Ho sempre odiato la scuola. Mi piaceva imparare. Alcune materie le trovavo persino interessanti. Ciò che non sopportavo era svegliarmi alle 07:00, prendere i mezzi pubblici e parcheggiarmi per sei ore su una sedia in mezzo ad altri 22 ragazzi. Non mi sono mai sentito a mio agio nei luoghi sovraffollati e alcune persone, soprattutto gli insegnanti, non facevano che rinfacciarmelo. “Perché non parli mai?” “Sei muto?” E, spesso, queste considerazioni da premio Nobel provocavano più di una risata tra i miei compagni di classe. Dicono che la scuola ti prepari alla vita e non potrei essere più d’accordo.
La scuola ti prepara a passare il resto della tua vita a svegliarti presto, a incurvati le spalle su una metro, a passare le giornate con persone che preferiresti evitare, ad ascoltare i tuoi superiori (insegnanti, capi: fa lo stesso) a dirti cosa fare con un vago cenno di frustrazione nelle loro voci perché anche loro non vorrebbero essere in quel posto.
Forse la faccio un po’ tragica. Non tutti gli insegnanti erano così male e non tutti godevano nell’asserire autorità a dei ragazzini con rimarchi più che discutibili. La maggior parte sì. Credevo di essere l’unico ad aver avuto un’esperienza orribile al liceo ma sta di fatto che non è così. Con chiunque abbia avuto modo di parlare, la scuola – soprattutto il liceo – è stato percepito come un periodo se non orribile, perlomeno negativo. Ma, come direbbe il professor Oak in Pokémon, non è questo il luogo o il momento per muovere una critica al sistema scolastico. La scuola è essenziale per la crescita mentale di un individuo. Letteratura, matematica, arti, scienze: tutto è fondamentale. Ma la scuola raramente si basa sull’apprendimento delle materie, basandosi di più su una burocrazia infondata e insensata che non porta a risultati tangibili.
Come avveniva il confronto con il mio professore nella mia testa. Montante e gancio sinistro. Una delle mie combinazioni preferite.
Si sta avvicinando la mia stagione preferita, l’autunno. Già oggi ho visto un bambino insieme alla mamma che comprava un quaderno a righe e un compasso. Ciò mi ha fatto tornare alla mente ricordi che avrei preferito dimenticare. Ore e ore della mia vita a sentirmi inadeguato e depresso in un’aula anonima di provincia. L’unica cosa positiva di quel periodo era la mia ragazza e Il Trono di Spade. A pensarci bene, forse, la colpa non è del sistema scolastico ma solo mia. Se avessi avuto una bella esperienza le mie parole sarebbero ben diverse.
Eppure, sono grato di non essere più uno di quei bambini costretti a varcare le porte di un liceo. E sono ancora più grato di non essere uno che varca le porte di un ufficio. Ogni volta che entravo in quei posti mi sentivo un animale pronto per essere macellato. Forse anche i Pink Floyd si sono sentiti così. Quel video è stata un’esperienza catartica.
Io lo sono stato per troppo tempo. Mi ricordo ancora quando mio padre mi diceva: “Adesso odi la scuola ma da grande ti mancherà tutta questa spensieratezza e vorrai tornare indietro per rivivere questi meravigliosi anni!”
Preferirei un avvelenamento da cianuro piuttosto che rivivere quegli anni. Ho ventiquattro anni, un pelo grigio nella mia barba da tre giorni, lavoro da remoto, ho quattro paia di jeans e vivo in una casa in affitto lontano dal posto in cui sono nato. Non è molto ma in confronto a quell’obbrobrio della mia vita a sedici anni mi sento Elon Musk. E, cosa più importate, ho un obiettivo, un sogno e qualcosa di tangibile a cui aggrapparmi. Quella scuola non è stato altro che un inferno per me. Credevo di averla lasciata una volta per tutte dopo un ricco 95/100 alla fine degli esami. Ma le cicatrici sono ancora qui dentro di me. A volte odio me stesso per lasciare che il passato mi influenzi ancora. Ho una lunga strada di fronte a me ma sono fiducioso.
Sono grato di ciò che mi è successo. Le esperienze negative possono essere tanto utili, se non più utili, di quelle positive. I rimpianti sono per i perdenti. Ciò che è accaduto è accaduto. Tanto vale imparare la lezione e andare avanti. Non si può cambiare il passato, ma si può agire nel presente e cambiare il futuro. Questo è già qualcosa.
Buona fortuna per chiunque sia ancora alle prese con le mirabolanti avventure nel sistema scolastico.
