Stavo guardando il primo episodio di Oshi no ko per l’ennesima volta. La trama è molto semplice: un medico e la sua paziente, malata di cancro, perdono la vita e vengono reincarnati nei figli della loro pop idol preferita, Ai Oshino. Fin da subito ho adorato il tono comico e spensiarato del primo episodio (dura poco più di un’ora) che tuttavia non si fa problemi ad assumere contorni più drammatici e profondi. Il personaggio di Ruby Oshino, l’ex paziente malata di cancro e ora figlia di Ai, è tra quelli che mi ha colpito di più.
La carismatica Ai
La vita davvero non è uguale per tutti e lei lo ha potuto sperimentare in prima persona. La sua esistenza era scandita da giornate monotone in un lettino d’ospedale senza possibilità di fare granchè. I genitori l’avevano abbandonata e la sua unica luce era vedere alla tv le gesta dell’idol preferita. Una vita grigia senza troppo spazio per i sogni e per la speranza. E alla sua morte si ritrova ad essere la figlia dell’idol che tanto amava: senza malattie, bellissima e piena di talento con i contatti giusti sin dalla nascita. L’unica pecca? I ricordi della vita precedente pieni di traumi e rimpianto.
Un discorso analogo può essere fatto anche per il dottore reincarnato in Aquamarine Hoshino. Una vita sicuramente meno tragica della sua paziente ma comunque priva di avvenimenti degni di nota e, anche lui, ossessionato dalla luce di talento e bellezza di Ai Oshino, la quale può essere ammirata solo da lontano.
E quando muore e si ritrova a rivivere la vita con un’altra mano di carte… che dire: le cose cambiano. Lui stesso ha detto: “Sono quasi grato al tizio che mi ha ucciso”. Ora ha la possibilità di vivere seriamente. Immaginate una early start nella vita così: infanzia (possibilmente) senza traumi, figli di una star, intelligenza, carisma, migliore educazione e soldi.
Ci è sempre stato insegnato che tutto è possibile e basta impegnarsi per avere successo. Ma se non fosse così? Se tutto fosse prestabilito dai nostri geni? È innegabile che ci siano fattori genetici, che non possono essere cambiati in alcun modo, che facilitano la vita di molti individui e ne distruggano altre. Parlo di malattie ma anche di bellezza, intelligenza, talento, fisico e così via. Credo sia nella natura umana fantasticare su cosa significhi avere il massimo in tutte queste cose. Purtroppo non esiste la reincarnazione, o meglio non ci è dato saperlo, ma la consapevolezza che dopo la nostra vita presente si possa nascondere un’altra completamente al di fuori della nostra portata (come un terno a lotto o governata dal karma) mi riempie di fascino.
Purtroppo non sta a noi decidere gli elementi con cui veniamo al mondo ma la vera grandezza sta con come ci giochiamo la nostra mano. Non lo so… solo i miei pensieri dopo aver visto questa piccola perla. Ovviamente la trama non ruota (solo) intorno a questo. I personaggi hanno una caratterizzazione unica e i disegni sono superiori di molti che ho trovato al Louvre. Una storia meravigliosa, fresca che non ha paura di spaziare dal comico al tragico, con temi a me cari come abbandonarsi il passato alle spalle (letteralmente), vendetta e esplorare il proprio spirito di affermazione sullo sfondo dello showbusiness giapponese.
“Non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma, di una combustione incompleta. Anche se solo per un secondo… voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante! E poi.. quello che resta è solo cenere bianchissima… nessun residuo… solo cenere bianca.”
Joe Yabuki è un 15enne che ha vissuto passando da un orfanotrofio all’altro e vagabondando solo come un cane. Attraversando una Tokyo ancora scossa dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, Joe si imbatte in Dampei Tange, un ex pugile e allenatore di boxe con un occhio solo con problemi di alcolismo che non riesce a smettere di pensare alle vecchie glorie dello sport.
Dampei vede in Joe un potenziale campione del pugilato ma quest’ultimo non è interessato a combinare alcunché nella vita e vuole solo sopravvivere. I due si scannano subito di botte per un futile motivo e Joe ha la meglio. Ciò non fa che accrescere l’interesse di Dampei Tange per il giovane Yabuki… questo e il fatto che il ragazzino ha preso a pugni da solo un’intera comitiva di yakuza.
Joe, dopo i continui tentavi del vecchio, accetta la proposta di Dampei di diventare suo allievo e imparare le basi della boxe. Ma questo non è che un trucco: in realtà Joe vuole solo sfruttarlo e scroccare vitto e alloggio, approfittandosi della buona fede del vecchio, il quale smette di bere e si mette a fare due lavori per crescere il suo nuovo pupillo. Joe, nel frattempo, finge di allenarsi e fonda una banda con i bambini poveri del quartiere che usa per compiere vari furti e truffe.
