare alla grandezza e alla ricchezza con una mentalità equilibrata e logica, senza lasciare che il giudizio degli altri (positivo o negativo che sia) ti trasformi in un mostro. Credo che questo messaggio non sia tanto rilevante quanto oggi. È difficile trovare un uomo di successo ma ancora più difficile è trovare un uomo equilibrato… ed è questo che porta realmente al vero successo.
Durante le vacanze di Natale la biblioteca della mia Università era aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. In quel periodo invertivo il giorno con la notte e varcavo le porte della biblioteca intorno a mezzanotte. Le sale erano completamente vuote. In quel periodo dell’anno tutti se ne tornano a casa dai propri genitori. Chi è che rimarrebbe da solo in una cittadina del Galles dove piove sempre nel periodo di Natale? Solo io e un orfanello con una cicatrice sulla fronte a forma di saetta.
Lo-fi, Monster e tempi andati
C’è qualcosa di magico nello stare da soli in una biblioteca mentre fuori piove e la pioggia scende lentamente sulle vetrate a mosaico raffiguranti due leoni rampanti (il simbolo dell’università). Ci sei solo tu.
Tu, te e te stesso seduti in un tavolo immenso da quindici persone. Il rumore del tuo respiro e della pioggia accompagnano le parole che scrivi insieme alla ronda del custode notturno che si fa vedere ogni due ore e ti offre una porzione dello spuntino preparato dalla moglie (arrosto con patate). La ventola di areazione del tuo portatile fa il suo lavoro (quasi) silenziosamente.
Passano ore.
Ho finito il lavoro per cui avevo sentito il bisogno di entrare in biblioteca (un tema sul cinema francese di Godard o qualcosa del genere) ma non voglio andarmene. Non piove più. Non voglio andare a casa. Apro il computer, digito ‘youtube’ e tra i video consigliati c’è un’immagine accattivante di una ragazza con le cuffie che studia china sui libri. Il titolo è: ‘Lofi hip hop mix Beats to Relax Study to 2018’.
Ci clicco sopra senza pensarci troppo e guardo le ultime gocce di pioggia colare dal mosaico di fuori. Il tempo vola. Non faccio neanche caso alla musica che non riesco a capire se sia malinconica, rilassante, triste o un curioso mix tra le tre. Penso alla fortuna che ho avuto ad andarmene di casa e non tornare per tre anni di fila. Penso a quanto sia bello vivere in un posto che mi piaccia sul serio. Infine penso a quanto sia bello il semplice fatto di essere semplicemente in vita. Mi alzo dalla sedia, cammino per quindici minuti fino al distributore automatico e mi concedo una Monster gelata al modico prezzo di due sterline e dieci. Ritorno al mio posto, stringo la lattina ricoperta da una patina di ghiaccio con entrambe le mani fino a quando non perdo parzialmente la sensibilità nelle dita e bevo un sorso.
Probabilmente questo è uno dei ricordi più belli della mia vita.
Al minuto ’09:05′ del video Lo-fi vedo sorgere l’alba. La cittadina è completamente addormentata. I lampioni rischiarano la fitta nebbia che avvolge quel posto tanto simile a Silent Hill. Il signor custode mi saluta e io ricambio. Apro la finestra dall’altro lato della biblioteca e il profumo dell’erba tagliata bagnata dalla pioggia mi sveglia più della Monster.
Tutto questo è successo più di tre anni fa sullo sfondo musicale del genere Lo-fi. Ogni volta che la ascolto ripenso a quella notte e a quel periodo fatto di solitudine e riflessioni. Quanto mi manca.
Yare yare. Perché apprezzo veramente qualcosa solo quando non ce l’ho più?
Non che questo abbia importanza. Fino a quando avrò una lattina di Monster, un foglio bianco e musica riuscirò sempre a vedere un’alba magnifica.
Esiste qualcosa di peggiore che osservare un foglio bianco di word per ore senza avere la minima idea di cosa scrivere? Mi è capitato due ore fa. Cercavo di continuare il mio romanzo (fermo ormai da un mese a 15000 parole) e l’unica cosa che sono riuscito a scrivere è stata una semplice frase che troveresti in un libro di grammatica delle elementari: ‘la macchina era lì’. Non è la prima volta che capita e, di certo, non sarà l’ultima. Non penso esista una definizione generale come una malattia chiamata ‘blocco dello scrittore’, ma credo sia la manifestazione delle nostre paure personali che si materializzano quando cerchiamo di fare il nostro lavoro.
Forse è la paura di non avere abbastanza talento per raccontare una storia. Forse è la paura di non riuscire ad esprimesi al proprio meglio. Forse è perché la trama è a un punto morto e solo un elaborato quanto banale deus ex machina può salvarla. In ogni caso, non essere produttivi (a meno che non sia per scelta) non è mai un buon segno.
