Isabelle Wenzel: tra arte, lavoro e sigma male grindset al BiM di Bicocca a Milano

Era da molto tempo che non visitavo una mostra artistica. L’ultima volta sarà stata tre anni fa, all’epoca della pandemia, quando presi un aereo per Marsiglia con una vaga idea di unirmi al corpo militare della Legione Straniera. Una fantasia che aveva fondamenta molto traballanti sin dall’inizio ma che tuttavia mi ha permesso di viaggiare un po’. Dopo quella parentesi fallimentare, decisi di prendere un treno per Parigi, città che non avevo mai conosciuto appieno. Girovagando per Champs-Élysées, mi fermai in una piccola struttura che ospitava i lavori di un artista emergente.

L’intero locale era ricoperto di poesie e disegni che spaziavano dallo stile fumettistico a vere imitazioni dei capolavori del Louvre e, in sottofondo, aleggiavano le note di una di quelle vecchie canzoni francesi che penseresti esistano solo nei film. L’atmosfera era onirica e, ora che ci penso, rappresenta uno dei ricordi più nitidi che ho. Avevo appena finito l’Università, abbandonato il Regno Unito e credevo non ci fosse limite a quel che potevo fare, esattamente come quell’artista emergente che aveva aperto la galleria. Peccato ci fossi solo io a visitarla. Secondo me meritava…

La mostra di Isabelle Wenzel

La mia ultima mostra artistica, invece, risale a pochi giorni fa con l’anteprima dell’evento di Isabelle Wenzel tenutosi a BiM – dove Bicocca incontra Milano, in Viale dell’Innovazione 3, una struttura di rigenerazione urbana che ha dato ufficialmente il via ad una moltitudine di eventi artistici, culturali e sociali.

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BiM visto dall’alto

Il tema della mostra era incentrato sulla vita d’ufficio sotto il punto di vista di un artista, tradotto in fogli A4 che volano per aria, telefoni appesi al muro, posizioni scomode assunte dal corpo costretto a rimanere seduto per ore e ore di fronte ad un computer.

Isabelle Wenzel, artista poliedrica che al tempo stesso può vantare dei titoli di fotografa e acrobata, ha affermato che la sua idea era quello di immedesimarsi in uno schema di lavoro 9-5 , la frustrazione che ne può scaturire, ma anche il senso di tranquillità che una routine di ufficio può regalare dal punto di vista di un guadagno fisso.

Coniugare il mondo dell’artista con quello dell’impiegato può sembrare all’apparenza azzardato considerando la distanza tra le due professioni. Tuttavia, potrebbe aver più senso di quel che si potrebbe pensare: solo dalla frustrazione di un lavoro non pienamente apprezzato si può generare la forza creativa (o distruttrice) per esprimere sé stessi al meglio. Mi viene in mente il narratore senza nome di Fight Club, anche lui un impiegato, che dà sfogo alla sua passività tramite gli haiku che distribuisce in ufficio o tramite l’organizzazione socio-anarchica che il suo alter-ego, Tyler Durden, fonda.

Per non parlare di American Psycho, con un Patrick Bateman all’apparenza ben inserito nella società e nell’idilliaca vita da yuppie di Wall Street ma che sfoga il suo dubbio esistenziale e senso di inferiorità uccidendo e torturando persone di un’estrazione sociale inferiore alla sua.

O dell’insofferenza di David Martinez per la scuola, preludio al mondo del lavoro, descritta nel primo episodio di Cyberpunk: Edgerunner e che sfocia nel suo odio per le corporazioni e il suo ingresso nella vita criminale.

Gli esempi sono molti. Soffocare la libertà personale e la voglia di esprimersi in nome del progresso e dell’efficienza può portare lentamente ad una lenta distruzione della personalità per più di una persona. Almeno questo è il messaggio che ho recepito. Se questo è il caso, risulterebbe davvero difficile trovare un equilibrio. L’iniziativa dell’artista è tanto affascinante quanto provocatoria e merita senza dubbio una visita.

La mostra è visitabile gratuitamente fino al 15 settembre e sarà esposta alla C41 Gallery, uno spazio di sperimentazione artistico curato dalla casa di produzione creativa C41.

Ma le novità non finiscono qui. Fulcro del programma temporaneo di eventi gratuiti promosso da BiM sarà il BiM Garden, uno spazio verde a cielo aperto progettato da Paola Navone – Otto Studio e dal paesaggista Antonio Perazzi, con ampi tavoli sociali multifunzionali. Qui, BiM presenta la rassegna estiva di cinema all’aperto “La linea milanese”, curata da Cineteca Milano: un omaggio all’originalità dei grandi capolavori del cinema milanese che traccia una linea lunga 40 anni tra Dario Fo e Maurizio Nichetti, De Sica e Zavattini, Tognazzi e Bianciardi.