Ed è proprio una di queste truffe che lo porterà in riformatorio, dove farà la conoscenza di Rikiishi, giovane prodigio della boxe, che accenderà in Joe il fuoco dell’agonismo. Sulla base di queste premesse che inizia il viaggio immortale che accompagna Joe da trovatello senza scrupoli e morali a leggenda immortale della boxe che è pronto a morire pur di “bruciare con una fiamma rossa e accecante”.
Il manga ha avuto inizio dal 1968 e ha visto la conclusione nel 1973. Scritto da Asao Takamori (pseudonimo di Ikki Kajiwara) e disegnato da Tetsuya Chiba. La storia ha voluto illustrare una vicenda cruda, cupa e ruvida in cui viene mostrato che anche le persone con un passato turbolento come Joe possono ritrovare un riscatto grazie all’impegno, la costanza e la speranza di un domani migliore (non a caso le lezioni di Dampei per corrispondenza mentre Joe è in riformatorio si chiamano “per il domani”).
Tutti hanno diritto ad un futuro a dispetto delle condizioni sociali da cui siamo nati. La consapevolezza che magari, anche se non si vince, si può comunque avere la soddisfazione di aver dato tutti noi stessi per un obiettivo più grande. Joe rappresenta la massa, i perdenti, che non hanno voce in capitolo e che vengono pestati a sangue forse anche più dello stesso Joe nella storia: l’uomo comune che trova la forza per reagire.
Il manga è diventato così influente da diventare un simbolo per le rivolte studentesche giapponesi del 1968. Ma c’è di più: il potere della finzione è diventato così potente che quando nel marzo 1970 uscì il numero del manga in cui muore un personaggio particolarmente apprezzato, i lettori organizzarono un vero funerale per rendergli omaggio. Il messaggio del manga è profondo quanto spietato: è vero, non arrendersi mai può portare a enormi soddisfazioni, ma anche a orribili finali e, forse, anche alla morte. Un’opera che descrive spietatamente lo stato del Giappone del dopo guerra che cerca di rialzarsi dopo gli eventi traumatici subiti (e inferti).
Il ring di Joe diventa un luogo sacro in cui tutti, almeno per 20 round, sono uguali e il passato non ha importanza. D’altronde quando ci possono essere differenze con il nostro avversario se siamo su un quadrato ricoperti di sangue e sudore insieme a lui? Tutto si annulla: desiderio di ricchezza, di fama, di gloria e di amore. Resta solo il presente. Pochi minuti in cui si dà il tutto per il tutto e si può solo bruciare come una fiamma.
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Ho iniziato a leggere Tokyo Revengers in piena pandemia, periodo che ha coinciso con l’ultimo anno dell’Università che frequentavo in Galles. Non è stato un momento particolarmente felice per me. Ero rimasto l’unico studente nella casa in cui vivevo. Tutti i miei amici, due per la precisione, erano tornati dalla loro famiglia. E io ero rimasto completamente solo: il mio unico contatto umano era con la cassiera del supermercato Morrison del quartiere.
Sarei potuto tornare in Italia anche io ma non ho mai provato amore nel posto in cui ho passato la mia infanzia e adolescenza. A quel tempo, la solitudine mi logorava e aveva trovato il modo di farlo anche in Galles. In quel periodo, tutti i traumi subiti all’epoca avevano cominciato a riempire i vuoti corridoi della mia mente. Quando sei completamente solo e senza svaghi sei quasi costretto ad affrontare ciò che non hai risolto nella tua vita. Ed ecco perciò che avevo preso l’abitudine di scrivere su due diario: uno per il presente ed uno per il passato.
Nel diario del passato volevo scrivere e rivivere con più nitidezza e dettagli possibili i ricordi che mi tormentavano (forse non proprio una strategia vincente); nel diario del presente volevo focalizzarmi sui progetti futuri, sullo stato d’animo del momento e cercare di capire come gli eventi della mia storia abbiano plasmato il mio essere. Lo so: non avevo davvero un cazzo di meglio da fare.
Ma questo esercizio mi si è dimostrato piuttosto utile e, dopo una settimana o giù di lì, ho capito una cosa: il me stesso del diario del presente era una diretta conseguenza di quello del passato. Ho vissuto, almeno la prima parte della mia vita (1-18 anni) quasi come uno spettatore, una vittima degli eventi, senza aver anche solo pensato di essere nella cabina di comando. Quello è stato il periodo più difficile da mettere su carta. A volte non riuscivo a trovare le parole giuste. A volte smettevo di scrivere e facevo 100 piegamenti a terra.
