Oshi no ko, reincarnazioni e il limite della propria genetica

Stavo guardando il primo episodio di Oshi no ko per l’ennesima volta. La trama è molto semplice: un medico e la sua paziente, malata di cancro, perdono la vita e vengono reincarnati nei figli della loro pop idol preferita, Ai Oshino. Fin da subito ho adorato il tono comico e spensiarato del primo episodio (dura poco più di un’ora) che tuttavia non si fa problemi ad assumere contorni più drammatici e profondi. Il personaggio di Ruby Oshino, l’ex paziente malata di cancro e ora figlia di Ai, è tra quelli che mi ha colpito di più.

La carismatica Ai

La vita davvero non è uguale per tutti e lei lo ha potuto sperimentare in prima persona. La sua esistenza era scandita da giornate monotone in un lettino d’ospedale senza possibilità di fare granchè. I genitori l’avevano abbandonata e la sua unica luce era vedere alla tv le gesta dell’idol preferita. Una vita grigia senza troppo spazio per i sogni e per la speranza. E alla sua morte si ritrova ad essere la figlia dell’idol che tanto amava: senza malattie, bellissima e piena di talento con i contatti giusti sin dalla nascita. L’unica pecca? I ricordi della vita precedente pieni di traumi e rimpianto.

Un discorso analogo può essere fatto anche per il dottore reincarnato in Aquamarine Hoshino. Una vita sicuramente meno tragica della sua paziente ma comunque priva di avvenimenti degni di nota e, anche lui, ossessionato dalla luce di talento e bellezza di Ai Oshino, la quale può essere ammirata solo da lontano.

 E quando muore e si ritrova a rivivere la vita con un’altra mano di carte… che dire: le cose cambiano. Lui stesso ha detto: “Sono quasi grato al tizio che mi ha ucciso”. Ora ha la possibilità di vivere seriamente. Immaginate una early start nella vita così: infanzia (possibilmente) senza traumi, figli di una star, intelligenza, carisma, migliore educazione e soldi.

Ci è sempre stato insegnato che tutto è possibile e basta impegnarsi per avere successo. Ma se non fosse così? Se tutto fosse prestabilito dai nostri geni? È innegabile che ci siano fattori genetici, che non possono essere cambiati in alcun modo, che facilitano la vita di molti individui e ne distruggano altre. Parlo di malattie ma anche di bellezza, intelligenza, talento, fisico e così via. Credo sia nella natura umana fantasticare su cosa significhi avere il massimo in tutte queste cose. Purtroppo non esiste la reincarnazione, o meglio non ci è dato saperlo, ma la consapevolezza che dopo la nostra vita presente si possa nascondere un’altra completamente al di fuori della nostra portata (come un terno a lotto o governata dal karma) mi riempie di fascino.

Purtroppo non sta a noi decidere gli elementi con cui veniamo al mondo ma la vera grandezza sta con come ci giochiamo la nostra mano. Non lo so… solo i miei pensieri dopo aver visto questa piccola perla. Ovviamente la trama non ruota (solo) intorno a questo. I personaggi hanno una caratterizzazione unica e i disegni sono superiori di molti che ho trovato al Louvre. Una storia meravigliosa, fresca che non ha paura di spaziare dal comico al tragico, con temi a me cari come abbandonarsi il passato alle spalle (letteralmente), vendetta e esplorare il proprio spirito di affermazione sullo sfondo dello showbusiness giapponese.

Rocky Joe: brucia mio cosmo!

“Non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma, di una combustione incompleta. Anche se solo per un secondo… voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante! E poi.. quello che resta è solo cenere bianchissima… nessun residuo… solo cenere bianca.”

Joe Yabuki è un 15enne che ha vissuto passando da un orfanotrofio all’altro e vagabondando solo come un cane. Attraversando una Tokyo ancora scossa dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, Joe si imbatte in Dampei Tange, un ex pugile e allenatore di boxe con un occhio solo con problemi di alcolismo che non riesce a smettere di pensare alle vecchie glorie dello sport.

Dampei vede in Joe un potenziale campione del pugilato ma quest’ultimo non è interessato a combinare alcunché nella vita e vuole solo sopravvivere. I due si scannano subito di botte per un futile motivo e Joe ha la meglio. Ciò non fa che accrescere l’interesse di Dampei Tange per il giovane Yabuki… questo e il fatto che il ragazzino ha preso a pugni da solo un’intera comitiva di yakuza.

Joe, dopo i continui tentavi del vecchio, accetta la proposta di Dampei di diventare suo allievo e imparare le basi della boxe. Ma questo non è che un trucco: in realtà Joe vuole solo sfruttarlo e scroccare vitto e alloggio, approfittandosi della buona fede del vecchio, il quale smette di bere e si mette a fare due lavori per crescere il suo nuovo pupillo. Joe, nel frattempo, finge di allenarsi e fonda una banda con i bambini poveri del quartiere che usa per compiere vari furti e truffe.

 Ed è proprio una di queste truffe che lo porterà in riformatorio, dove farà la conoscenza di Rikiishi, giovane prodigio della boxe, che accenderà in Joe il fuoco dell’agonismo. Sulla base di queste premesse che inizia il viaggio immortale che accompagna Joe da trovatello senza scrupoli e morali a leggenda immortale della boxe che è pronto a morire pur di “bruciare con una fiamma rossa e accecante”.

Il manga ha avuto inizio dal 1968 e ha visto la conclusione nel 1973. Scritto da Asao Takamori (pseudonimo di Ikki Kajiwara) e disegnato da Tetsuya Chiba. La storia ha voluto illustrare una vicenda cruda, cupa e ruvida in cui viene mostrato che anche le persone con un passato turbolento come Joe possono ritrovare un riscatto grazie all’impegno, la costanza e la speranza di un domani migliore (non a caso le lezioni di Dampei per corrispondenza mentre Joe è in riformatorio si chiamano “per il domani”).