Sognando Night City in un appartamento nella periferia di Milano: 5 città cyberpunk che vorrei visitare

Ultimamente sono in fissa con un certo sotto-genere della fantascienza dopo aver visto Cyberpunk: Edgerunners (qui per saperne di più). Non mi dispiacerebbe vivere in una città ultra-futuristica e osservare dalla finestra del mio appartamento al 66° piano le luci al neon che si accendono e si spengono in una città grigia e immensa. Per questo ho ricercato su Google alcune tra le città più cyberpunk del mondo e ne è venuta fuori una lista niente male. Non c’è niente di meglio che sognare sorseggiando una Monster Energy con un po’ di lo-fi a volume basso in sottofondo per poter ascoltare il ticchettio della pioggia che si infrange sul vetro. Ecco perciò dove mi immagino quest’estate:

Al numero uno abbiamo Chongqing in Cina. Un’immagine vale più di mille parole. Questa città incarna lo spirito cyberpunk: traffico tridimensionale, luci fredde e al tempo stesso sensuali, grattacieli che si perdono nelle nuvole più alte del cielo.

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Al secondo posto Hong Kong. Tutto quello che so di questa città è grazie a Shenmue II. Forse è la città-simbolo che definisce il cyberpunk. La sua estetica ha ispirato Blade Runner e numerosi altri capolavori del genere come Ghost in The Shell.

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Al terzo posto Tokyo. Una città che mi è cara per più di un aspetto considerando la mia grande passione per i manga. Fonte d’ispirazione per Akira, città futuristica per antonomasia e modello per Night City di Cyberpunk 2077: Tokyo è uno dei posti più visitati e amati al mondo.

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Al quarto posto New York City. Non il massimo della fantasia ma è innegabile la bellezza della sua architettura e il design post-moderno che delinea una delle skyline più immortalate al mondo.

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Questo è tutto. Ovviamente ci sono diverse altre città che hanno catturato la mia attenzione ma, per il momento, preferisco mantenere un profilo più mainstream. Già visitare queste quattro location non sarebbe affatto male.

Ed è così che un’altra serata volge al termine. Domani tornerò alla mia routine e a confrontarmi di nuovo con la realtà. Tuttavia, anche solo per un momento, mi ritrovo a vivere nella mia mente un’avventura sci-fi con me stesso come protagonista. La lattina di Monster è ancora mezza piena (o mezza vuota a seconda della propria inclinazione psicologica) ed è ragionevolmente presto. Noto però che ha smesso di piovere. Brutto segno.

Cyberpunk: Edgerunner, sognando la Luna in un appartamento nella periferia di Night City

Ultimamente mi sento come se il tempo mi stesse scivolando per le mani. I giorni passano e si trasformano velocemente in mesi e poi in anni. Non riesco a smettere di pensare che un giorno, con una sicurezza matematica del 100%, non sarò più qui. Sono molto più attaccato alla vita di quanto pensassi. Eppure, per quanto io riconosca il valore (seppur effimero) della mia esistenza, ho ancora la sensazione di non riuscire a vivere appieno.

Come molti sono prigioniero di una routine che, per quanto sana e costruttiva, lascia poco spazio all’avventura e ai sogni. Come recita Fight Club “Questa è la tua vita e sta finendo un minuto alla volta”. Forse ho preso troppi pugni nello sparring, ma questa frase acquisisce sempre più senso man mano che continuo a vivere. La nostra vita è molto fragile e può finire da un momento all’altro. Forse è il caso di farci qualcosa nel frattempo oppure, almeno, godersela per quanto possibile. Perlomeno questo è il messaggio che mi pare di aver colto da Cyberpunk: Edgerunners, la serie anime targata Netflix ispirata al videogioco della casa di produzione CD Project RED.

You are going to carry that weight…

Cyberpunk: Edgerunners ricorda a tratti Devilman Crybaby

Come si potrebbe evincere dal nome, la serie ricade sul filone narrativo cyberpunk, il quale, come chiarisce Wikipedia, tratta di scienze avanzate, come l’information technology e la cibernetica, accoppiate con un certo grado di ribellione o cambiamento radicale nell’ordine sociale.

L’anno è il 2077. Il protagonista della serie è David, un ragazzo di strada che vive nella periferia di Night City insieme alla madre Gloria. David è una mente brillante e tra i primi della classe all’Arasaka Academy, la scuola più prestigiosa della città. La madre fa due lavori per mantenere la retta e cercare di dare al figlio un futuro dignitoso che lei non ha potuto avere per se stessa.

Un incidente stradale fa subito traballare questo equilibrio precario: Gloria rimane gravemente ferita e il suo ceto sociale non è abbastanza elevato per permetterle cure mediche di prim’ordine. Con la sua morte, David rimane solo a Night City. Tormentato dai suoi compagni di classe per essere povero e con un forte senso di colpa per non essere riuscito a proteggere la madre, David decide di lasciare l’Arasaka Academy e modificare il proprio corpo con un impianto Sandevistan di tipo militare che gli permetterà di essere più forte fisicamente ma che tuttavia gli causerà danni psicofisici che graveranno sempre di più sulla sua mente.