La mia ultima visione di Evangelion risale a quasi tre anni fa. Non ricordo alla perfezione i dettagli, la storia e i riferimenti esoterici e biblici. La cosa che mi è rimasta più impressa, oltre alla mia amata waifu Rei Ayanami, è stato il protagonista Shinji Ikari: un eterno indeciso, introverso, schivo e con un principio di asocialità. Shinji rappresenta l’otaku medio giapponese che sfugge dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia. Come biasimarlo? Shinji è un quattordicenne abbandonato dal padre poiché considerato “inutile”. La morte della madre non ha di certo aiutato nella costruzione del suo carattere. Essere moralmente obbligato a pilotare quello che è all’apparenza un robot e avere il destino dell’umanità sulle spalle sarebbe troppo per tutti.
Non starò qui a parlare dell’affascinante quanto complessa trama di Evangelion, della splendida caratterizzazione psicologica dei personaggi, delle metafore e delle splendide animazioni. Ci vorrebbe un blog a tema o una serie di dieci video su youtube da un’ora ciascuno. Parlerò solo di due dei personaggi fittizi che amo di più in assoluto: Shinji Ikari e Guts. Non potevo scegliere due persone più differenti.
Ho sempre avuto molto in comune con Shinji sin da quando ero un bambino. Ho evitato, ed evito tutt’ora, di intrattenere relazioni sociali oltre lo stretto necessario. La folla mi mette a disagio. Vado al cinema da solo. Vado in palestra da solo. Scrivo da solo. Ho sempre pensato a ciò come un motivo di grade orgoglio. Mi piace la solitudine e preferisco starmene per conto mio. Non la vivo male come cosa. Ho un paio di amici e una ragazza. Sto a posto da quel punto di vista. O almeno così credevo.
Un paio di eventi mi hanno costretto a riconsiderare tutto ciò. Spinto dall’idea del successo, del guadagno, ho scelto di iscrivermi a un corso per imparare i concetti di compra-vendita e diventare un broker. L’immagine che avevo in mente (Leonardo Di Caprio su uno yacht che lancia soldi ai federali come in The Wolf of Wall Street) non era molto calzante con la realtà che mi si presentava davanti: un ufficio pieno di persone che cerca di convincere sconosciuti al telefono per comprare i propri pacchetti azionari.
Più di un problema
Le lezioni erano utili e motivanti. L’ufficio, al contrario, era soffocante. Non ero abituato a stare a contatto con troppe persone. Il solo atto di scegliere le persone dalle pagine gialle per rifilargli un discorso imparato a memoria mi dava dolore fisico. Small talk con i colleghi? Fantascienza. Da lì ho cominciato a sospettare di avere qualche problema. Un problema che mi trascino sin dall’infanzia e che non ho mai avuto modo di risolvere: il contatto umano. Questo è accaduto un anno fa. Ora ho un lavoro in una branca che mi piace e che, soprattutto, si svolge in smart working da remoto. Posso mascherarlo quanto voglio ma, un giorno, tornerà a perseguitarmi. Sono grato di aver lasciato quel posto. Ma sono anche grato dalle conclusioni che ne ho tratto.
E questo ci porta a Guts. Il guerriero nero (una figura chiave in queste pagine) è probabilmente l’antitesi di Shinji. Anche lui marchiato da traumi infantili, ben peggiori di quelli Shinji, ha trovato nella resilienza e nella forza di carattere il modo per sopravvivere, affrontando ogni sfida che gli si pari davanti. Non importa quanto essa possa sembrare impossibile (e alcune lo sono veramente): Guts applica i principi della leadership tanto cara agli imprenditori e sceglie di andare contro la corrente del destino per raggiungere il suo lieto fine. Guts è forse una delle figure a cui mi sono ispirato di più in questi anni per la crescita personale. Ma andare in palestra e conciliarla con il proprio lavoro non è abbastanza per svilupparsi come individuo.
Non è neanche lontanamente abbastanza.
Come Shinji, anche io decido di privarmi delle interazioni sociali per paura di farmi del male. Se ti privi di tutto, in fin dei conti, non ti succede nulla: non c’è dolore ma neanche crescita. Ma questo è un approccio completamente sbagliato che non porta a nulla se non ad avere rimpianti. E ciò non si riflette solo sui rapporti sociali ma anche sui propri obiettivi. Fortunatamente ho ritrovato una mia routine e sono di nuovo al lavoro. Non intendo il mio lavoro principale ma quello che mi porterà alla vita che voglio veramente. Tutto sommato, sono fiducioso. Sono sulla strada giusta e il tempo è dalla mia parte. Sono ancora in tempo per diventare Nathan Drake.