Ho ideato una breve lista di ciò che mi aiuta ad annientare il mio ego e proseguire il mio lavoro senza perdere la sanità mentale quando combatto con il foglio bianco esattamente come Guts cerca di non perdere la sanità mentale indossando l’armatura Berserk.
Guts combatte nello stesso modo in cui scrivo: perde la propria ragione per poi essere salvato da una strega (nel mio caso un energy drink).
NUMERO UNO
Scrivere qualcosa che non sia connesso alla storia che vuoi raccontare. Forse il problema è che sei troppo innamorato del romanzo che stai scrivendo (bene), vuoi renderlo perfetto in ogni riga (bene) e credi fermamente che sia il tuo capolavoro (bene, bene, bene). Però, forse, proprio perché sei innamorato della tua storia hai paura di rovinarla con un avverbio di troppo o uno sviluppo di trama che non ha senso. Nonostante questi dubbi siano più che legittimi, la paura può fare tanti danni quanto la presunzione nella stesura di un romanzo. Potresti considerare l’idea di scrivere qualcosa di interamente sconnesso dal tuo progetto principale: una storia breve, una descrizione, un dialogo, una piccola sceneggiatura, un blog, una email. In tal modo non avrai troppe paure di rovinare un progetto secondario e, magari, avrai il coraggio di ritornare al lavoro sulla tua opera magna e superare il blocco.
NUMERO DUE
Ascoltare musica. Lo so. Molti sono divisi su questo argomento. Alcuni pensano che la musica aiuti la creatività. Altri pensano che distragga. Io sono a favore della seconda ipotesi ma è un parere del tutto personale. Murakami ha scritto gran parte dei suoi romanzi (se non tutti) sullo sfondo musicale di jazz, Beatles e musica soft rock (piuttosto intuibile dai riferimenti senza fine nei sui libri). Stephen King ascolta Metallica e Anthrax. Io preferisco le melodie senza parole tra cui le composizioni orchestrali di Hans Zimmer (la mia preferita è la soundtrack de L’ultimo Samurai) e le sigle di chiusura degli anime (tra tutte, ‘Shock’ di Attack on Titan). Le ascolto solo per macchiare d’inchiostro la pagina bianca e rompere il silenzio assordante della mia mediocrità.
NUMERO TRE
Leggi qualcosa se non riesci a buttare giù nulla. Ogni scrittore dovrebbe essere prima un lettore. Il desiderio di scrittura dovrebbe sorgere dal desiderio di contribuire al mondo della letteratura con una storia ispirata ad altre. Leggere ed imitare sono fondamentali per ampliare i propri strumenti di scrittura. Leggere classici (sono classici per un motivo) e la letteratura moderna potrebbe essere una buona idea. Proprio oggi stavo rileggendo American Psycho. Leggere un romanzo talmente bello come quello, a volte, mi deprime poiché so che la scrittura di Breat Easton Ellis è divina e inimitabile. Tuttavia, il desiderio di creare qualcosa di simile è più forte di una inutile insicurezza. In più, a mio parere, non è male mettersi in competizione con individui di grande talento: è una occasione di crescita e aumenta la resilienza.
NUMERO QUATTRO
Esercizio fisico. Utile per far salire il sangue al cervello. Murakami corre ogni giorno 10 chilometri prima di scrivere. Ti aiuta a pensare con più razionalità e calma. Qualsiasi cosa va bene: un’ora in palestra, una corsa, una passeggiata, shadowboxing mentre pensi al destino avverso che la Mano di Dio ti ha riservato in un mondo fatto di lacrime e sangue mentre cerchi la tua vendetta. Il sudore aiuta a preservare il quoziente intellettivo nel processo di invecchiamento, aumenta il testosterone e offre nuovi spunti di scrittura, superando il blocco.
NUMERO CINQUE
Premiati. Stai per sederti su una sedia e scrivere in completa solitudine per (si spera) più di un’ora. Molti abbandonano l’idea della scrittura dopo un quarto d’ora su word a scegliere il font. Se non sei tra quelli, sei già nella top 60% degli aspiranti scrittori. Datti una pacca sulla spalla prima di incominciare e fai qualcosa di carino nei tuoi confronti. Nella tua carriera troverai molti rifiuti, molte delusioni e molte critiche verso il tuo lavoro (se sei fortunato). Pensa al presente: per il momento, sei da solo, di fronte al computer con in mente la trama del romanzo che cambierà la definizione stessa della narrativa (per quel che ne sai). Prenditi un caffè, un tè, una barretta proteica con almeno 20 grammi di proteine (per me una Monster bianca fredda è l’ideale) e sii la tua personale cheerleader. Se non lo fai tu, difficilmente lo farà qualcun altro.
Supporto morale e fisico in lattina. Ideale contro il blocco dello scrittore.