In poco tempo si introdurrà nella criminalità di Night City alla ricerca di un posto che possa chiamare casa. David fa la conoscenza di Lucy, una ladra di professione che bazzica nel temuto gruppo di Maine, il cyberpunk criminale. Ed è così che ha inizio la nuova vita di David alla scoperta di sé stesso e dei suoi sogni. Night City è una giungla urbana e ogni giorno può essere l’ultimo.

La vita umana vale in proporzione al denaro che viene guadagnato: una lezione che il protagonista ha imparato a caro prezzo con la morte della madre. Una storia di formazione che trova spazio anche per temi importanti come l’amore, riflessioni sul senso della vita e la natura umana che spinge ognuno di noi a trovare un posto in cui ci si sentiamo accettati. In dieci episodi questa serie offre molto più di quanto altri anime non riescano a delineare in 8 stagioni: una storia autoconclusiva con personaggi umani e perfetti nelle loro imperfezioni.

Il finale è un qualcosa di straziante che, però, è maledettamente in linea con la premessa iniziale della serie: “Non ci sono lieto fine a Night City”. Tuttavia, almeno per i più ottimisti, è presente un briciolo di speranza per il futuro a cui, con un po’ di forza di volontà, ci si può aggrappare. Per quanto possa essere scontato dirlo, la vita è davvero imprevedibile e breve: tanto vale godersi il viaggio anche nelle sue sfumature più negative. Una serie altamente consigliata per chiunque.

Menzione speciale per la colonna sonora firmata da Akira Yamaoka, storico compositore di Silent Hill.

Alice in Borderland: un gamer apprezza di più la vita rischiando la morte ogni giorno

È passato qualche anno da quando vidi la prima stagione di questa serie. Ero tornato dal Galles ormai da qualche mese appena terminata la mia laurea. Mi sarebbe piaciuto restare lì, ma era il periodo del Covid e della Brexit e fui quasi costretto a prendere un volo per Roma. È stato un periodo piuttosto buio della mia vita. Avevo giurato che non avrei mai più fatto ritorno nella casa della mia adolescenza. Non aver mantenuto fede alla mia promessa mi aveva devastato. Non avevo un lavoro, né la scusa degli studi. Passavo le giornate in completo isolamento. Tra i pochi svaghi che avevo l’immancabile lo-fi, Monster Energy, qualche libro, la televisione e Bloodborne.

Non c’è da meravigliarsi se all’epoca mi sono immedesimato subito in Arisu, il protagonista di Alice in Borderland. Ma andiamo per ordine: Arisu è un neet (neither in employment or education: non lavora né studia) e passa le giornate chiuso in camera a giocare ai videogame. Un fenomeno tristemente noto soprattutto in Giappone, patria degli hikikomori, persone che non escono mai al di fuori della propria camera (per un approfondimento completo cliccare qui).

Arisu non ha prospettive per il futuro. Suo padre lo guarda dall’alto in basso e lo paragona sempre a suo fratello, il quale ha completato con successo il ciclo di studi e ha un lavoro. L’unico suo sfogo risiede nell’ottenere il punteggio più alto negli sparatutto e uscire con i suoi due amici Chōta e Karube. Un giorno, dopo essere stato bacchettato per l’ennesima volta da suo padre per il suo stile di vita, Arisu decide di incontrarsi con i suoi amici in una mattina di calda estate al centro di Tokyo.

Per un attimo tutto sembra aver senso per Arisu e prende respiro dalle ansie che gli impediscono di vivere appieno il presente. L’idillio continua fino a quando la piazza di Shibuya viene scossa dal rombo di diversi fuochi d’artificio che illuminano la città nonostante sia pieno giorno.

Chōta, Arisu e Karube

D’un tratto, i tre amici si ritrovano in una versione alternativa di Tokyo. La natura ha preso il sopravvento: la vegetazione si è fatta strada tra i grattacieli che compongono la skyline della città. Sembra non esserci nessuno. La folla di Shibuya è scomparsa e non c’è segno di vita. I tre decidono di esplorare la città in cerca di risposte.

Il sole fa posto alla luna e nel cielo compaiono alcune scie luminose. Arisu, Chōta e Karube si dirigono in uno dei luoghi illuminati. Al loro ingresso nel palazzo di luce inizia il game Dead or Alive. Una voce robotica informa loro che non è più possibile uscire dal palazzo: pena la morte tramite un laser che compare dal cielo. Le regole sono semplici: il gruppo è costretto a scegliere una di due porte in cui entrare entro un certo limite di tempo. Una conduce a morte certa e l’altra è la via per la salvezza.

Viene scoperto in poco tempo che per sopravvivere in questa versione di Tokyo è indispensabile giocare a questi game mortali. Ognuno dei personaggi che è stato trasportato in quel mondo ha un visto con un certo numero di giorni. Al termine del visto, la persona muore. Per ottenere più giorni nel visto è quindi necessario superare i game.

Un qualcosa in cui Arisu si può definire un esperto. Si scoprirà con il passare della serie che molte persone si trovano in questa nuova versione della città. Nessuna ne sa il motivo e tutti sono alla ricerca di un modo per tornare a casa.