Posso vedere il grattacielo anche da qui. Osservo le luci rosse sopra le antenne accendersi, spegnersi e accendersi di nuovo.
Forse una delle due luci ha qualche problema dato che si accende con un impercettibile ritardo rispetto all’altra.
Forse hanno entrambe un problema.
Mi siedo sulla panchina del parco con lo sguardo fisso sul grattacielo, unica fonte di luce insieme alla luna. Apro una lattina di Monster Energy. Il ‘click’ della lattina rimbomba nel parco zittendo i grilli per un momento. Mi guardo intorno. Ci sono solo io.
Forse c’è anche qualcun altro.
Impossibile saperlo con certezza dato il buio che mi circonda. Prendo la lattina di Monster con entrambe le mani e la porto alle labbra. Mi sento già meglio. I grilli ricominciano il loro canto.
Ho sentito dire che nel grattacielo distribuiscono lattine gratis alle persone. Non c’è assolutamente nulla per me in questo parco. Solo fantasmi. Tutto quello che voglio è sopra a me.
‘Come posso vivere lì?’ domando a me stesso ai grilli.
‘Come posso abbandonare questo posto?’
Nessuna risposta. Non mi sorprende. Un fruscio di foglie cattura la mia attenzione. Mi volto ma è un’azione inutile. Non vedo nulla. Mi chiedo per un momento perché non ci siano lampioni in questo parco. La risposta è così ovvia che mi do dello stupido. Sento un movimento fluido accanto a me.
‘Come va?’
Un uomo deve essersi seduto accanto a me.
‘Bene.’
Forse dovrei chiedergli lo stesso? Decido di no.
‘Cosa fai?’
‘Guardo.’
‘Che cosa?’
‘Il grattacielo.’
‘Bello, non è vero?’
‘Già.’
‘Peccato che non ci arriveremo mai.’
‘Parla per te.’
Mi concedo un altro sorso di Monster. Lo sguardo si sposta sulla Luna. Non illumina neanche lontanamente quanto il grattacielo.
‘Cosa vuoi dire?’ mi chiede il tizio.
‘Voglio dire che ci arriverò.’
‘Incontro sempre persone come te. Lo giuro. Capitano tutti a me.’
Non rispondo. Perché si è seduto qui? Forse perché è l’unica panchina del parco. Ma come ha fatto a trovarla con questo buio? E io come ho fatto a trovarla?
‘E dimmi… come vorresti arrivarci?’
‘Non lo so.’
‘Cosa ti fa pensare che puoi arrivarci?’
‘Non lo so.’
‘Qual è il tuo piano?’
‘Non lo so.’
‘Sei anche peggio degli altri…’
‘Forse.’
Sento il suo giacchetto strusciare sulla superficie della panchina. Probabilmente si è alzato.
‘Grazie per avermi rovinato la serata,’ mi dice. ‘Addio.’
‘Senti…’ gli dico. ‘Tu non sei stanco di tutto questo buio?’
‘No.’
‘E perché?’ gli chiedo ancora.
‘Perché il buio non è una fantasia. Se impari a fartelo piacere non è così male.’
Sento i suoi passi scricchiolare sul manto erboso ricoperto di foglie. Constato con piacere che la lattina di Monster non è neanche a metà. Mi concentro sul grattacielo ancora una volta. L’unica cosa reale in questo mondo. Allungo la mano verso il grattacielo e la chiudo a pugno.
‘Eccomi,’ sussurro. ‘Ti ho preso.’
Non è una verità ma neanche una bugia. Riporto le mani sulla lattina fredda.
Oggi ho rivisto il film di American Psycho per la quarta volta nel corso della mia vita. Ogni volta è come se fosse la prima volta. Un film magistrale tratto da un romanzo che definisce la letteratura moderna insieme a Fight Club e Trainspotting. Patrick Bateman ha tutto nella vita: un lavoro ben retribuito a Wall Street, un attico nella zona più lussuosa di New York (ma che non si affaccia su Central Park… fottuto Van Allen e le sue prenotazioni al Dorsia), un fisico scolpito da allenamenti quotidiani nelle palestre più esclusive di New York.
Eppure Patrick è preda di una grande insoddisfazione personale. Odia il suo lavoro, odia le apparenze, odia i continui confronti con i suoi colleghi eppure sono questi ultimi su cui si basa la sua vita.