NUMERO SEI
Stabilire un ritmo. Diventerà sempre più facile eliminare i momenti di blocco se si scrive ogni giorno. L’ideale sarebbe puntare a un certo numero di parole da scrivere giornalmente e attenersi al proprio programma di scrittura.
‘Tutto diventa più facile. Bisogna farlo ogni giorno. Quella è la parte difficile. Però diventa più facile.’ Bojack Horseman (mi pare).
La costanza aiuta in qualsiasi disciplina. La scrittura non è un’eccezione.
Spero questi consigli siano stati d’aiuto o perlomeno moderatamente interessanti da leggere.
Lunghi giorni e piacevoli notti, fellow Strugglers.
Questo è il mio terzo posto post in cui menziono Musashi Miyamoto. Ho sviluppato una leggera ossessione su di lui ma credo di essere giustificato: un ronin (samurai senza padrone) che non ha mai subito una sconfitta e che è morto di vecchiaia è una figura che appartiene più alla leggenda che alla storia. Musashi, poco prima della sua morte, compose il ‘Dokkodo’ in cui elenca le 21 regole per seguire la ‘Via della Solitudine’ che porta al successo personale.
“Accettate tutto nel modo in cui esso è”. “Non cercate il piacere in sé e per sé”. “In nessun caso dipendete da una parziale sensazione”. “Pensate leggermente di voi e profondamente del mondo”. “Siatene staccati dal desiderio per tutta la durata della vostra vita”. “Non rammaricatevi di ciò che avete fatto”. “Non siate gelosi”. “Non fatevi rattristare da una separazione”. “Il risentimento ed il rimpianto non sono mai appropriati né per se stessi né per gli altri.” “Non lasciatevi guidare da un sentimento di amore o di lussuria”. “In tutte le cose non abbiate preferenze”. “Siate indifferenti a dove vivete.” “Non ricercate il gusto della buona cucina”. “Non mantenete il possesso più di quanto sia necessario”. “Non agite seguendo le credenze comuni”. “Non collezionate armi né fate pratica con le armi al di là di ciò che è utile”. “Non temete la morte”. “Non cercate di possedere i beni o feudi in ragione della vostra vecchiaia”. “Rispettate il Buddha e gli dei senza contare sul loro aiuto.” “Si può abbandonare il proprio corpo, ma è necessario preservare l’onore”. “Mai smarrire la Via”.
Una vita molto dura sacrificata per il sogno di diventare lo spadaccino migliore del Giappone. Una vita senza alcuna soddisfazione, se non per il proprio lavoro, vale davvero la pena di essere vissuta? Musashi non ha avuto alcuni legami personali (nonostante non sia chiaro, quasi tutte le fonti storiche dubitano sul fatto che avesse moglie, figli o amicizie) e ha vissuto seguendo le proprie regole, rendendo il suo sogno realtà affinando ogni giorno l’arte della spada e seguendo la via del guerriero in completa solitudine. Si può davvero chiamare vita? Nel mio modesto parere: si. Ogni persona di successo il cui nome viene inserito nei libri di storia ha votato la propria vita a un sogno e un’ambizione molto più grande di loro. Hanno rifiutato ogni singolo compromesso per arrivare ai vertici del loro sogno. Mi chiedevo perché in quasi tutte le routine dei personaggi che più hanno successo, la componente dello ‘svegliarsi presto’ sia così essenziale.
-Elon Musk: sveglia alle sette (del mattino, ovviamente).
-Donald Trump: sveglia alle cinque e mezza (dichiara di dormire tre o quattro ore per avere più tempo produttivo)
-David Goggings: sveglia alle tre.
-Haruki Murakami: sveglia alle quattro. Scrive per sei ore. Fa una corsa di dieci chilometri al giorno… What a madlad.
Sono sicuro che lo stesso Miyamoto si svegliasse all’alba a esercitarsi con la spada. Dalla mia prospettiva ci sono diversi motivi per svegliarsi così presto:
Ci sono meno distrazioni.
Puoi ritagliarti tempo per te.
C’è meno competizione e ti senti una bestia. Chi è il pazzo che si sveglia alle 4 per andare a correre? Chi è il folle che lavora al proprio romanzo prima di attaccare il suo turno a lavoro?
La giornata inizia meglio se ti concentri sui tuoi progetti e sul tuo benessere.
Ho provato per tre mesi a svegliarmi considerevolmente presto. I primi giorni andavano bene ma dopo una settimana ricadevo nella mia vecchia routine. È difficile togliersi un’abitudine. Appena pensi di aver vinto una tua dipendenza, il giorno dopo cadi a terra come chiunque si sia battuto con Tyson quando aveva vent’anni.