Tutti hanno diritto ad un futuro a dispetto delle condizioni sociali da cui siamo nati. La consapevolezza che magari, anche se non si vince, si può comunque avere la soddisfazione di aver dato tutti noi stessi per un obiettivo più grande. Joe rappresenta la massa, i perdenti, che non hanno voce in capitolo e che vengono pestati a sangue forse anche più dello stesso Joe nella storia: l’uomo comune che trova la forza per reagire.

Il manga è diventato così influente da diventare un simbolo per le rivolte studentesche giapponesi del 1968. Ma c’è di più: il potere della finzione è diventato così potente che quando nel marzo 1970 uscì il numero del manga in cui muore un personaggio particolarmente apprezzato, i lettori organizzarono un vero funerale per rendergli omaggio. Il messaggio del manga è profondo quanto spietato: è vero, non arrendersi mai può portare a enormi soddisfazioni, ma anche a orribili finali e, forse, anche alla morte. Un’opera che descrive spietatamente lo stato del Giappone del dopo guerra che cerca di rialzarsi dopo gli eventi traumatici subiti (e inferti).

Il ring di Joe diventa un luogo sacro in cui tutti, almeno per 20 round, sono uguali e il passato non ha importanza. D’altronde quando ci possono essere differenze con il nostro avversario se siamo su un quadrato ricoperti di sangue e sudore insieme a lui? Tutto si annulla: desiderio di ricchezza, di fama, di gloria e di amore. Resta solo il presente. Pochi minuti in cui si dà il tutto per il tutto e si può solo bruciare come una fiamma.

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Tokyo Revengers, criminalità e il sogno di una vita migliore

Ho iniziato a leggere Tokyo Revengers in piena pandemia, periodo che ha coinciso con l’ultimo anno dell’Università che frequentavo in Galles. Non è stato un momento particolarmente felice per me. Ero rimasto l’unico studente nella casa in cui vivevo. Tutti i miei amici, due per la precisione, erano tornati dalla loro famiglia. E io ero rimasto completamente solo: il mio unico contatto umano era con la cassiera del supermercato Morrison del quartiere.

Sarei potuto tornare in Italia anche io ma non ho mai provato amore nel posto in cui ho passato la mia infanzia e adolescenza. A quel tempo, la solitudine mi logorava e aveva trovato il modo di farlo anche in Galles. In quel periodo, tutti i traumi subiti all’epoca avevano cominciato a riempire i vuoti corridoi della mia mente. Quando sei completamente solo e senza svaghi sei quasi costretto ad affrontare ciò che non hai risolto nella tua vita. Ed ecco perciò che avevo preso l’abitudine di scrivere su due diario: uno per il presente ed uno per il passato.

Nel diario del passato volevo scrivere e rivivere con più nitidezza e dettagli possibili i ricordi che mi tormentavano (forse non proprio una strategia vincente); nel diario del presente volevo focalizzarmi sui progetti futuri, sullo stato d’animo del momento e cercare di capire come gli eventi della mia storia abbiano plasmato il mio essere. Lo so: non avevo davvero un cazzo di meglio da fare.

Ma questo esercizio mi si è dimostrato piuttosto utile e, dopo una settimana o giù di lì, ho capito una cosa: il me stesso del diario del presente era una diretta conseguenza di quello del passato. Ho vissuto, almeno la prima parte della mia vita (1-18 anni) quasi come uno spettatore, una vittima degli eventi, senza aver anche solo pensato di essere nella cabina di comando. Quello è stato il periodo più difficile da mettere su carta. A volte non riuscivo a trovare le parole giuste. A volte smettevo di scrivere e facevo 100 piegamenti a terra.

Takemichi, protagonista di Tokyo Revengers, viene massacrato (adesso spiego tutto…)

Inutile dire che non sia stato un bel periodo. Dopo i 18 anni e il mio trasferimento a Londra le cose sono andate meglio. Non ho nulla da rimproverarmi. In quel momento ho iniziato davvero la mia vita, che ha subito un piccolo arresto a 23 anni, e che è ricominciata a pieno regime subito dopo. Anche adesso che ho 26 anni la vita non è male e ci sono più alti che bassi.

 L’unico pensiero che avevo dopo aver completato quel piccolo diario del passato è stato solo uno: “vorrei tornare indietro nel tempo”. A volte lo penso ancora. Avrei voluto agire di più, fare scelte differenti e avere ricordi più belli. Purtroppo tutto ciò non è possibile: non si può cambiare il passato.

Takemichi di Tokyo Revengers non si regola e diventa uno dei protagonisti più iconici degli shonen

Il tempo è una freccia che va solo in avanti. Tutto questo giro di parole per dire che la storia di Takemichi Hanagaki di Tokyo Revengers è subito risuonata con le mie esperienze e con una delle mie fantasie più grandi: cambiare il passato. E ora andiamo direttamente alla trama: Takemichi è un 26enne sfigato con un lavoro che disprezza e un’esistenza alquanto effimera. Un giorno, alla televisione, scopre che la sua fidanzata delle medie, Hinata Tachibana, è morta durante un attentato della Tokyo Manji Gang, un’associazione criminale del fitto sottobosco malavitoso di Tokyo che si era formata proprio nel periodo in cui lui frequentava la scuola.