Prenota il locale migliore per la sera. Prendi il vestito migliore. Fatti di steroidi. Fatti una lampada due volte a settimana. Sii un membro produttivo, rispettabile della società. Per Patrick, però, non è abbastanza. Vuole essere il migliore sotto qualsiasi aspetto.
‘Se odi tanto il tuo lavoro perché non te ne vai?’ mi chiede Evelyn.
‘Perché voglio integrarmi…’
Ed è proprio il bisogno sfrenato di essere superiore e di essere accettato che porta Patrick alla follia. Tra un allenamento e l’altro, infatti, Patrick Bateman uccide e tortura diverse prostitute, senzatetto e amiche della sua Università. La sua facciata da ‘ragazzo della porta accanto’ si fa sempre più sottile rivelando una persona essenzialmente fragile e preda dell’opinione degli altri.
Il suo continuo mentire sulla sua presunta amicizia con Donald Trump ne è un chiaro esempio così come la sua frustrazione per non riuscire ad effettuare una prenotazione al locale più esclusivo di Manhattan, il Dorsia.
American Psycho parla delle ossessioni di un uomo che, semplicemente, non si sente abbastanza e della sua conseguente frustrazione su se stesso e su gli altri: Patrick è una vittima passiva di una società consumistica di cui diventa sempre più difficile far parte. Non riesce a vivere senza continuare ad ottenere di più per compiacere persone che disprezza. Non vuole essere lasciato in disparte. La soluzione? Scatenare il suo malessere con se stesso verso gli altri. Fantasie e azioni di violenza si mescolano alla sua routine fatta di palestra, bevute con gli ‘amici’, cocaina e concerti. Forse questo è l’unico modo in cui Patrick possa trovare sollievo nella sua missione per integrarsi.
Tuttavia Patrick è una persona di successo ma non riesce a vederlo. La sua visione è oscura e distorta dal perenne confronto con gli altri in questioni davvero banali da cui ne esce quasi sempre perdente. Ad esempio, il confronto dei format dei biglietti da visita in ufficio.
Eccetto la salute mentale, gli impulsi omicidi e la completa sociopatia di Patrick credo che ci sia qualcosa o due da imparare da lui; prima tra tutte, la voglia di vincere.
E, a mio parere personale, credo sia questo il messaggio di American Psycho: non criticare aspramente la società consumistica e yuppie ma di aspirare alla grandezza e alla ricchezza con una mentalità equilibrata e logica, senza lasciare che il giudizio degli altri (positivo o negativo che sia) ti trasformi in un mostro. Credo che questo messaggio non sia tanto rilevante quanto oggi. È difficile trovare un uomo di successo ma ancora più difficile è trovare un uomo equilibrato… ed è questo che porta realmente al vero successo.
Durante le vacanze di Natale la biblioteca della mia Università era aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. In quel periodo invertivo il giorno con la notte e varcavo le porte della biblioteca intorno a mezzanotte. Le sale erano completamente vuote. In quel periodo dell’anno tutti se ne tornano a casa dai propri genitori. Chi è che rimarrebbe da solo in una cittadina del Galles dove piove sempre nel periodo di Natale? Solo io e un orfanello con una cicatrice sulla fronte a forma di saetta.
Lo-fi, Monster e tempi andati
C’è qualcosa di magico nello stare da soli in una biblioteca mentre fuori piove e la pioggia scende lentamente sulle vetrate a mosaico raffiguranti due leoni rampanti (il simbolo dell’università). Ci sei solo tu.
Tu, te e te stesso seduti in un tavolo immenso da quindici persone. Il rumore del tuo respiro e della pioggia accompagnano le parole che scrivi insieme alla ronda del custode notturno che si fa vedere ogni due ore e ti offre una porzione dello spuntino preparato dalla moglie (arrosto con patate). La ventola di areazione del tuo portatile fa il suo lavoro (quasi) silenziosamente.
Passano ore.
Ho finito il lavoro per cui avevo sentito il bisogno di entrare in biblioteca (un tema sul cinema francese di Godard o qualcosa del genere) ma non voglio andarmene. Non piove più. Non voglio andare a casa. Apro il computer, digito ‘youtube’ e tra i video consigliati c’è un’immagine accattivante di una ragazza con le cuffie che studia china sui libri. Il titolo è: ‘Lofi hip hop mix Beats to Relax Study to 2018’.