Per motivarmi penso al futuro. A come sarebbe bello cambiare, vincere e rendere il mio sogno realtà. Pensavo a tutto questo quando mi sono svegliato alle quattro del mattino e ho corso per 11 chilometri (un chilometro in più per sentirmi superiore a Murakami). Alla fine mi faceva male persino quando respiravo. Non sono estraneo al cardio ma era da un mese che non correvo. Ho visto l’alba sulla riva del mare. Ho pensato a Musashi Miyamoto che vinse il suo duello contro il grande maestro Sasaki Kojiro su una spiaggia in un’isola vicino a Kokura. Ho pensato a Murakami che corre prima che il suo ultimo lavoro venga pubblicato e venduto. Ho pensato a Elon Musk e SpaceX. Per poco sono stato in pace.
Anche io voglio intraprendere ‘la via della solitudine’. Anche io voglio vincere cominciando dalla mattina. Oggi è stata una buona giornata (per adesso). Spero sia la prima di una lunga serie.
A diciannove anni partii per Londra con un biglietto di sola andata.
Lo so.
Non è originale come meta ma penso sia la prima destinazione che ti viene in mente quando non hai molta esperienza e non hai le palle per andare oltre oceano. Comunque sia, partii verso settembre e alloggiavo in una camerata d’ostello condivisa con altre sette persone. Immaginatevi otto uomini chiusi in una stanza grande quanto un salotto con quattro letti a castello, una doccia, uno specchio e un lavandino. Dormivo sul letto di sopra posizionato accanto alla finestra che si affacciava su un cimitero così grande che si andava a perdere nell’infinito, da qualche parte, all’orizzonte. Era uno spettacolo fantastico: le tombe gotiche si confondevano tra i rami spogli degli alberi di inizio autunno, il terreno era ricoperto da un manto soffice di foglie che scricchiolavano sotto i passi dei visitatori. Ho passato più di una notte insonne a osservare quel cimitero, il quale mi riempiva di una grande sensazione di pace e di melanconia.
Alcuni dei tramonti più belli li ho visti proprio lì. Mi ricordo che uno dei miei sette compagni di stanza mi offrì una lattina di Monster sul finire del pomeriggio (preciso momento in cui sviluppai una dipendenza da energy drink) e guardammo insieme il tramonto. Per un momento, non c’erano preoccupazioni per il futuro né ansie sociali inutili: solo due persone appena conosciute che si godono il sole tramontare sulle tombe con la fredda aria settembrina londinese a scompigliarci i capelli e le luci dei lampioni accendersi lentamente.
Leggere Murakami mi offre quelle stesse sensazioni: malinconia, stupore, meraviglia, accettazione, un certo senso di familiarità e un certo senso di solitudine.
Mi sono messo in testa di leggere ogni suo singolo libro e credo di essere a buon punto. Ultimamente ho letto ‘A sud del confine, a ovest del sole’: un volume smilzo di appena 200 pagine.
La malinconia di Murakami
Hajime è un bambino solo costretto a rapportarsi con la solitudine sin dall’infanzia. Ogni suo compagno di classe ha almeno un fratello o una sorella. Nel Giappone del dopoguerra era molto raro essere figli unici. Hajime fa di questa sua solitudine una fortezza impegnandosi nella scuola e nello sport senza però instaurare alcun legame. Tutto questo cambia quando conosce Shimamoto, una bambina tanto sola quanto lui. I due cominciano a conoscersi e a condividere le proprie passioni tra cui la lettura e la musica. Dopo le elementari, Shimamoto cambia casa e scuola ma Hajime riesce comunque a trovare il modo per vederla. Il rapporto non si evolve dalla semplice amicizia con cui era nato tuttavia entrambi sentono un legame profondo, speciale e fisico l’uno per l’altra.
Con il passare del tempo le visite si fanno sempre più rade. La vita va avanti e Hajime si convince a non mantenere i contatti. Lui stesso è insicuro di questa decisione. Forse ha paura di essere ferito. Forse ha paura che Shimamoto non voglia la sua compagnia. Sia quel sia, Hajime, si ritrova ben presto al liceo dove esplora se stesso tramite una relazione con una ragazza di nome Izumi e che tradirà con sua cugina. Il tradimento di Hajime provoca un collasso emotivo a Izumi che si rinchiuderà in se stessa tagliando ogni contatto con Hajime.
Gli anni vanno avanti. Hajime è sempre solo e ripensa costantemente all’unica persona con cui abbia avuto una connessione speciale: Shimamoto. A volte pensa di tentare a ricontattarla ma qualcosa lo blocca. Decide che è meglio concentrarsi sulla propria vita. Conclude gli anni all’Università, trova un lavoro insoddisfacente in una casa editrice e, a trent’anni, si sposa con una ragazza incontrata in un viaggio (ovviamente) in solitaria: Yukiko.