Takemichi che non si arrende dopo essere stato gonfiato di botte da mezza Tokyo

Dopo essere stato spinto contro un treno in corsa alla stazione, Takemichi scopre di non essere morto ma bensì di essere tornato nel passato, per la precisione al periodo delle medie in cui bazzicava con una gang di aspiranti teppisti a 13 anni. E, come in un film, ricorda tutto ciò che accaduto: I suoi continui scontri con le altre gang e la sua completa sottomissione da parte di un gruppo di bulli più grandi che ha minato completamente la sua autostima.

Tuttavia, adesso, forse, c’è un modo per rimediare ad una vita di soprusi e tristezza. Takemichi scoprirà di avere il potere di tornare indietro nel tempo grazie al contatto fisico con Naoto Tachibana, fratello di Hinata, che nel presente è un poliziotto con il desderio di salvare la sorella, ex fidanzata di Takemichi, dalla morte per mano della Tokyo Manji Gang.

Takemichi ha adesso una seconda possibilità nella sua vita: salvare la ragazza che ama e cambiare la personalità inetta che ha costruito negli anni. Ma salvare Hinata non sarà così semplice. Takemichi ripercorrerà le tappe salienti che hanno reso la Tokyo Manji Gang una delle organizzazioni criminali più forti e crudeli di sempre e lo farà dagli inizi: dalla creazione della gang fin dagli anni delle medie. Dovrà destreggiarsi tra risse, violenza e soprusi per salvare la sua ragazza e costruirsi un nuovo domani.

Ed ecco che inizia la storia di Takemichi: da vittima di bullismo a membro di una organizzazione criminale. Un uomo di 26 anni che vive nel corpo di un tredicenne che ha l’occasione che tutti almeno una volta nella vita abbiamo disperatamente cercato: cambiare il passato. Le premesse dei primi volumi sono fantastiche. I personaggi sono spettacolari: dal capo della Tokyo Manji Gang, Manjirō Sano, con il sogno di costruire una nuova era della malavita, fino a passare al suo braccio destro, Draken e per finire con i componenti secondari delle altre bande.  L’abilità di disegno del mangaka Ken Wakui è seconda solo al suo sublime intreccio narrativo.

Tuttavia, nel corso dei volumi, la storia comincia a perdere la sua grinta, fino ad arrivare ad uno dei finali più scontati della storia della narrativa. Ma la prima parte, soprattutto per chi, come il sottoscritto, è ossessionato dalla criminalità e dai viaggi nel tempo, rasenta il capolavoro che illustra uno spaccato (seppure tutt’altro che realistico) della delinquenza giovanile giapponese. Vedere l’ossessione, la voglia di rivalsa e la perseveranza di Takemichi mi hanno commosso.

Scontro tra gang per stabilire chi è il più forte: Mobius vs Toman Manji Gang

 Tutti possono cambiare e non è mai troppo tardi. Dubito che molti di noi avranno il lusso di tornare indietro nel tempo. Tuttavia, possiamo imparare dal passato e vivere un presente migliore. Come voto oggettivo questo manga rasenta a malapena il 7 e mezzo, ma da un punto di vista personale non posso fare altro che dargli un 9 e mezzo. Grazie per la bellissima storia, Ken Wakui.

Cultura bosozoku

Ultima considerazione: lo stesso Ken Wakui faceva parte di una gang durante la sua giovinezza ed è stata l’ispirazione per la Tokyo Manji Gang. Per la precisione, nel manga si parla della cultura bosozoku: una sottocultura giovanile giapponese collegata alla customizzazione di motociclette che era talmente violenta da far talvolta invidia alla Yakuza. I primi bosozoku erano ex-veterani di guerra che non riuscivano ad accettare la perdita del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale e che sfrecciavano ad alta velocità con le moto nelle strade nipponiche. Le bande bosozoku sono diventate famose negli anni ’80 ed erano composte da liceali ribelli.

I bosozoku sono stati protagonisti di numerosi manga e film. Tra i più celebri: Akira, Shonan Jonai Gumi e Tokyo Revengers. In Occidente possiamo paragonare opere come Sons of Anarchy e The Bikeriders.

Prima lettura di Slam Dunk, paura per il futuro e nostalgia di un passato che non ho mai avuto

Ieri mi sono recuperato i primi quattro volumi di Slam Dunk di Takehiko Inoue. È passato più di un anno da quando ho visto The First Slam Dunk, un piccolo e meraviglioso gioiello cinematografico, e mi ero ripromesso di leggere il manga. Il protagonista è Hanamichi Sakuragi, una matricola del liceo a capo di un piccolo squadrone di teppisti con l’incredibile record di essere stato rifiutato da 50 ragazze ai tempi delle medie.  

Nel primo capitolo fa la conoscenza di Haruko, una ragazza innamorata del basket che vede nel fisico possente di Sakuragi un forte potenziale per lo sport. Ovviamente Sakuragi non è minimamente interessato alla pallacanestro, ma decide di iscriversi al club di basket del liceo proprio per fare colpo sulla bella Haruko.

Lo Shohoku in azione

Così inizia l’avventura di Sakuragi, giovane teppista dal pugno di ferro ma dal cuore tenero, nel mondo del basket amatoriale tra amori non corrisposti, amicizie, risse e risate. Nonostante abbia letto solo i primi quattro volumi ho subito adorato l’atmosfera leggera e irriverente del manga (anche se mi aspetto profondi cambiamenti di trama tragici considerando il film) e non ho potuto fare a meno di paragonare i miei giorni al liceo a quelli di Sakuragi e la sua truppa di adorabili teppisti e il mio presente.

Ad essere sincero, non ho potuto neanche fare a meno di provare un leggero senso di invidia e, forse, di disperazione. Il liceo è stato un periodo che forse non definirei negativo ma di certo tutt’altro che positivo.

