I Guardiani della Galassia III: l’anima di un procione si rivela nell’esperienza più orribile della sua vita

L’altro giorno mi sono visto I Guardiani della Galassia III. Non è esattamente il tipo di film che vedo solitamente, ma i primi due non erano affatto male e James Gunn è un regista che sa il fatto suo: adoro il senso di caratterizzazione dei personaggi che ha donato alla sua trilogia e il suo tocco inconfondibilmente emotivo e malinconico mi ha sempre fatto commuovere in più di una occasione. Protagonista indiscusso della pellicola è Rocket, o per meglio dire il suo passato, che è sempre stato accennato nei film precedenti ma mai esplorato nel modo che meritava.

Prima di arrivare a questo punto, però, vorrei spendere un paio di parole sul perché ho adorato i Guardiani sin dal primo film. Il tono scanzonato, provocatorio, divertente e sopra le righe mi ha fatto subito innamorare dell’opera. La scrittura è divina se paragonata al filone dei film della Marvel. La regia meravigliosa. Ma è nella storia che accade la vera magia: soprattutto nel lato umano della pellicola.

Una canzone che ha un certo peso nel film

Nel concreto: un essere umano, un’aliena verde, un procione parlante, un albero senziente e Dave Bautista (categoria a parte) si ritrovano insieme per puro caso e, nonostante le differenze, trovano in ognuno di loro un qualcosa che è sempre mancato nella propria esistenza: una famiglia. Nonostante il tono del film che mira ad un pubblico molto giovane, ognuno dei Guardiani è prigioniero del proprio passato e, a causa di orribili esperienze subite, non riescono ad andare avanti con le loro vite. Sono una banda di reietti, ladri, assassini, guerrieri che hanno sempre fatto del loro meglio per sopravvivere ma che hanno sempre peccato del fatto di non avere uno scopo nella vita: uno scopo che ritrovano nella formazione dei Guardiani della Galassia.

Siamo venuti a conoscenza del passato di Quill, Drax, Gamora ma non di Rocket: non del personaggio che ha sofferto di più. Il tema dell’andare avanti grazie alle connessioni che si creano tramite l’amicizia è uno dei più importanti nei Guardiani. Ma a volte è impossibile scappare da ciò che abbiamo passato e bisogna farci i conti per tutta la vita come afferma l’opening di Full Metal Alchimist. Detto questo non bisogna affrontare quei demoni per forza da soli. Dopo un tentativo di rapimento da un essere misterioso, Rocket è in fin di vita e toccherà al suo team, ancora profondamente scosso dagli eventi accaduti in precedenza, a soccorrerlo.

Ed è qui che il film si divide in due parti distinte: l’escursione nel passato di Rocket, il motivo per cui è un procione che parla, il fatto che possieda un quoziente intellettivo di 250 e la ragione dietro le cicatrici sulla schiena; e, infine, il viaggio dei Guardiani che faranno di tutto per non perdere un membro della loro famiglia. Uno splendido racconto sul superare e, inevitabilmente, convivere con i traumi della vita. Se proprio dovessi il trovare un difetto sarebbero i vari riferimenti delle opere al di fuori del franchising dei Guardiani. Nonostante io abbia visto gli altri due film, alcune cose erano completamente nuove per me: perché c’è un’altra versione di Gamora che non ricorda nulla del suo amore per Quill? Quando hanno detto che Mantis è la sorella di Quill? Sospetto che la risposta a queste domande sia in Avengers Infinity War ma, in fin dei conti, sono stati bravi a riempire queste lacune con qualche spiegone.

Ovviamente nulla da dire sulla colonna sonora e il mitico Awesome Mix III, vero e proprio coprotagonista della vicenda, che rispetto agli altri due capitoli precedenti assume toni più malinconici e cupi. Un film assolutamente consigliato e la degna fine di una trilogia che rappresentava l’anima della Marvel.