Hajime rimane folgorato da Yukiko, dalla quale avrà due bambine. Apre un locale in cui si suona musica jazz dal vivo e ottiene una certa fama a Tokyo. Ha una vita fortunata ma, come lui stesso ammette, a tratti appare vuota e artificiosa. Non ha mai avuto sogni o ambizioni, né provato grandi gioie. La vita semplicemente scorre fino a quando non ritrova Shimamoto nel suo locale. Sono passati più di due decenni ma lui la riconosce subito.
Con lo sfondo della malinconica musica jazz del locale, i due parlano per ore. Qualcosa in Hajime si riaccende e (forse) si interroga su come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato a frequentare Shimamoto.
Lungi dall’essere una storia d’amore, ‘A sud del confine, a Ovest del sole’ di Murakami è la cronaca di un uomo indeciso non tanto sotto l’aspetto del romanticismo quanto sul trovare un significato alla propria vita. Tutto appare malinconico e senza scopo per lui. L’esistenza delle ragazze che ha avuto (Shimamoto, Izumi e Yukiko) scandisce il senso del tempo passato a vivere passivamente.
Forse Yukiko (sua moglie) corrisponde al presente. Izumi è un fantasma del passato e dei suoi errori. Shimamoto, invece, è un grande ‘forse’; più la personificazione di un concetto che una donna. L’idea di Shimamoto (e il fatto di averla incontrata dopo molti anni) aiuta (forse) Hajime a scappare da un passato insoddisfacente e da un presente mediocre.
Leggere Murakami è sempre una esperienza agrodolce. Lo spirito di questo libro è lo stesso che permea le pagine di Norwegian Wood, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, Kafka sulla spiaggia e, in minor parte, la fine del mondo e il paese delle meraviglie. Lo stile di scrittura è semplice e raffinato con ben pochi giri di parole. Ormai leggere Murakami, per me, è come parlare con un amico osservando insieme il sole sorgere in un cimitero: un’esperienza bellissima e melanconica.
Il tema di Hank Moody motiva come poche cose al mondo. Californication è uno dei miei anime preferiti!
Come ho accennato nel post precedente riguardante il mio training arc e quello di Tanjiro, ho un ritmo di scrittura che sto cercando di rispettare ogni giorno. Senza essere troppo fiscale, miro alle 1500 parole al giorno. Non importa cosa scrivo: appunti per lo studio, questo blog o narrativa. L’importante è che lo faccio. Qualche volta, come oggi, mi sento particolarmente stacanovista e ho deciso di sforare.
Sarà perché sono stato ispirato dal tema musicale di Hank Moody.
Sarà perché ho finito di leggere Ham on Rye di Bukowski per l’ennesima volta.
Ecco un post leggero e senza pretese che da qualche delucidazione sul mio training arc. Innanzitutto, la maggior parte dei manga ha un ‘training arc’: ovvero quel capitolo dedicato alla crescita dei personaggi principali tramite duro allenamento. In questo post ho deciso di accostarmi a Midorya di My Hero Academia: un ragazzo che sogna di diventare un eroe ma che è nato senza poteri (ne ho parlato ampiamente negli articoli precedenti). Un giorno Midorya ha l’occasione di ribaltare la situazione grazie all’incontro con il suo idolo, All Might (per gli acculturati, Oromighto). Inizia così il suo duro allenamento fisico per diventare degno di ereditare il One for All.
Ho già usato questa immagine, ma è la mia preferita. Empatia a mille.
Mi piace definire la mia routine quotidiana come una specie di ‘training arc’ del tutto personalizzato. Studio, scrittura, esercizio fisico e lavoro. Nel post precedente dedicato a me e Tanjiro (il protagonista di Demon Slayer), ho condiviso la mia prima storia breve che ho pubblicato in un giornalino gallese… niente di importante, ovviamente (quella rivista letteraria la conosceranno in cinquanta persone). Qui, ho deciso di condividere un’altra mia storia (in inglese) che non ho mai avuto il coraggio di inviare a un editore.
Così… tanto per.
Volevo condividere l’incipit del mio primo romanzo di due anni fa… ma ho deciso di dare questa storia al suo posto. Perché? Perché mi serve per una cosa molto segreta per un torneo Tenkaichi letterario segretissimo (chissà quale sarà…) In realtà l’avevo pubblicato ieri mattina, ma l’ho cancellato recentemente. Avere un traffico medio di tre followers aiuta in questi casi!
Comunque sia… ecco la storia breve. Solo per chi è interessato dato che non è il contenuto principale del blog. Il titolo è ovviamente un riferimento a Silent Hill 2. Non ci ho mai giocato. Però la soundtrack è fuori da questo mondo.
Heaven’s Night
I can see the neon lights turn on, then off, then on again. The “t” seems to have a problem or two: it is slightly brighter than the others. This is the kind of place you think exists only in the movies.
Heaven’s Night
I carefully observe my reflection in the dark glass of the building. Two frozen lakes under a cascade of blonde hair like gold. The neon lights shine through my red gold chain strap sequin plunge Bodycon dress by Armani. It is so tight I can barely breathe. I am wonderful. More than wonderful. I am divine. Too divine to be in a queue.