Non mi sono accadute tragedie ma neanche esperienze da ricordare. È stato un limbo: cinque anni della mia vita che non torneranno indietro e che, un po’ per circostanze esterne a me, non ho saputo sfruttare al meglio. Niente esperienze come al liceo Shohoku di Sakuragi, poche risate e ben poca nostalgia. All’università (e soprattutto adesso) è andata (e sta andando) sicuramente meglio ma gli anni del liceo (per quanto grigi e incolori) mi perseguitano ancora.

Ma, a volte, mi chiedo come sarebbe tornare indietro nel tempo e non avere troppi pensieri per la testa come adesso, focalizzandosi interamente sul presente e non pensando al futuro… come al versamento dei contributi pensionistici obbligatori (non sia mai che si abbia potere decisionale sul proprio guadagno…).

Nulla mi vieta di pensare alle ragazze e spaccarmi nello sport come i ragazzi di Slam Dunk, ma devo ammettere che non è la stessa cosa. Quel treno del liceo è passato e non tornerà mai più. Ma questo non significa che non possa passare un treno migliore, cosa che fortunatamente è successa. Mancano ancora molti volumi alla fine di Slam Dunk, ma non posso fare a meno già da ora di ringraziare i ragazzi dello Shohoku per aver condiviso con me una nuova versione di un periodo della mia vita non troppo felice. Non male come riflessione delle 5 del mattino.

In chiusura: mi sto davvero appassionando al genere bosozoku, fenomeno sociale che ha visto come protagonisti giovani teppisti a cavallo di moto che hanno raggiunto l’apice tra gli anni ’70 e ’90. Come  è possibile immaginare, questo tema è davvero popolare nei manga: a chi non piace immedesimarsi in ribelli con un codice morale tutto loro che utilizzano la potenza dei loro pugni per portare la pace? Basti pensare al successo di Tokyo Revengers e Akira. Se qualcuno mi legge, sarei aperto a suggerimenti per manga e film e ampliare la mia conoscenza al riguardo.

You have no enemies: come un anime ha cambiato la vita di milioni di persone

Accontentarsi e abituarsi al dolore è una forma di felicità? Ci stavo pensando in una delle mie passeggiate notturne al parco. Ultimamente va di moda questo trend sui social chiamato “You have no enemies” ispirato dalla trasformazione di Thorfinn di Vinland Saga: un uomo ossessionato dalla vendetta che decide di abbandonare il suo odio e abbracciare una filosofia di vita pacifista in cui, per l’appunto, nessuno è suo nemico.

Ma è davvero applicabile alla realtà? È davvero possibile scegliere questa strada in un mondo in cui, in molti casi, il più forte non si fa scrupoli a mangiare il più debole? Com’è possibile non covare odio e risentimento se si è stati vittima di soprusi anche a distanza di anni? Non si può tornare indietro nel tempo.

Questo è un fatto assodato. Ed è facile per molti parlare di lasciarsi tutto alle spalle quando non hanno mai subito reali ingiustizie. Dopo aver letto Vinland Saga credo che il messaggio di pacifismo sia stato sottointeso da molti. Thorfinn è stato un guerriero assetato di sangue. Sa come combattere. Sa come far male per via del suo passato. Semplicemente, ad un certo punto della storia, sceglie di non farlo e predicare l’amore. Ma sa come difendersi.

Il suo trauma è parte integrante della trasformazione della sua anima.
Il pacifismo predicato da Vinland Saga non è mera passività ma agire quando è strettamente necessario. Solo chi sa combattere può scegliere la pace sapendo di essere capace di violenza. Chi è semplicemente innocuo è invece alla mercé del più forte. Come dice Jordan Peterson, l’uomo deve essere capace di violenza e brutalità: deve essere un mostro capace di controllarsi. Ma è difficile. È difficile eccellere in qualcosa che viene contro natura.


Ormai ho iniziato il mio percorso nella boxe da più di due anni. Cosa mi ha insegnato ricevere diretti in faccia per tutto questo tempo? Cosa mi ha insegnato poter effettuare una combinazione gancio sinistro al corpo, gancio destra alla mascella? Sono forse una persona migliore sia dentro che fuori dal ring? Mi piace pensare di esserlo. Dopo tutto, nulla dona confidenza come saper combattere. Non sono di certo Tyson, ma il semplice fatto di salire su un ring con persone che mi guardano mentre un altro cerca di staccarmi la testa mi riempie di paura e di orgoglio.

Dopo questa esperienza il mondo reale fa meno paura: quando riesci a capire che siamo sacchi di carne che perdono sangue allo stesso modo e che abbiamo tutti il potere di fare del male tanto quanto di subirlo, il mondo appare un po’ meno grigio e più luminoso. Stessa cosa quando si guadagna più soldi o quando si ottiene un fisico migliore.

Tante piccole porte ci si aprono e la nostra crescita fisica, economica e spirituale ci permettere di essere un tantino più forti per aiutare noi stessi e le persone intorno a noi. Non possiamo tornare indietro. L’orologio biologico sta scadendo per tutti ogni secondo che passa. L’anno scorso avevo 24 anni. Ora 25. Il prossimo anno, se la mia dipendenza da Monster Energy non viene a reclamare la mia vita anzitempo, ne avrò 26.

Fino a quando sono in tempo, fino a quando ho fiato in corpo, voglio sforzarmi di essere un po’ più forte del giorno precedente. Non potrò mai scordare quel che ho passato. Fa parte di me. Ma, in un certo senso, sono grato anche delle cose negative che mi sono successe: hanno contribuito a donarmi una storia interessante e unica che appartiene solo a me. Sono grato di questa vita ma, più di ogni cosa, sono grato della mia vita.