Questo è solo il primo episodio di una serie composta da due stagioni tratte dal manga di Haro Aso. Un manga all’apparenza fantascientifico ma che si pone importanti domande sul senso della vita e quanto sia importante viverla al meglio ogni giorno. Nel corso della serie, il passato dei personaggi verrà messo a nudo: ognuno ha il suo motivo per sopravvivere e tornare a casa e, allo stesso modo, ognuno ha un motivo che lo ha portato a sfuggire dai traumi della realtà esattamente come Arisu.

Non mi piace utilizzare troppo la parola “capolavoro” ma credo seriamente che sia uno degli aggettivi che più si addice a questa serie. Ha molti difetti, primo tra tutti un ritmo lento, ma racchiude un grandissimo messaggio di speranza. Anche nelle situazioni più orribili della vita è possibile trovare una ragione per continuare a respirare. Ogni giorno, per quanto cliché possa sembrare, potrebbe essere l’ultimo. Il finale della serie lascia veramente spazio al desiderio di rinascita che ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita. Forse la vita che viviamo non è troppo differente da uno dei game descritti da quel genio di Aso. Non importa quanto siamo bravi: alla fine c’è un game over per tutti. Quello che conta però è vivere al meglio il viaggio che abbiamo scelto di intraprendere.

Molte cose sono cambiate nella mia vita da quando vidi la prima stagione della serie. E, in un certo senso, anche io sono cresciuto insieme ad Arisu in questi tre anni. Alice in Borderland è quel genere di storia a cui ritorni ogni volta che hai bisogno di conforto. Quella versione di Tokyo, esattamente come Silent Hill, è il luogo che ogni anima persa visita per ritrovare la redenzione o la distruzione totale. Altamente consigliato per chiunque.

The First Slam Dunk non si regola: un gioiello d’animazione si rivela un’autentica esperienza cinematografica

Il mio primo approccio con Takehiko Inoue, la mente dietro Slam Dunk, è stato con Vagabond. La storia, i dialoghi, la filosofia e i disegni hanno contribuito a creare una delle rivisitazioni più riuscite della biografia di Musashi Miyamoto, il leggendario samurai realmente esistito che non ha mai perso in uno scontro e che ha avuto il privilegio di morire di cause naturali. È grazie ad Inoue che mi sono approcciato al Libro dei cinque anelli, gli scritti che un ormai vecchio Miyamoto ha lasciato in eredità a chiunque voglia seguire la via del samurai.

Slam Dunk, ovviamente, si tratta di una storia completamente differente a cui non mi sono mai avvicinato prima di questo film. Non sono un grande appassionato di basket e i manga sullo sport (spokon), fatta eccezione per quelli basati sulle arti marziali, non sono tra i miei preferiti. Inutile dire che questo film ha superato di gran lunga ogni mia aspettativa. The First Slam Dunk è uno dei film sportivi più belli che abbia mai visto e riesce a stare sullo stesso livello del primo Rocky.

L’intera storia ruota su una delle partite più decisive descritte nel manga: il match liceale tra la squadra Shohoku e il Sannoh. Come in molti film sportivi, il tema della rivalsa sociale gioca un ruolo di grande importanza. Lo Shohoku è una squadra di teppisti, bulli, perdenti: il lato più negativo della società giapponese, visti costantemente dall’alto in basso. Ognuno dei membri della squadra ha un passato che ha influenzato negativamente la propria vita ed è come se fossero bloccati in un’eterna aura di mediocrità. Ma, adesso, lo Shohoku ha l’occasione di rivalsa ed è pronto a sfidare l’invincibile Sannoh, l’esatto opposto dello Shohoku: ogni membro della squadra avversaria è un vincente nato con all’interno il player considerato come il migliore del Giappone. Il Sannoh non ha mai perso un match e non c’è nulla che indichi che possa essere sconfitto dallo Shohoku.

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Nonostante la meravigliosa premessa della storia, anche se un tantino cliché per il genere, sin da subito nasce un interrogativo: come rendere un film sportivo dal ritmo scorrevole se ci si basa solo su una partita? Vengo subito smentito all’inizio con un meraviglioso flashback in cui vengono, pian piano, mostrate le ragioni che spingono Ryota Miyagi, uno dei protagonisti, ad addentrarsi nel mondo del basket. Ed è così che trovo la risposta al mio quesito iniziale.

Il film si divide in due parti: il trauma emotivo che accompagna Ryota sin dall’infanzia, la perdita del fratello che adorava il basket, e il momento decisivo in cui lui e la Shohoku affrontano Sannoh. Il ritmo è meraviglioso con l’alternarsi di scene d’azione incredibili che si tramutano in sipari profondamente umani e malinconici.

Non sono un esperto di basket, ma la persona che mi ha accompagnato in sala lo era e ha affermato di essere stato colpito dalla profonda cura che è stata messa nella realizzazione della partita.