I am just a beginner. There is time…
Maybe I like what I see too much so I look elsewhere. The music changes. The pretty girl in front of me screams, moving her hands in the air at the rhythm. Her not-so-pretty friend timidly joins her.
I would be timid too if I looked like that.
The doors open and we are suddenly allowed to check out the inside of Heaven. You can see the red lights caressing the completely white surface of the dancing floor. A topless girl, as tall as you would think God is, swallows a shot in front of a group of guys and she spits the liquid on them. Her white high heels are of the same color as her skin. The boys in the group punch each other fighting for her saliva. The girls in front of me giggle and they breach Heaven. They disappear into Nothingness. Music changes. The doors are closed once again. I am next.
“Who are you?” asks the man who I reasonably think is the bouncer. His ponytail and his cheap perfume make me think he is a bum.
“Whatever you want me to be,” I tell him biting my lips.
“You look like 13.”
“So, what? Not young enough for you?”
“ID.”
I giggle as I say, “I don’t need one.”
“And why is that?”
I raise my left hand so he can see the mark. I have a smile that is projected just slightly above my elbow.
J
“I am with Mainyu.”
The bouncer doesn’t act too surprised as he opens the doors of Heaven for me.
“How much flesh is there going to be?” I ask with a smile. I didn’t want to talk to a bum like him but then I remembered that quote from that writer ‘If you want to see the true measure of a man, watch how he treats his inferiors.’ I am so kind. I want to see his face illuminated by the kind words of a goddess.
He does not answer. My laugh dies on my face.
Why is he not laughing?
I hate him. I wish he would die in front of me. I am having difficulties to breathe as he is watching me without any expression of intelligence in his eyes. I’d gladly give my life to make him suffer. I would love to plunge my nails into his throat and drink his blood. But, I don’t. Instead, I say:
“See you on the other side!”
The doors are finally open. It’s my turn in Paradise now. The music increases its pace. I know the song. It is an old remix of the even older song “I don’t care anymore” by Jim Collins. Instead of the guitar, there are bongos.
You even wrote a song to show the world you don’t care about your divorce.
“SO FULL OF HAPPY THOUGHTS AS ALWAYS…” A hard-body with tinted blond hair wearing a black side-buttoned notched–collar wool jacket and a fitted cashmere turtleneck grabs my waist.
“WHY DID YOU MAKE ME QUEUE, MAINYU?” I shout to him and Phil Collins as he directs me away from the crowd.
“Oh-oh-oh!”
“Oh-oh-oh, WHAT?” I ask irritated.
“Oh-oh-oh, look at you! You just entered the industry and you already want the special treatment! You really have some guts, doll!”
“I AM BETTER THAN ANYONE ELSE! YOU SAID THAT!”
“SAVE IT FOR LATER, LILITH!” he interrupts me. I bit my lips hard enough to make them bleed. “I WANT YOU TO MEET THE OTHER MEMBERS OF THE SABBATH!”
“ARE THEY MODELS TOO ?!”
He doesn’t answer. Why does he not answer me? The world is unfair and I am the biggest victim of all.
“Oh-oh-oh!”
“Shut up! I thought we were friends!” I scream.
We reach the bar counter. I am on the verge of saying I need a drink, but I suddenly think that there are going to be plenty of them at the lounge. I just hope the people there know who I am. The music changes into a remix of The Demon Dance by Julian Winding. I love that song and the world suddenly appears to be a little more colorful. Once again, I have faith in life despite the horrible way people treated me.
As I try to forget the traumatic experience I have been through, we go upstairs and a bouncer who wears a Searls leather biker jacket and a Tobago patched jeans in blue waves bend the knee as he sees Mainyu. I get a little excited. It makes me wonder how long should I wait before people do that for me too.
Before entering the lounge Mainyu touches my shoulder. I can see the mass of people clubbing just beneath me. I grin. The lights of Heaven Night change color at the rhythm of the music. Blue. Red. Blue. Red. Blue. This is mine. This is all mine.
“This is not yours yet. Try to make a good impression,” he whispers to me as the Demon Dance begins to fade.
“This is our opportunity to make it big. You want to be a real model, don’t you?”
“I would do anything,” I whisper back passing the tongue on my lips.
“This is what I am talking about.”
The bouncer steps back and lets us enter. All I see is black.
“Are you food or sex?” someone asks me as I enter. Mainyu is just behind me. I try to reach his hand but he pretends not to notice.
“Christ! Refn! Can’t you see she is a girl?”
“So? There is a 50 percent chance…”
Heaven’s Night. All I see is light.The neon lights show the symbol of Mainyu all over the place. The smile. I can see them. Not entirely. The man wears a Ted Baker Tailored Fit Black Dress Suit. Short. Pair of glasses. New York’s accent. Maybe Hebrew?