Cyberpunk: Edgerunner, sognando la Luna in un appartamento nella periferia di Night City

Ultimamente mi sento come se il tempo mi stesse scivolando per le mani. I giorni passano e si trasformano velocemente in mesi e poi in anni. Non riesco a smettere di pensare che un giorno, con una sicurezza matematica del 100%, non sarò più qui. Sono molto più attaccato alla vita di quanto pensassi. Eppure, per quanto io riconosca il valore (seppur effimero) della mia esistenza, ho ancora la sensazione di non riuscire a vivere appieno.

Come molti sono prigioniero di una routine che, per quanto sana e costruttiva, lascia poco spazio all’avventura e ai sogni. Come recita Fight Club “Questa è la tua vita e sta finendo un minuto alla volta”. Forse ho preso troppi pugni nello sparring, ma questa frase acquisisce sempre più senso man mano che continuo a vivere. La nostra vita è molto fragile e può finire da un momento all’altro. Forse è il caso di farci qualcosa nel frattempo oppure, almeno, godersela per quanto possibile. Perlomeno questo è il messaggio che mi pare di aver colto da Cyberpunk: Edgerunners, la serie anime targata Netflix ispirata al videogioco della casa di produzione CD Project RED.

You are going to carry that weight…

Cyberpunk: Edgerunners ricorda a tratti Devilman Crybaby

Come si potrebbe evincere dal nome, la serie ricade sul filone narrativo cyberpunk, il quale, come chiarisce Wikipedia, tratta di scienze avanzate, come l’information technology e la cibernetica, accoppiate con un certo grado di ribellione o cambiamento radicale nell’ordine sociale.

L’anno è il 2077. Il protagonista della serie è David, un ragazzo di strada che vive nella periferia di Night City insieme alla madre Gloria. David è una mente brillante e tra i primi della classe all’Arasaka Academy, la scuola più prestigiosa della città. La madre fa due lavori per mantenere la retta e cercare di dare al figlio un futuro dignitoso che lei non ha potuto avere per se stessa.

Un incidente stradale fa subito traballare questo equilibrio precario: Gloria rimane gravemente ferita e il suo ceto sociale non è abbastanza elevato per permetterle cure mediche di prim’ordine. Con la sua morte, David rimane solo a Night City. Tormentato dai suoi compagni di classe per essere povero e con un forte senso di colpa per non essere riuscito a proteggere la madre, David decide di lasciare l’Arasaka Academy e modificare il proprio corpo con un impianto Sandevistan di tipo militare che gli permetterà di essere più forte fisicamente ma che tuttavia gli causerà danni psicofisici che graveranno sempre di più sulla sua mente.

In poco tempo si introdurrà nella criminalità di Night City alla ricerca di un posto che possa chiamare casa. David fa la conoscenza di Lucy, una ladra di professione che bazzica nel temuto gruppo di Maine, il cyberpunk criminale. Ed è così che ha inizio la nuova vita di David alla scoperta di sé stesso e dei suoi sogni. Night City è una giungla urbana e ogni giorno può essere l’ultimo.

La vita umana vale in proporzione al denaro che viene guadagnato: una lezione che il protagonista ha imparato a caro prezzo con la morte della madre. Una storia di formazione che trova spazio anche per temi importanti come l’amore, riflessioni sul senso della vita e la natura umana che spinge ognuno di noi a trovare un posto in cui ci si sentiamo accettati. In dieci episodi questa serie offre molto più di quanto altri anime non riescano a delineare in 8 stagioni: una storia autoconclusiva con personaggi umani e perfetti nelle loro imperfezioni.

Il finale è un qualcosa di straziante che, però, è maledettamente in linea con la premessa iniziale della serie: “Non ci sono lieto fine a Night City”. Tuttavia, almeno per i più ottimisti, è presente un briciolo di speranza per il futuro a cui, con un po’ di forza di volontà, ci si può aggrappare. Per quanto possa essere scontato dirlo, la vita è davvero imprevedibile e breve: tanto vale godersi il viaggio anche nelle sue sfumature più negative. Una serie altamente consigliata per chiunque.

Menzione speciale per la colonna sonora firmata da Akira Yamaoka, storico compositore di Silent Hill.

Alice in Borderland: un gamer apprezza di più la vita rischiando la morte ogni giorno

È passato qualche anno da quando vidi la prima stagione di questa serie. Ero tornato dal Galles ormai da qualche mese appena terminata la mia laurea. Mi sarebbe piaciuto restare lì, ma era il periodo del Covid e della Brexit e fui quasi costretto a prendere un volo per Roma. È stato un periodo piuttosto buio della mia vita. Avevo giurato che non avrei mai più fatto ritorno nella casa della mia adolescenza. Non aver mantenuto fede alla mia promessa mi aveva devastato. Non avevo un lavoro, né la scusa degli studi. Passavo le giornate in completo isolamento. Tra i pochi svaghi che avevo l’immancabile lo-fi, Monster Energy, qualche libro, la televisione e Bloodborne.

Non c’è da meravigliarsi se all’epoca mi sono immedesimato subito in Arisu, il protagonista di Alice in Borderland. Ma andiamo per ordine: Arisu è un neet (neither in employment or education: non lavora né studia) e passa le giornate chiuso in camera a giocare ai videogame. Un fenomeno tristemente noto soprattutto in Giappone, patria degli hikikomori, persone che non escono mai al di fuori della propria camera (per un approfondimento completo cliccare qui).