Ci clicco sopra senza pensarci troppo e guardo le ultime gocce di pioggia colare dal mosaico di fuori. Il tempo vola. Non faccio neanche caso alla musica che non riesco a capire se sia malinconica, rilassante, triste o un curioso mix tra le tre. Penso alla fortuna che ho avuto ad andarmene di casa e non tornare per tre anni di fila. Penso a quanto sia bello vivere in un posto che mi piaccia sul serio. Infine penso a quanto sia bello il semplice fatto di essere semplicemente in vita. Mi alzo dalla sedia, cammino per quindici minuti fino al distributore automatico e mi concedo una Monster gelata al modico prezzo di due sterline e dieci. Ritorno al mio posto, stringo la lattina ricoperta da una patina di ghiaccio con entrambe le mani fino a quando non perdo parzialmente la sensibilità nelle dita e bevo un sorso.
Probabilmente questo è uno dei ricordi più belli della mia vita.
Al minuto ’09:05′ del video Lo-fi vedo sorgere l’alba. La cittadina è completamente addormentata. I lampioni rischiarano la fitta nebbia che avvolge quel posto tanto simile a Silent Hill. Il signor custode mi saluta e io ricambio. Apro la finestra dall’altro lato della biblioteca e il profumo dell’erba tagliata bagnata dalla pioggia mi sveglia più della Monster.
Tutto questo è successo più di tre anni fa sullo sfondo musicale del genere Lo-fi. Ogni volta che la ascolto ripenso a quella notte e a quel periodo fatto di solitudine e riflessioni. Quanto mi manca.
Yare yare. Perché apprezzo veramente qualcosa solo quando non ce l’ho più?
Non che questo abbia importanza. Fino a quando avrò una lattina di Monster, un foglio bianco e musica riuscirò sempre a vedere un’alba magnifica.
Il mio legame con quest’opera non è mai stato così forte come adesso. Le palestre sono chiuse e tutto ciò che mi resta è l’allenamento a corpo libero. Ciò che mi serve è una scheda che faccia lavorare ogni muscolo del corpo. Avrei potuto cercare informazioni su internet OPPURE fare il weeabo e prendere ispirazione dagli anime. Inutile dire che ho scelto l’opzione che tutti avrebbero scelto.
100 piegamenti! 100 crunches! 100 squats e 10 chilometri di corsa! Ma sei impazzito, Saitama? Vuoi che io perda ogni grammo di massa muscolare che ho? E il tuo piano nutrizionale? E gli esercizi per la schiena? E le spalle? Non credo neanche per un secondo che tu riesca a uccidere ogni nemico con un singolo pugno dopo un allenamento così leggero. Tuttavia, non ho molte opzioni al momento e lavorare sul cardio potrebbe essere un’ottima scelta per adesso. Ormai è da due settimane che seguo l’allenamento di Saitama con qualche piccola differenza: 100 sollevamenti alla sbarra e corsa ogni 3 giorni, consumando circa 2200 calorie al giorno. Sarà un buon piano? Non lo so. Non so niente di queste cose. Do per scontato che questo sia meglio che non fare niente. In più, il buon Mike Tyson non aveva il sollevamento pesi nella sua scheda ma faceva solo allenamento a corpo libero. Come Saitama? Quasi: 2000 crunches, 500 push ups, 500 dips e 500 shrugs al giorno. Beh… si vede che anche lui come Saitama voleva scoprire cosa volesse dire essere forti e uccidere una persona con un pugno.
Tuttavia, non è questo il punto. One Punch Man, come si può evincere dal titolo, parla di un uomo, un eroe, che riesce a vincere ogni battaglia con un singolo pugno. Nessun conflitto. Nessun dramma. Ogni volta che compare il prossimo dominatore dell’universo, il buon Saitama compare e gli sferra un pugno. Fine della minaccia. La premessa era estremamente intrigante. Uno dei motivi principali per cui l’ho guardato era per capire come la storia sarebbe proseguita. Voglio dire… negli anime c’è sempre un tizio che si allena duramente per sconfiggere un nemico molto forte. Vince e un altro nemico compare (guarda caso un nemico che è leggermente più forte di quello precedente)… e cosi via. Non mi credete? Guardate la struttura di Dragonball Z:
-I sayan fortissimi arrivano. I guerrieri Z si allenano e i sayan vengono sconfitti!
-Freezer, l’imperatore dell’universo, è la minaccia più terribile che sia mai apparsa. Goku si allena e lo sconfigge.
-Cell è forte. Goku si allena. Gohan lo sconfigge (qualcosa cambia).
-Majin Bu è forte. Tutti si allenano. Goku lo sconfigge.