Un altro punto di forza è il 3D: come molti, io sono un fan delle animazioni più classiche ma l’elemento della terza dimensione ha accentuato una realtà più autentica e dinamica che, a mio parere, si sarebbe persa senza il suo utilizzo. Al contrario, le scene dei flashback sono in 2D e sono caratterizzate da un ritmo più lento, introspettivo e piacevole. Ogni scena è bilanciata alla perfezione. Ogni personaggio è curato nei minimi dettagli… nonostante non avrei disprezzato qualche scena in più sul roscio Sakuragi.

Una favola moderna fantastica in cui tutti gli underdog e i sottovalutati della vita possono rispecchiarsi. Alla fine del film è partito un applauso: un qualcosa che è capitato, nelle mie esperienze in sala, solo con La La Land. Ogni spettatore è rimasto seduto sulla poltrona ad ascoltare la melodia della colonna sonora portante. Le lyrics tradotte della canzone scorrevano insieme ai titoli di coda. Un momento meraviglioso che mi rimarrà impresso per molto, molto tempo. Non si tratta solo di una trasposizione ben riuscita ma di un’esperienza cinematografica unica nel suo genere. Unica nota dolente: il fatto che il film in lingua originale è stato disponibile solo per il 10 maggio. Avrei voluto tanto di rivederlo in giapponese una seconda volta ma mi accontenterò della versione in italiano. Un film fantastico consigliato a chi ama gli anime, il basket, il cinema o, semplicemente, un’ottima storia. E ora mi tocca aggiungere un altro manga alla mia lista…

I Guardiani della Galassia III: l’anima di un procione si rivela nell’esperienza più orribile della sua vita

L’altro giorno mi sono visto I Guardiani della Galassia III. Non è esattamente il tipo di film che vedo solitamente, ma i primi due non erano affatto male e James Gunn è un regista che sa il fatto suo: adoro il senso di caratterizzazione dei personaggi che ha donato alla sua trilogia e il suo tocco inconfondibilmente emotivo e malinconico mi ha sempre fatto commuovere in più di una occasione. Protagonista indiscusso della pellicola è Rocket, o per meglio dire il suo passato, che è sempre stato accennato nei film precedenti ma mai esplorato nel modo che meritava.

Prima di arrivare a questo punto, però, vorrei spendere un paio di parole sul perché ho adorato i Guardiani sin dal primo film. Il tono scanzonato, provocatorio, divertente e sopra le righe mi ha fatto subito innamorare dell’opera. La scrittura è divina se paragonata al filone dei film della Marvel. La regia meravigliosa. Ma è nella storia che accade la vera magia: soprattutto nel lato umano della pellicola.

Nel concreto: un essere umano, un’aliena verde, un procione parlante, un albero senziente e Dave Bautista (categoria a parte) si ritrovano insieme per puro caso e, nonostante le differenze, trovano in ognuno di loro un qualcosa che è sempre mancato nella propria esistenza: una famiglia. Nonostante il tono del film che mira ad un pubblico molto giovane, ognuno dei Guardiani è prigioniero del proprio passato e, a causa di orribili esperienze subite, non riescono ad andare avanti con le loro vite. Sono una banda di reietti, ladri, assassini, guerrieri che hanno sempre fatto del loro meglio per sopravvivere ma che hanno sempre peccato del fatto di non avere uno scopo nella vita: uno scopo che ritrovano nella formazione dei Guardiani della Galassia.

rocket guardiani della galassia

Siamo venuti a conoscenza del passato di Quill, Drax, Gamora ma non di Rocket: non del personaggio che ha sofferto di più. Il tema dell’andare avanti grazie alle connessioni che si creano tramite l’amicizia è uno dei più importanti nei Guardiani. Ma a volte è impossibile scappare da ciò che abbiamo passato e bisogna farci i conti per tutta la vita come afferma l’opening di Full Metal Alchimist. Detto questo non bisogna affrontare quei demoni per forza da soli. Dopo un tentativo di rapimento da un essere misterioso, Rocket è in fin di vita e toccherà al suo team, ancora profondamente scosso dagli eventi accaduti in precedenza, a soccorrerlo.

Ed è qui che il film si divide in due parti distinte: l’escursione nel passato di Rocket, il motivo per cui è un procione che parla, il fatto che possieda un quoziente intellettivo di 250 e la ragione dietro le cicatrici sulla schiena; e, infine, il viaggio dei Guardiani che faranno di tutto per non perdere un membro della loro famiglia. Uno splendido racconto sul superare e, inevitabilmente, convivere con i traumi della vita. Se proprio dovessi il trovare un difetto sarebbero i vari riferimenti delle opere al di fuori del franchising dei Guardiani. Nonostante io abbia visto gli altri due film, alcune cose erano completamente nuove per me: perché c’è un’altra versione di Gamora che non ricorda nulla del suo amore per Quill? Quando hanno detto che Mantis è la sorella di Quill? Sospetto che la risposta a queste domande sia in Avengers Infinity War ma, in fin dei conti, sono stati bravi a riempire queste lacune con qualche spiegone.

Ovviamente nulla da dire sulla colonna sonora e il mitico Awesome Mix III, vero e proprio coprotagonista della vicenda, che rispetto agli altri due capitoli precedenti assume toni più malinconici e cupi. Un film assolutamente consigliato e la degna fine di una trilogia che rappresentava l’anima della Marvel.