Arisu non ha prospettive per il futuro. Suo padre lo guarda dall’alto in basso e lo paragona sempre a suo fratello, il quale ha completato con successo il ciclo di studi e ha un lavoro. L’unico suo sfogo risiede nell’ottenere il punteggio più alto negli sparatutto e uscire con i suoi due amici Chōta e Karube. Un giorno, dopo essere stato bacchettato per l’ennesima volta da suo padre per il suo stile di vita, Arisu decide di incontrarsi con i suoi amici in una mattina di calda estate al centro di Tokyo.

Per un attimo tutto sembra aver senso per Arisu e prende respiro dalle ansie che gli impediscono di vivere appieno il presente. L’idillio continua fino a quando la piazza di Shibuya viene scossa dal rombo di diversi fuochi d’artificio che illuminano la città nonostante sia pieno giorno.

Chōta, Arisu e Karube

D’un tratto, i tre amici si ritrovano in una versione alternativa di Tokyo. La natura ha preso il sopravvento: la vegetazione si è fatta strada tra i grattacieli che compongono la skyline della città. Sembra non esserci nessuno. La folla di Shibuya è scomparsa e non c’è segno di vita. I tre decidono di esplorare la città in cerca di risposte.

Il sole fa posto alla luna e nel cielo compaiono alcune scie luminose. Arisu, Chōta e Karube si dirigono in uno dei luoghi illuminati. Al loro ingresso nel palazzo di luce inizia il game Dead or Alive. Una voce robotica informa loro che non è più possibile uscire dal palazzo: pena la morte tramite un laser che compare dal cielo. Le regole sono semplici: il gruppo è costretto a scegliere una di due porte in cui entrare entro un certo limite di tempo. Una conduce a morte certa e l’altra è la via per la salvezza.

Viene scoperto in poco tempo che per sopravvivere in questa versione di Tokyo è indispensabile giocare a questi game mortali. Ognuno dei personaggi che è stato trasportato in quel mondo ha un visto con un certo numero di giorni. Al termine del visto, la persona muore. Per ottenere più giorni nel visto è quindi necessario superare i game.

Un qualcosa in cui Arisu si può definire un esperto. Si scoprirà con il passare della serie che molte persone si trovano in questa nuova versione della città. Nessuna ne sa il motivo e tutti sono alla ricerca di un modo per tornare a casa.

Questo è solo il primo episodio di una serie composta da due stagioni tratte dal manga di Haro Aso. Un manga all’apparenza fantascientifico ma che si pone importanti domande sul senso della vita e quanto sia importante viverla al meglio ogni giorno. Nel corso della serie, il passato dei personaggi verrà messo a nudo: ognuno ha il suo motivo per sopravvivere e tornare a casa e, allo stesso modo, ognuno ha un motivo che lo ha portato a sfuggire dai traumi della realtà esattamente come Arisu.

Non mi piace utilizzare troppo la parola “capolavoro” ma credo seriamente che sia uno degli aggettivi che più si addice a questa serie. Ha molti difetti, primo tra tutti un ritmo lento, ma racchiude un grandissimo messaggio di speranza. Anche nelle situazioni più orribili della vita è possibile trovare una ragione per continuare a respirare. Ogni giorno, per quanto cliché possa sembrare, potrebbe essere l’ultimo. Il finale della serie lascia veramente spazio al desiderio di rinascita che ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita. Forse la vita che viviamo non è troppo differente da uno dei game descritti da quel genio di Aso. Non importa quanto siamo bravi: alla fine c’è un game over per tutti. Quello che conta però è vivere al meglio il viaggio che abbiamo scelto di intraprendere.

Molte cose sono cambiate nella mia vita da quando vidi la prima stagione della serie. E, in un certo senso, anche io sono cresciuto insieme ad Arisu in questi tre anni. Alice in Borderland è quel genere di storia a cui ritorni ogni volta che hai bisogno di conforto. Quella versione di Tokyo, esattamente come Silent Hill, è il luogo che ogni anima persa visita per ritrovare la redenzione o la distruzione totale. Altamente consigliato per chiunque.

The First Slam Dunk non si regola: un gioiello d’animazione si rivela un’autentica esperienza cinematografica

Il mio primo approccio con Takehiko Inoue, la mente dietro Slam Dunk, è stato con Vagabond. La storia, i dialoghi, la filosofia e i disegni hanno contribuito a creare una delle rivisitazioni più riuscite della biografia di Musashi Miyamoto, il leggendario samurai realmente esistito che non ha mai perso in uno scontro e che ha avuto il privilegio di morire di cause naturali. È grazie ad Inoue che mi sono approcciato al Libro dei cinque anelli, gli scritti che un ormai vecchio Miyamoto ha lasciato in eredità a chiunque voglia seguire la via del samurai.

Slam Dunk, ovviamente, si tratta di una storia completamente differente a cui non mi sono mai avvicinato prima di questo film. Non sono un grande appassionato di basket e i manga sullo sport (spokon), fatta eccezione per quelli basati sulle arti marziali, non sono tra i miei preferiti. Inutile dire che questo film ha superato di gran lunga ogni mia aspettativa. The First Slam Dunk è uno dei film sportivi più belli che abbia mai visto e riesce a stare sullo stesso livello del primo Rocky.

L’intera storia ruota su una delle partite più decisive descritte nel manga: il match liceale tra la squadra Shohoku e il Sannoh. Come in molti film sportivi, il tema della rivalsa sociale gioca un ruolo di grande importanza. Lo Shohoku è una squadra di teppisti, bulli, perdenti: il lato più negativo della società giapponese, visti costantemente dall’alto in basso. Ognuno dei membri della squadra ha un passato che ha influenzato negativamente la propria vita ed è come se fossero bloccati in un’eterna aura di mediocrità. Ma, adesso, lo Shohoku ha l’occasione di rivalsa ed è pronto a sfidare l’invincibile Sannoh, l’esatto opposto dello Shohoku: ogni membro della squadra avversaria è un vincente nato con all’interno il player considerato come il migliore del Giappone. Il Sannoh non ha mai perso un match e non c’è nulla che indichi che possa essere sconfitto dallo Shohoku.