The woman wears a Lani Dress as black as the color of her skin. Now it is red. Now is blue. Now is red again.
“I am not a girl,” I mutter. I hate myself because I don’t sound confident enough.
“That’s obvious. Girls do not wear sequin plunge Bodycon…”
I can sense my own insecurity. I am better than them. They are beneath me. The entire world is beneath me. Even God is beneath me. I should not feel this way. Mainyu laughs as he introduces me.
“She is Lilith. She is going to be the next big star.”
The woman smiles at me, “First Sabbath?” she asks.
“But not last,” I reply as Mainyu tells me to sit just next to the man called Refn. I know him. The entire west coast knows who he is.
“Nice,” he mutters as he fills four glasses with Champagne Dom Pérignon Rosé directly from the gift box in the limited edition released in 2005. I take my glass. I press my lips on the top the glass and I observe the print of my lipstick.
Damn, I realize with shock. I am avoiding eye contact.
“Now, just to make everything clear…” Mainyu says. “We have 20 minutes for the feast. The doors will be completely closed. The walls are soundproof. Lilith will stay with me. She is a first timer. Refn and Miki will be together. We will meet again outside. Doubts?”
No one says a word. I try to drink my champagne when Refn stops me. He shows me a pill in the palm of his left hand.
“Are you sure you want to club without Devi-Devi?”
I take the pill muttering a weak, “Thank you”.
“Just swallow it with a sip of champagne,” Miki tells me gently. “Just like a medicine.”
She is treating me like a daughter. I am doing it all wrong. I do as she says. My eyes roll. I take my hand to my mouth. It is not that bad. It’s colorful just like my future. It’s tasteless just like the animals dancing beneath us.
“Look at her face! She is like a doll! I love you!” Refn screams.
“I love you too!”
The others do the same. Mainyu, Refn, and Miki take the pill. At first, I don’t notice a single change. Then, my heart begins to race. The music begins to be even louder than before. Boom. Boom. Boom. The rhythm is unbearably fast-paced. The lights of Heaven’s Night are now red and red only. I look at Mainyu and he smiles at me. The masses of flesh beneath us continue screaming at the music.
“Are we having a party or something?” Refn suddenly asks. He swallows half of the Dom Pérignon bottle as he stares at the people. Then, he jumps from the lounge. I see Miki reaching him jumping into the heart of the crowd. I wonder what the flesh is thinking right now. I wonder how do they feel now that divinities left the Mount Olympus to join them in their miserable fun.
Now there is just me and Mainyu.
“Do you think I made a good impression?” I ask visibly worried. There is my future at stake.
“It’s too early to tell,” he says. “But I can tell Refn likes you. He has a thing for girls who didn’t even have their periods. Just like everybody else. Well, now that I think about it everyone likes you.”
“Perfect,” I whisper relieved.
The people beneath us continue screaming. However, their scream is quite different from before. It has more passion. More fear. More visceral.
“More ‘passionate’ I would suggest. Art always comes from suffering. Beauty always comes from sacrifice. Never forget that, doll.”
All those screams. All that red. All that music. I can’t stop myself anymore. I need it. I need to be part of the Sabbath.
“Shall we go?” Mainyu knows who I am right now. I wish I could say the same for me.
“Yes,” I say. “And Mainyu?”
“What?”
“Thank you for this but don’t make me stand in a queue ever again.”
He smiles. No wonder his symbol is literally a smile. As I join the Sabbath I officially become part of Heaven’s Night.
Stavo guardando un vecchio video di Filthy Frank. Avete presente, no? Pink Guy? Nessuno? Eppure è stato un fenomeno di youtube nell’età dell’oro della piattoforma (referenza a Berserk). Se non lo conoscete, andate a cercarlo. Ad ogni modo, in quest’altro video Frank spiega nel dettaglio che cosa costituisce un weeabo. Per chi non lo sapesse: un weaboo è quella persona talmente ossessionata dagli anime e dalla cultura giapponese da immedesimarsi con la loro lingua, la loro storia e le loro credenze nonostante non siano giapponesi, non sanno parlare il giapponese, hanno visto sei serie anime e credono di sapere tutto sul Giappone. Sicuro avete presente chi sono queste persone.
La prima cosa che mi è balenata in mente è: ‘Di sicuro non parla di me.’ Ovvio che non parla di me. C’è un’enorme differenza tra chi semplicemente ama i manga e gli anime e chi si appropria di una cultura che non è la sua. La statuetta sulla mia scrivania di Yumeko senpai concorda con me. Ovviamente non dovete fidarvi della parola della mia waifu.
…
…
…
Accidenti. Troppo tardi.