Suzume: viaggio on the road in compagnia di una sedia alla ricerca di un gatto per chiudere una porta

Ho visto questo film un paio di volte nel corso della settimana. Il primo è stato subito dopo una sessione di sparring particolarmente brutale con più di 10 round. I pugni che ho preso nel corso di quella mezz’ora mi hanno aiutato ad immergermi completamente nello stile artistico, onirico e surreale dell’anime: firma inconfondibile del regista Makoto Shinkai. La seconda volta è stata in compagnia di una ragazza conosciuta su Tinder che era incuriosita dal film. Considerando che adoro vedere più di una volta i film al cinema, perlomeno quelli che mi sono piaciuti, ho accettato di buon grado la proposta.

Ma ecco le mie considerazioni: la direzione artistica, i disegni e l’animazione sono fuori da questo mondo: ogni frame del film è degno di essere incorniciato ed essere appeso lungo i corridoi di un museo. La colonna sonora è incredibile e il tema di Suzume risuona sin dentro la propria anima con un meraviglioso tu tu rurururururuuuuuu rururururu ruuruuuu…. (nonostante credo di aver espresso egregiamente il ritmo e il suono della canzone, metto il video qui sotto).

Ma veniamo alla trama: Suzume è una liceale come tante che vive in un paesino nella prefettura di Miyazaki (un nome che credo abbia avuto un certo peso in più di un senso). Suzume ha perso sua madre in giovane età ed è stata cresciuta dalla zia. Le cicatrici di quella perdita pesano ancora sul suo subconscio ma, in fondo, riesce a condurre una vita sana. Un giorno incontra per caso Sōta, un ragazzo alla ricerca di una misteriosa porta abbandonata la quale, in realtà, è il portale per un’altra dimensione. Suzume scopre suo malgrado questo mondo e il “verme”: una creatura fatta di fumo che solo lei e Sōta possono vedere. A quanto pare quando le porte vengono aperte, questi vermi giganteschi vengono prodotti per abbattersi sulla nostra dimensione e causare dei terremoti. Il compito di Sōta è quello di prevenire i terremoti e tenere a freno i vermi.

suzume

Tuttavia, qualcosa non va per il verso giusto: Sōta viene maledetto da un’entità che faceva da guardiano alla porta, un gattino, e la sua anima viene spostata all’interno di una sedia per bambini, la stessa sedia che la mamma di Suzume aveva creato per lei prima di sparire.

Inizia allora il viaggio di Suzume e di Sōta, ormai una sedia, in un Giappone nostalgico alla ricerca del gatto che ha maledetto quest’ultimo e per chiudere le porte che favoriscono il passaggio dei vermi e causano terremoti.

La trama segue i protagonisti in un lungo viaggio psicologico e surreale in cui Suzume dovrà confrontarsi con il trauma ancora irrisolto della morte della madre. Non ho potuto fare a meno di notare che il film possiede un tono quasi post-apocalittico: a quanto pare la maggiore fonte di ispirazione è stato il terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011, tragedia che ha scosso profondamente il Giappone.

Le porte che i protagonisti ricercano sono all’interno di aree sperdute che una volta erano piene di vita: scuole, luna-park, città che ormai rappresentano scheletri di una quotidianità che è stata persa per sempre. Shinkai ha cominciato a lavorare sulla pellicola nel 2020, poco prima dell’emergenza Covid. Non è stato difficile vedere qualche parallelismo anche su questa tragedia. I personaggi si muovono da soli in aree abbondonate ma, forse proprio per questo, che brillano di una luce propria. Sono costretti a pensare al loro passato esattamente come molti di noi hanno dovuto rielaborare alcuni fatti spiacevoli riportati alla luce dal periodo del distanziamento sociale. Un film che, a grandi linee, mi ha ricordato i romanzi di Murakami.

Un film meraviglioso in cui si sente tutta la maturità tecnica ed emotiva del maestro Shinkai e del suo team: forse il mio preferito subito dopo 5 centimetri al secondo.

Dragonball, lo-fi and Starbucks

One of my favorite places in Milan is Starbucks Reserve. It’s not a normal Starbucks but a mix between a coffee shop and a roastery where you can drink a first-rate coffee blend. It is not the kind of place that I would have discovered on my own, and for this I have to thank my job that allowed me to write a story about it. And if there is one thing I love to mix with my coffee, that’s lo-fi. Holding a steaming cup of coffee in my hands while listening to lo-fi playlists is a ritual I indulge in every Sunday. It would be heaven on earth if it wasn’t for all the customers, but meeting lots of people is quite a high risk in Starbucks. It would be like complaining about the queue at McDonald’s.

On this particular day, with headphones ringing out the remixed openings of Dragonball in the Japanese version, I think back to my childhood and how similar I was to Goku as a kid: thoughtless, cheerful, combative, full of energy and stupid.