The first slam dunk f

Nonostante la meravigliosa premessa della storia, anche se un tantino cliché per il genere, sin da subito nasce un interrogativo: come rendere un film sportivo dal ritmo scorrevole se ci si basa solo su una partita? Vengo subito smentito all’inizio con un meraviglioso flashback in cui vengono, pian piano, mostrate le ragioni che spingono Ryota Miyagi, uno dei protagonisti, ad addentrarsi nel mondo del basket. Ed è così che trovo la risposta al mio quesito iniziale.

Il film si divide in due parti: il trauma emotivo che accompagna Ryota sin dall’infanzia, la perdita del fratello che adorava il basket, e il momento decisivo in cui lui e la Shohoku affrontano Sannoh. Il ritmo è meraviglioso con l’alternarsi di scene d’azione incredibili che si tramutano in sipari profondamente umani e malinconici.

Non sono un esperto di basket, ma la persona che mi ha accompagnato in sala lo era e ha affermato di essere stato colpito dalla profonda cura che è stata messa nella realizzazione della partita.

Un altro punto di forza è il 3D: come molti, io sono un fan delle animazioni più classiche ma l’elemento della terza dimensione ha accentuato una realtà più autentica e dinamica che, a mio parere, si sarebbe persa senza il suo utilizzo. Al contrario, le scene dei flashback sono in 2D e sono caratterizzate da un ritmo più lento, introspettivo e piacevole. Ogni scena è bilanciata alla perfezione. Ogni personaggio è curato nei minimi dettagli… nonostante non avrei disprezzato qualche scena in più sul roscio Sakuragi.

Una favola moderna fantastica in cui tutti gli underdog e i sottovalutati della vita possono rispecchiarsi. Alla fine del film è partito un applauso: un qualcosa che è capitato, nelle mie esperienze in sala, solo con La La Land. Ogni spettatore è rimasto seduto sulla poltrona ad ascoltare la melodia della colonna sonora portante. Le lyrics tradotte della canzone scorrevano insieme ai titoli di coda. Un momento meraviglioso che mi rimarrà impresso per molto, molto tempo. Non si tratta solo di una trasposizione ben riuscita ma di un’esperienza cinematografica unica nel suo genere. Unica nota dolente: il fatto che il film in lingua originale è stato disponibile solo per il 10 maggio. Avrei voluto tanto di rivederlo in giapponese una seconda volta ma mi accontenterò della versione in italiano. Un film fantastico consigliato a chi ama gli anime, il basket, il cinema o, semplicemente, un’ottima storia. E ora mi tocca aggiungere un altro manga alla mia lista…

Suzume: viaggio on the road in compagnia di una sedia alla ricerca di un gatto per chiudere una porta

Ho visto questo film un paio di volte nel corso della settimana. Il primo è stato subito dopo una sessione di sparring particolarmente brutale con più di 10 round. I pugni che ho preso nel corso di quella mezz’ora mi hanno aiutato ad immergermi completamente nello stile artistico, onirico e surreale dell’anime: firma inconfondibile del regista Makoto Shinkai. La seconda volta è stata in compagnia di una ragazza conosciuta su Tinder che era incuriosita dal film. Considerando che adoro vedere più di una volta i film al cinema, perlomeno quelli che mi sono piaciuti, ho accettato di buon grado la proposta.

Ma ecco le mie considerazioni: la direzione artistica, i disegni e l’animazione sono fuori da questo mondo: ogni frame del film è degno di essere incorniciato ed essere appeso lungo i corridoi di un museo. La colonna sonora è incredibile e il tema di Suzume risuona sin dentro la propria anima con un meraviglioso tu tu rurururururuuuuuu rururururu ruuruuuu…. (nonostante credo di aver espresso egregiamente il ritmo e il suono della canzone, metto il video qui sotto).

Ma veniamo alla trama: Suzume è una liceale come tante che vive in un paesino nella prefettura di Miyazaki (un nome che credo abbia avuto un certo peso in più di un senso). Suzume ha perso sua madre in giovane età ed è stata cresciuta dalla zia. Le cicatrici di quella perdita pesano ancora sul suo subconscio ma, in fondo, riesce a condurre una vita sana. Un giorno incontra per caso Sōta, un ragazzo alla ricerca di una misteriosa porta abbandonata la quale, in realtà, è il portale per un’altra dimensione. Suzume scopre suo malgrado questo mondo e il “verme”: una creatura fatta di fumo che solo lei e Sōta possono vedere. A quanto pare quando le porte vengono aperte, questi vermi giganteschi vengono prodotti per abbattersi sulla nostra dimensione e causare dei terremoti. Il compito di Sōta è quello di prevenire i terremoti e tenere a freno i vermi.

suzume

Tuttavia, qualcosa non va per il verso giusto: Sōta viene maledetto da un’entità che faceva da guardiano alla porta, un gattino, e la sua anima viene spostata all’interno di una sedia per bambini, la stessa sedia che la mamma di Suzume aveva creato per lei prima di sparire.

Inizia allora il viaggio di Suzume e di Sōta, ormai una sedia, in un Giappone nostalgico alla ricerca del gatto che ha maledetto quest’ultimo e per chiudere le porte che favoriscono il passaggio dei vermi e causano terremoti.