One Punch Man salta tutto questo dramma per focalizzarsi su altro. Saitama è troppo forte. Si annoia. Ma non è stato sempre così. Non è sempre stato un eroe. Una volta era un impiegato. Dopo essere stato licenziato si rende conto che da bambino non voleva essere un impiegato ma un eroe indistruttibile (il mondo di One Punch Man è sempre sotto attacco di un mostro improbabile).
Tipo questo. Un tizio che è diventato metà granchio perché ne ha mangiati troppi.
Saitama decide allora di dedicarsi anima e corpo nel realizzare il suo sogno e diventare un eroe ‘per divertimento’. Si allena ogni giorno al solo scopo di scoprire il vero significato della parola ‘forza’. Nonostante le persone intorno a lui non vedano di buon occhio i suoi allenamenti, lui riesce a perseverare e grazie alla sua forza di volontà riesce finalmente a ottenere la forza che tanto desidera. Nel post precedente, avevo parlato di meta-racconto: nonostante One Punch Man non possa essere definito come meta-racconto, è interessante notare come la vita del creatore della serie abbia numerosi punti in comune con il personaggio Saitama.
Il creatore della serie (ONE… no serio, si chiama così) pubblicò i primi disegni del web manga sul suo blog e non ottennero molto successo. Alcune persone gli consigliarono di lasciar perdere. Tuttavia, il disegnatore Yusuke Muruta fu impressionato dallo humor della storia e decise di entrare in partnership con One: Murata avrebbe disegnato e One avrebbe creato la storia.
A destra: il disegno originario di One. A sinistra: una squallida imitazione.
Il punto, secondo me, è che One si sente vicino al suo personaggio: entrambi hanno delle capacità in quello che fanno; entrambi sono anche sottovalutati dal loro pubblico. Nell’avanzare della storia, Saitama prenderà sul personale il fatto che non è conosciuto. Nonostante faccia l’eroe da quasi tre anni (e sia il più forte) nessuno riconosce il suo valore. Saitama dice più e più volte di fare l’eroe per divertimento e che non ha bisogno di approvazioni… Tuttavia, non è quello che diciamo tutti? Anche io dico di scrivere per divertimento (altrimenti non lo farei) ma essere riconosciuto per ciò che si fa è sempre una grande fonte di soddisfazione. Stessa cosa per tutte le altre passioni. Saitama è già forte: non è questo il dramma del suo personaggio (qualcosa che io non posso dire per me stesso) ma vuole essere riconosciuto come eroe esattamente come One voleva essere riconosciuto come artista. Entrambi sono riusciti nel loro intento, infondendo speranza a persone come me. Il punto di entrambi è che con la giusta determinazione e duro allenamento ognuno può raggiungere quello che vuole.
Questo ci porta alla teoria delle diecimila ore: lo psicologo Anders Ericsson illustrò la teoria secondo la quale ognuno può raggiungere il successo sfruttando diecimila ore di lavoro in un singolo campo. Ad esempio anche una persona negata per la cucina come me, secondo la teoria, potrebbe diventare il prossimo Gordon Ramsey. Recentemente questa teoria è stata in parte smentita. L’idea è che la parte della perseveranza e della quantità di tempo non è sbagliata, ma la qualità è un altro fattore da non sottovalutare. Se io mi allenassi a tirare un gancio per dieci ore e lo facessi in modo sbagliato per tutte e dieci le ore, non avrei imparato nulla se non la tecnica sbagliata. Work smarterdon’t work harder, come dice… Vegeta? Non lo so. Comunque mi pare che questo sia un consiglio prezioso.
E del talento, allora? Cosa si dice del talento? Può il duro lavoro battere il talento? Può Rock Lee battere Gaara? Può Midorya essere il nuovo All Might? O questo è solo un leitmotiv degli anime? Non lo so, altrimenti avrei risolto un dilemma che perseguita la comunità scientifica da anni.
Mi sento di citare un aneddoto letto in The seven habits of highly effective people; un libro di crescita personale che consiglio caldamente.
In questa scuola ci sono due classi di bambini: una è considerata la migliore, l’altra è considerata la peggiore. La scuola decide di investire più tempo sulla classe migliore. Però (come spesso accade negli aneddoti) accade qualcosa: c’è un piccolo errore tecnico e il maestro che avrebbe dovuto insegnare nella classe migliore va in quella inferiore e viceversa. Gli alunni vengono trattati in maniera del tutto diversa in entrambi i casi: i bambini della classe peggiore (considerati per sbaglio quelli della classe migliore) ricevono tutti gli elogi e le cure possibili mentre i bambini della classe superiore (considerati per sbaglio quelli della classe peggiore) vengono trascurati e criticati.