I can’t help but think that something must have gone wrong. I don’t have a bad life. I’d even be on the verge of saying that I like the life I’ve created for myself. Still, I can’t stop feeling like I’m living below my potential: I had something as a kid that, trauma after trauma, mixed with loneliness, may never come back.

I have tried many things: boxing, working hard like Elon Musk (or at least pretending), cultivating hobbies, friendships, relationships and so on. I’ve really put a lot of effort into this kind of stuff (even now all these activities take up a large part of my time) and my life has improved exponentially.

But this feeling still remains. Skipping even a workout, neglecting even for an hour my projects and small set backs that happen from time to time inevitably lead me to remember bad moments in my life that I could have avoided if I had been just a little stronger and smarte. I wonder how much more I can punish myslef for the mistakes I made in high school. It’s now been 8 years and I still use that stuff for motivation. It makes me survive but, at the same time, it consumes me. I am more present in the past than in the present (haha).


lofi lo-fi dragonball

This brings me back to a quote from Godor, blacksmith of Berserk: “Hate is one of those places where people who can’t face sadness seek comfort. Seeking revenge is like sharpening a blade rusted by blood by immersing it in a pool of blood. To mend the blade of your heart rusted by sadness, you’re sinking it in blood. But the more you sharpen it, the more it rusts. And the more it rusts, the more you sharpen it. In the end, you’ll be left with just a handful of rust.”

I have no hatred and certainly I have no desire for revenge but I still feel that reliving those memories every day is rusting me. Maybe I think they motivate me but, probably, they are just slowly wearing me down. In a way, I am grateful I had those negative experiences. I am convinced that those who have seen the negative side of life can also be able to see the most beautiful one. However, this requires a lot of work, commitment and even a certain amount of delusion.

It’s one of the reasons I’ve always liked Goku: he always believes he can defeat the next opponent no matter what. He certainly isn’t gifted with intelligence and sometimes he should have run away (fortunately there are dragon balls) but his stubbornness led him to literally become a God. It is no coincidence that many shonen protagonists are so incompetent at the beginning ( Naruto, Luffy) are built on this model: they are essentially losers with a heart of gold united by the desire to become stronger and stronger. It wouldn’t be bad if I were more like them. However, as I said before, my life has improved over the years and this, in itself, is a small victory.

Dragonball, vivere nel passato e sfuggire al presente

Uno dei miei posti preferiti a Milano è lo Starbucks Reserve a Cordusio. Non è uno Starbucks normale bensì una via di mezzo tra una caffetteria e una torrefazione dove poter osservare la lavorazione del caffè mentre si beve una miscela scelta di prim’ordine. Non è il genere di posto che avrei scoperto da solo e per questo devo ringraziare il mio lavoro che mi ci ha indirizzato per farci un pezzo di cronaca.

E se c’è una cosa che adoro associare al caffè, questo è il lo-fi (sta diventando un blog tematico, eh?). Stringere tra le mani una tazza fumante ascoltando playlist come questa è un rituale che mi concedo ogni domenica. Sarebbe un paradiso in terra se non fosse per tutti i clienti, ma incontrare persone è un rischio piuttosto alto quando ci si reca da un marchio del genere. Sarebbe un po’ come lamentarsi della fila al McDonald.

Comunque sia, in questo particolare giorno, con le cuffie che risuonano le intramontabili sigle di Dragonball in versione giapponese, ripenso all’infanzia e di quanto fossi simile a Goku da bambino: senza pensieri, allegro, combattivo e pieno d’energia.

Non faccio a meno di pensare: qualcosa deve essere andato storto. Non ho una brutta vita. Sarei persino sul punto di dire che mi piace l’equilibrio che mi sono creato. Tuttavia, non riesco a smettere di avere la sensazione di vivere al di sotto delle mie potenzialità: un qualcosa che avevo da ragazzino e che, trauma dopo trauma, imbastito con un po’ di solitudine che sta bene con tutto, potrebbe non tornare mai più.

Ho provato molte cose: boxe, buttarmi sul lavoro, coltivare hobby, amicizie, rapporti e così via. Mi ci sono impegnato davvero molto (ancora adesso tutte queste attività occupano una gran parte del mio tempo) e la mia vita è migliorata esponenzialmente. Ma questa sensazione rimane. Saltare anche un allenamento, trascurare anche solo per un’ora i miei progetti e piccoli set back che accadono di tanto in tanto mi portano inevitabilmente a ricordare brutti momenti della mia vita che avrei potuto evitare se fossi stato solo un po’ più forte, intelligente e capace. Mi domando quanto ancora possa punirmi per gli sbagli che ho fatto al liceo. Sono passati ormai 8 anni e uso ancora quella roba come motivazione. Mi fa sopravvivere ma, al tempo stesso, mi consuma. Sono più presente nel passato che nel presente (ahah).

lofi lo-fi dragonball

Ciò mi riporta a una frase di Godor, fabbro di Berserk: “L’odio è uno di quei luoghi in cui la gente che non riesce ad affrontare la tristezza cerca asilo. Vendicarsi è come affilare una lama arrugginita dal sangue immergendola in un lago sempre di sangue. Per riparare la lama del tuo cuore arrugginita dalla tristezza, la stai inabissando nel sangue. Ma più l’affili, più si arrugginisce. E più si arrugginisce, più l’affili. Alla fine rimarrai solo con un pugno di ruggine”.