La trama segue i protagonisti in un lungo viaggio psicologico e surreale in cui Suzume dovrà confrontarsi con il trauma ancora irrisolto della morte della madre. Non ho potuto fare a meno di notare che il film possiede un tono quasi post-apocalittico: a quanto pare la maggiore fonte di ispirazione è stato il terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011, tragedia che ha scosso profondamente il Giappone.

Le porte che i protagonisti ricercano sono all’interno di aree sperdute che una volta erano piene di vita: scuole, luna-park, città che ormai rappresentano scheletri di una quotidianità che è stata persa per sempre. Shinkai ha cominciato a lavorare sulla pellicola nel 2020, poco prima dell’emergenza Covid. Non è stato difficile vedere qualche parallelismo anche su questa tragedia. I personaggi si muovono da soli in aree abbondonate ma, forse proprio per questo, che brillano di una luce propria. Sono costretti a pensare al loro passato esattamente come molti di noi hanno dovuto rielaborare alcuni fatti spiacevoli riportati alla luce dal periodo del distanziamento sociale. Un film che, a grandi linee, mi ha ricordato i romanzi di Murakami.

Un film meraviglioso in cui si sente tutta la maturità tecnica ed emotiva del maestro Shinkai e del suo team: forse il mio preferito subito dopo 5 centimetri al secondo.

Dragonball, vivere nel passato e sfuggire al presente

Uno dei miei posti preferiti a Milano è lo Starbucks Reserve a Cordusio. Non è uno Starbucks normale bensì una via di mezzo tra una caffetteria e una torrefazione dove poter osservare la lavorazione del caffè mentre si beve una miscela scelta di prim’ordine. Non è il genere di posto che avrei scoperto da solo e per questo devo ringraziare il mio lavoro che mi ci ha indirizzato per farci un pezzo di cronaca.

E se c’è una cosa che adoro associare al caffè, questo è il lo-fi (sta diventando un blog tematico, eh?). Stringere tra le mani una tazza fumante ascoltando playlist come questa è un rituale che mi concedo ogni domenica. Sarebbe un paradiso in terra se non fosse per tutti i clienti, ma incontrare persone è un rischio piuttosto alto quando ci si reca da un marchio del genere. Sarebbe un po’ come lamentarsi della fila al McDonald.

Comunque sia, in questo particolare giorno, con le cuffie che risuonano le intramontabili sigle di Dragonball in versione giapponese, ripenso all’infanzia e di quanto fossi simile a Goku da bambino: senza pensieri, allegro, combattivo e pieno d’energia.

Non faccio a meno di pensare: qualcosa deve essere andato storto. Non ho una brutta vita. Sarei persino sul punto di dire che mi piace l’equilibrio che mi sono creato. Tuttavia, non riesco a smettere di avere la sensazione di vivere al di sotto delle mie potenzialità: un qualcosa che avevo da ragazzino e che, trauma dopo trauma, imbastito con un po’ di solitudine che sta bene con tutto, potrebbe non tornare mai più.

Ho provato molte cose: boxe, buttarmi sul lavoro, coltivare hobby, amicizie, rapporti e così via. Mi ci sono impegnato davvero molto (ancora adesso tutte queste attività occupano una gran parte del mio tempo) e la mia vita è migliorata esponenzialmente. Ma questa sensazione rimane. Saltare anche un allenamento, trascurare anche solo per un’ora i miei progetti e piccoli set back che accadono di tanto in tanto mi portano inevitabilmente a ricordare brutti momenti della mia vita che avrei potuto evitare se fossi stato solo un po’ più forte, intelligente e capace. Mi domando quanto ancora possa punirmi per gli sbagli che ho fatto al liceo. Sono passati ormai 8 anni e uso ancora quella roba come motivazione. Mi fa sopravvivere ma, al tempo stesso, mi consuma. Sono più presente nel passato che nel presente (ahah).

lofi lo-fi dragonball

Ciò mi riporta a una frase di Godor, fabbro di Berserk: “L’odio è uno di quei luoghi in cui la gente che non riesce ad affrontare la tristezza cerca asilo. Vendicarsi è come affilare una lama arrugginita dal sangue immergendola in un lago sempre di sangue. Per riparare la lama del tuo cuore arrugginita dalla tristezza, la stai inabissando nel sangue. Ma più l’affili, più si arrugginisce. E più si arrugginisce, più l’affili. Alla fine rimarrai solo con un pugno di ruggine”.

Non nutro odio e non ho certo desideri di vendetta ma sento comunque che rivivere ogni giorno quei ricordi mi stia arrugginendo. Forse credo che mi motivino ma, più probabilmente, mi stanno solo consumando lentamente. In un certo senso sono grato di aver vissuto quelle esperienze negative. Sono convinto che chi ha visto il lato negativo della vita possa anche riuscire a vederne quello più bello. Questo però richiede molto lavoro, impegno e anche una certa dose di illusione.

È uno dei motivi per cui mi è sempre piaciuto Goku: lui crede sempre di potercela fare e sconfiggere il prossimo avversario. Non brilla di certo di intelligenza e a volte avrebbe fatto meglio a scappare (fortuna che ci sono le sfere del drago) ma la sua caparbietà lo ha portato a diventare letteralmente un Dio. Non a caso molti protagonisti shonen sono così poco competenti all’inizio. Anche Naruto e Luffy sono costruiti su questo modello: si tratta essenzialmente dei perdenti dal cuore d’oro accumunati però dal desiderio di diventare sempre più forti. Non sarebbe male se fossi più simile a loro. Detto questo, come accennato prima, in questi anni la mia vita è migliorata e questo, già di sé, è una piccola vittoria.