Una volta che si sono resi conto dell’errore, i bambini della classe inferiore avevano registrato i voti più alti e quelli della classe superiore quelli più bassi.
Ciò può voler dire molto come le circostanze possano aiutare un talento a svilupparsi come a distruggersi. Il modo migliore per raggiungere un obiettivo sarebbe quello di creare una mentalità forte e non arrendersi. Nonostante sembri una frase fatta, non arrendersi di fronte alle difficoltà può essere un’esperienza positiva per il proprio cervello: anche se non dovessimo raggiungere il successo, potremmo essere sempre in pace con noi stessi per aver dato del nostro meglio. Può non sembrarlo ma mollare è molto più doloroso che proseguire con fatica in una visione a lungo termine. Avete mai pensato se Stephen King, Bukowski, Alì o altri avessero rinunciato lungo la via per il successo? (E tutti loro avevano un buon motivo per farlo).
Mah… sembra che io stia parlando sempre delle stesse cose in circolo. Il punto è che grazie a Saitama mi sento anche io un eroe.
Prima stagione dell’anime consigliata. Mi manca la seconda stagione, ma a giudicare dalle recensioni non è proprio il massimo. Probabile che mi recupererò il manga.
C’è chi sogna di dominare il mondo e chi dedica tutta la vita alla creazione di una spada. E se c’è un sogno a cui sacrificare tutti se stessi, c’è anche un sogno simile a una tempesta che spazza via migliaia di altri sogni. Non centra la classe, né lo status, e neppure l’età. Per quanto siano irrealizzabili, la gente ama i sogni. Il sogno ci dà forza e ci tormenta, ci fa vivere e ci uccide. E anche se ci abbandona, le sue ceneri rimangono sempre in fondo al cuore… fino alla morte. Se si nasce uomini, si dovrebbe desiderare una simile vita. Una vita da martiri spesa in nome di un dio chiamato sogno
Griffith
Devo essere sincero. Questo post è perlopiù ispirato dalla visione di My Hero Academia. Non parlerò qui della mia opinione sulla serie (bella… ma un filino sopravvalutata). Non cercherò di fare un parallelismo con Berserk: sarebbe più inutile di Sakura. Tuttavia, osservando Midoriya (Deku) dedicarsi ogni singolo giorno alla realizzazione del suo sogno, mi ha portato a riflettere per l’ennesima volta su cosa realmente significhi vivere per un sogno. Ora, non fraintendetemi: il tema della perseveranza, del duro lavoro, dei sogni, della redenzione e della crescita personale sono comuni all’ottanta percento dei manga. Risulterebbe impossibile non leggere anche solo un’opera all’apparenza superficiale come Dragon Ball senza percepire un desiderio continuo di “spingersi oltre il proprio limite“. Ma è proprio per la mia passione per i manga che il tema del sogno è talmente radicato in me da essere parte della mia filosofia.
Incominciamo con My Hero Academia: in un futuro vicino, la maggior parte della popolazione nasce con un “quirk” che gli permette di compiere azioni straordinarie. Tutti sognano di essere supereroi e, adesso, questo sogno può finalmente diventare realtà. Non ci è dato sapere perché ci sia stata questa improvvisa “esplosione” di supereroi, tuttavia è così. In questo mondo, un bambino vuole disperatamente essere come All-Might, il supereroe simbolo della giustizia… ma (c’è sempre un ma, non è vero?) il ragazzo in questione fa parte del venti percento della popolazione che è nata senza quirk. Senza poteri, allontanato dai suoi coetanei, vittima di bullismo, ossessionato da un qualcosa che è decisamente fuori dalla sua portata.
Midoriya, soprannominato “Deku” (inutile)
Tutto questo fino a quando non incontra finalmente il suo eroe, All Might, che riconosce il valore di Midoriya e gli “trasmette” il potere “One for All”… tuttavia, questo potere è ben differente dal morso del ragno di Peter Parker o il bagno nei rifiuti radioattivi di Bruce Banner: infatti, il giovane Midoriya, dovrà sostenere un duro programma di allenamento che metterà a dura prova la sua mente e il suo corpo, rendendolo così degno di ereditare il One For All.
Come dice All Might stesso: “C’è una grande differenza tra chi nasce con un’abilità e chi si fa il culo per ottenerla…” (più o meno il senso è quello). Ed è così che nasce la storia di Midoriya e di come abbia completamente cambiato se stesso per arrivare più vicino al proprio sogno. Ho letto molte critiche riguardo questo aspetto. A quanto pare, My Hero Academia, è percepita da alcuni come una favola irrealistica che dipinge una realtà che potrebbe mai accadere. Non tutti coloro che seguono i propri sogni, infatti, li realizzerebbero al contrario di quanto questo anime insegni.