Ovviamente si scherza qui. Non ho una statua di Yumeko sulla mia scrivania e non credo di essere giapponese solo perché adoro il loro intrattenimento (manga, anime, letteratura, cinema). Non voglio imparare il giapponese e non ho una waifu. Non che ci sia niente di male ad avere qualche action figure della propria serie animata preferita. Tuttavia, è bene capire quando una passione o un hobby diventa un ossessione. A tale riguardo, mi sento di consigliare un video musicale dal carattere provocatorio. MEMEME! Andate oltre il fan service e le numerose scene di sesso e provate a immedesimarvi con il personaggio principale di questa storia. Il personaggio principale è un Hikikomori (di cui ho scritto sul post dedicato a Holyland). Non lascia mai la sua casa, ha un’insana dipendenza da anime e pornografia che gli impediscono di vivere una vita normale. Il ragazzo è prigioniero di un mondo che non esiste.
Nonostante non mi sia mai trovato nella posizione del protagonista del video musicale, posso capirlo. D’altronde il mondo reale è così noioso, crudele e senza soddisfazioni… tanto vale rifugiarsi in un mondo animato, vero? Sbagliato! Se c’è una cosa che gli anime ci insegnano è di non arrendersi mai, trasformare la propria insoddisfazione in qualcosa di produttivo. Prendete Naruto: un ragazzino emarginato da tutti, senza genitori, che vuole provare il suo valore. Naruto ha due scelte:
Numero uno: eccellere nella via del ninja e provare riuscire ad avverare il suo sogno.
Numero due: chiudersi in casa con la sua waifu immaginaria per poi ritrovarsi a quarantanni a pentirsi delle proprie scelte.
Forse non è proprio questo il senso di Naruto, ma avete capito il punto. Il fatto è che, per citare Joe Rogan: ‘Tutti gli uomini devono scegliere tra due dolori: il dolore della disciplina (fare qualcosa di costruttivo), o il dolore del rimorso (scegliere la via più semplice e pentirsi in futuro)’. Vi chiedo di scegliere con grande saggezza.
Detto questo, cosa ci porta al titolo? Murakami è davvero deprimente? Si. Ma non del tutto. Per chi non lo sapesse, Haruki Murakami è uno scrittore ma non uno qualsiasi: uno dei scrittori orientali più famosi- e che ha venduto più libri in assoluto. Tra i suoi temi più cari troviamo l’alienazione, la depressione e l’indecisione. Wow. I protagonisti sono apatici a tutto ciò che li circonda e il loro malessere interiore, molto spesso, influenza il mondo in cui si muovono dando vita a una sorta di ‘realismo magico’: ovvero, un genere letterario in cui la magia si sposa in un contesto reale. Molto differente da un fantasy, poiché la magia ricopre un ruolo secondario esattamente come nei romanzi di Milan Kundera. Il libro in questione che ho letto è stato: ‘Colorless Tsukuru Tazaki and his years of pilgrimage’.
La trama è fantastica: Tazaki fa parte di un gruppo di amici -5 per l’esattezza- che si sono conosciuti negli anni delle elementari. Il gruppo è inseparabile: fanno qualsiasi cosa insieme e sono uniti da un profondo legame di amicizia. Un giorno, però, i quattro amici di Tazaki lo emarginano e tagliano tutti contatti con lui senza alcuna-apparente-ragione. Tazaki è devastato e porterà il malessere di essere stato escluso fino a quando diventerà adulto. Non riesce a stabilire più alcun contatto con le persone.
Il motivo per cui il protagonista è chiamato ‘colorless’: tutti i suoi amici hanno un cognome che rappresenta un colore. Tazaki è l’unico senza colore e, casualmente, è l’unico che è stato emarginato.
Il romanzo seguirà i pensieri, le emozioni e le azioni di Tazaki che vive annebbiato da uno spesso strato di apatia che gli impediscono di vivere la sua vita a pieno. A mio modesto avviso, il romanzo esegue uno splendido lavoro nel descrivere come la percezione di un evento possa completamente cambiare la percezione della vita. Tuttavia, è giusto dire che Tazaki è padrone delle proprie emozioni. Non esiste trauma abbastanza grosso da impedirci dal vivere una vita come vogliamo noi. Tazaki è distrutto dall’essere stato emarginato dai suoi amici perché lui ha permesso che questa emozione lo consumasse. Nel romanzo cercherà di cambiare questa attitudine e scoprire una volta per tutte il motivo per cui i suoi amici lo hanno abbandonato e finalmente andare avanti con la sua vita. Consiglio questo romanzo soprattutto a chi non ha l’abitudine di leggere molto. Lo stile della scrittura è scorrevole, il linguaggio è semplice e tutto è narrato in prima persona singolare. Il tema di non lasciare che un evento- per quanto negativo sia- influenzi la tua vita è affascinante quanto importante.
Lettura assolutamente consigliata. Come sempre, chiedo scusa per l’incapacità di andare dritto al sodo per ogni post che scrivo.