Non nutro odio e non ho certo desideri di vendetta ma sento comunque che rivivere ogni giorno quei ricordi mi stia arrugginendo. Forse credo che mi motivino ma, più probabilmente, mi stanno solo consumando lentamente. In un certo senso sono grato di aver vissuto quelle esperienze negative. Sono convinto che chi ha visto il lato negativo della vita possa anche riuscire a vederne quello più bello. Questo però richiede molto lavoro, impegno e anche una certa dose di illusione.

È uno dei motivi per cui mi è sempre piaciuto Goku: lui crede sempre di potercela fare e sconfiggere il prossimo avversario. Non brilla di certo di intelligenza e a volte avrebbe fatto meglio a scappare (fortuna che ci sono le sfere del drago) ma la sua caparbietà lo ha portato a diventare letteralmente un Dio. Non a caso molti protagonisti shonen sono così poco competenti all’inizio. Anche Naruto e Luffy sono costruiti su questo modello: si tratta essenzialmente dei perdenti dal cuore d’oro accumunati però dal desiderio di diventare sempre più forti. Non sarebbe male se fossi più simile a loro. Detto questo, come accennato prima, in questi anni la mia vita è migliorata e questo, già di sé, è una piccola vittoria.

Lo-fi a Venezia: fuochi d’artificio e ricordi

L’anno scorso ero a Venezia con una ragazza a cui tenevo molto per il Festival dei fuochi d’artificio. Non sono il tipo di persona a cui fa piacere pensare spesso al passato ma questo è uno dei pochi ricordi che vale la pena di rivivere. Specialmente in notti come questa dove non c’è molto da fare e a farmi compagnia ci sono solo il tè e lo-fi. Abbiamo trascorso tre giorni pieni a visitare la città. Era la sua prima volta ed io c’ero già stato in occasione del Carnevale più di dieci anni nel periodo delle medie.

La compilation di lo-fi che mi ha portato a scrivere questa breve riflessione

Avevamo preso una stanza vicino la stazione di Mestre e per arrivare al centro dovevamo servirci di un autobus. Mi ero scordato di quanto fosse bella come città. Passeggiare tra i cunicoli e le strette vie che portavano in vicoli ciechi bloccati dagli innumerevoli canali era ciò che preferivamo. Dopo aver svolto le solite attività da turista, abbiamo passato ore intere all’interno dei vari stand della Biennale, in cui venivano ospitate mostre volte a rappresentare ogni espressione artistica. Non sono esattamente un fan dell’arte moderna ma alcune istallazioni erano davvero notevoli.

Una sera l’abbiamo trascorsa in una spiaggia poco lontana dal centro della città. X (prima lettera del suo cognome) si era stancata della calca intorno a Venezia e non potevo darle torto perciò mi ha trascinato in questo lembo di sabbia su Google Maps.

Abbiamo attraverso un piccolo pontile dimesso e abbandonato da tutti. Il sole stava per tramontare. Avete presente quando i colori del cielo assumono una tonalità rossa e violacea in prossimità del mare e le scie degli aerei che passano disegnano quelle linee quasi fosforescenti nel cielo come evidenziatori su un foglio azzurro?  Non è raro vedere uno spettacolo del genere in una città marittima.

Nonostante sia nato in una cittadina vicino al mare questo colore mi ha sempre portato sensazioni malinconiche. Come ho detto, non mi piace pensare al passato perché la grande maggioranza dei ricordi legati al periodo della mia adolescenza non sono il massimo. La mia vita è cominciata a 18 anni e, fortunatamente, da allora, ho avuto esperienze più che positive. Non sono il mio passato ma alcune esperienze vanno custodite con gran cura nella propria mente. Questo è quello a cui penso mentre ascolto lo-fi. Non sono neanche una persona da foto ma ci tengo a condividere quel tramonto nella fase più avanzata.

Dopo un tempo indefinito ci siamo alzati e incamminati lungo il centro per osservare i fuochi d’artificio nonostante, dopo quel tramonto, siano passati in secondo piano. Yare yare. A volte credo il lo-fi sia la cosa più simile ad una macchina del tempo che ci sia. Sento ancora il profumo del mare, la tenue luce del sole che tramonta sulla mia pelle e il tocco di X che aveva freddo nonostante il caldo il luglio. Più ci penso, più sembra un film Ghibli.

Distolgo lo sguardo per un attimo dal computer e blocco la musica. Respiro e guardo la mia scrivania: una tazza da tè ormai vuota, un quaderno, una penna, un evidenziatore, un paradenti Leone e un paio di cuffie sono tutto quello che trovo. È sempre difficile tornare alla realtà e al presente ma è lì che si formano nuovi ricordi. Sono le 23:10 e forse ho ancora tempo per restare a Venezia in compagnia di X. Ancora una mezz’ora.