Midoriya (quello che fa fatica a sollevare 30 chili di panca piana) si spacca di brutto cercando di diventare come il suo eroe, All Might (a destra)
Non è questo il punto di My Hero Academia (neanche quello di Naruto, Dragon Ball, Baki…). Il punto è che tutti i sogni sono alla portata di chiunque. Tuttavia, pochi sono disposti a sputare sangue per ottenerli. Pochi sono disposti a impazzire e ad abbandonare la propria sanità mentale per raggiungere quel punto di non ritorno in cui la maggior parte delle persone semplicemente abbandona. Questo è qualcosa che vedo ogni giorno.
In palestra, quando le persone cercano di attenersi a quella ridicola lista di buoni propositi che hanno creato due ore prima la mezzanotte del capodanno e comprano una di quelle “membership” bimensili foderate in plastica scintillanti destinate a prendere polvere nei portafogli. Negli studi, quando si preferisce Netflix ai libri per poi rischiare di perdere l’anno. E così via. Il punto, quindi, è che i sogni sono sì alla portata di tutti ma sono talmente poche le persone che sono disposte ad annullarsi per seguire il proprio sogno che è praticamente dire lo stesso di: “Non tutti possono fare tutto”. Ovviamente, chiunque può avere i propri momenti di debolezza.
Sempre per citare All Might: “Un vero eroe non è quello senza debolezza. Un vero eroe è colui che agisce e prende una posizione combattendo le proprie debolezze.” (Più o meno. Leggo in inglese perciò le mie traduzioni non sono fedeli al cento per cento.)
Deku e All Might: anche loro sono degli ottimi esempi di Strugglers.
Torniamo all’inizio del post. Ho scelto una frase emblematica di uno dei personaggi più odiati del mondo della narrazione. Griffith: il motivo per cui Guts ha incominciato il suo viaggio.
SPOILERS PESANTI SU BERSERK:
Colui che ha sacrificato l’intera Squadra dei Falchi per la realizzazione del suo sogno. Il super-uomo descritto da Nietzsche: libero da ogni morale, libero da ogni stupida legge terrestre degli uomini. Il suo sogno sembra davvero così grande da spazzare via ogni cosa che incontra. Sembra la personificazione androgina del protagonista di Delitto e Castigo. Dato che questo voleva essere un post-lampo (come una piccola Blitzkrieg), non mi soffermerò sull’analisi di questo personaggio tanto complesso quanto frainteso. Per tutti coloro familiari con l’opera di Berserk, vi chiedo di essere sinceri con voi stessi: non avreste fatto le stesse azioni di Griffith ai tempi dell’Eclissi? (Caska a parte) Stiamo parlando di un individuo completamente distrutto (mentalmente per la perdita di Guts, fisicamente per un anno ininterrotto di tortura). Il sogno per cui viveva è evaporato come neve sotto il sole. Stiamo parlando di una persona che ha persino contemplato il suicidio pur di non essere un peso per la Squadra dei Falchi. Fino a quando il behelit appare di nuovo dandogli nuova speranza.
Se non avesse sacrificato i suoi amici, la morte di tutti coloro uccisi nei campi di battaglia sotto il vessillo del sogno di Griffith non avrebbero avuto alcun senso. Anche lui ha dovuto scalare la gerarchia sociale per arrivare dove era arrivato. Anche lui, come Deku, ha sputato sangue (letteralmente) per arrivare dov’era. Un sogno che era diventato realtà per poi perderlo… per poi acquisirlo nuovamente. Ad essere sincero, dubito avrei avuto il coraggio di Griffith di sacrificare i miei amici, ma non me la sento di condannarlo. La sua scelta può di sicuro essere discutibile, ma ha senso e posso comprenderla molto bene.
Detto questo, dal nome del sito, penso si possa evincere con facilità chi sia il mio personaggio preferito nello yin e yang che prendono il nome di Griffith e Guts.
P.S: Questo signore, JaxBlade, gestisce un interessante canale di Youtube in cui approfondisce per filo e per segno ogni tipo di allenamento introdotto dalla maggior parte degli anime. In questo video, ad esempio, spiega come allenarsi come Deku. Ogni persona che si è sentita ispirata ad allenarsi guardando gli anime dovrebbe ringraziare JaxBlade.