Takemichi, protagonista di Tokyo Revengers, viene massacrato (adesso spiego tutto…)
Inutile dire che non sia stato un bel periodo. Dopo i 18 anni e il mio trasferimento a Londra le cose sono andate meglio. Non ho nulla da rimproverarmi. In quel momento ho iniziato davvero la mia vita, che ha subito un piccolo arresto a 23 anni, e che è ricominciata a pieno regime subito dopo. Anche adesso che ho 26 anni la vita non è male e ci sono più alti che bassi.
L’unico pensiero che avevo dopo aver completato quel piccolo diario del passato è stato solo uno: “vorrei tornare indietro nel tempo”. A volte lo penso ancora. Avrei voluto agire di più, fare scelte differenti e avere ricordi più belli. Purtroppo tutto ciò non è possibile: non si può cambiare il passato.
Takemichi di Tokyo Revengers non si regola e diventa uno dei protagonisti più iconici degli shonen
Il tempo è una freccia che va solo in avanti. Tutto questo giro di parole per dire che la storia di Takemichi Hanagaki di Tokyo Revengers è subito risuonata con le mie esperienze e con una delle mie fantasie più grandi: cambiare il passato. E ora andiamo direttamente alla trama: Takemichi è un 26enne sfigato con un lavoro che disprezza e un’esistenza alquanto effimera. Un giorno, alla televisione, scopre che la sua fidanzata delle medie, Hinata Tachibana, è morta durante un attentato della Tokyo Manji Gang, un’associazione criminale del fitto sottobosco malavitoso di Tokyo che si era formata proprio nel periodo in cui lui frequentava la scuola.
Takemichi che non si arrende dopo essere stato gonfiato di botte da mezza Tokyo
Dopo essere stato spinto contro un treno in corsa alla stazione, Takemichi scopre di non essere morto ma bensì di essere tornato nel passato, per la precisione al periodo delle medie in cui bazzicava con una gang di aspiranti teppisti a 13 anni. E, come in un film, ricorda tutto ciò che accaduto: I suoi continui scontri con le altre gang e la sua completa sottomissione da parte di un gruppo di bulli più grandi che ha minato completamente la sua autostima.
Tuttavia, adesso, forse, c’è un modo per rimediare ad una vita di soprusi e tristezza. Takemichi scoprirà di avere il potere di tornare indietro nel tempo grazie al contatto fisico con Naoto Tachibana, fratello di Hinata, che nel presente è un poliziotto con il desderio di salvare la sorella, ex fidanzata di Takemichi, dalla morte per mano della Tokyo Manji Gang.
Takemichi ha adesso una seconda possibilità nella sua vita: salvare la ragazza che ama e cambiare la personalità inetta che ha costruito negli anni. Ma salvare Hinata non sarà così semplice. Takemichi ripercorrerà le tappe salienti che hanno reso la Tokyo Manji Gang una delle organizzazioni criminali più forti e crudeli di sempre e lo farà dagli inizi: dalla creazione della gang fin dagli anni delle medie. Dovrà destreggiarsi tra risse, violenza e soprusi per salvare la sua ragazza e costruirsi un nuovo domani.
Ed ecco che inizia la storia di Takemichi: da vittima di bullismo a membro di una organizzazione criminale. Un uomo di 26 anni che vive nel corpo di un tredicenne che ha l’occasione che tutti almeno una volta nella vita abbiamo disperatamente cercato: cambiare il passato. Le premesse dei primi volumi sono fantastiche. I personaggi sono spettacolari: dal capo della Tokyo Manji Gang, Manjirō Sano, con il sogno di costruire una nuova era della malavita, fino a passare al suo braccio destro, Draken e per finire con i componenti secondari delle altre bande. L’abilità di disegno del mangaka Ken Wakui è seconda solo al suo sublime intreccio narrativo.
Tuttavia, nel corso dei volumi, la storia comincia a perdere la sua grinta, fino ad arrivare ad uno dei finali più scontati della storia della narrativa. Ma la prima parte, soprattutto per chi, come il sottoscritto, è ossessionato dalla criminalità e dai viaggi nel tempo, rasenta il capolavoro che illustra uno spaccato (seppure tutt’altro che realistico) della delinquenza giovanile giapponese. Vedere l’ossessione, la voglia di rivalsa e la perseveranza di Takemichi mi hanno commosso.
Scontro tra gang per stabilire chi è il più forte: Mobius vs Toman Manji Gang
Tutti possono cambiare e non è mai troppo tardi. Dubito che molti di noi avranno il lusso di tornare indietro nel tempo. Tuttavia, possiamo imparare dal passato e vivere un presente migliore. Come voto oggettivo questo manga rasenta a malapena il 7 e mezzo, ma da un punto di vista personale non posso fare altro che dargli un 9 e mezzo. Grazie per la bellissima storia, Ken Wakui.
Cultura bosozoku
Ultima considerazione: lo stesso Ken Wakui faceva parte di una gang durante la sua giovinezza ed è stata l’ispirazione per la Tokyo Manji Gang. Per la precisione, nel manga si parla della cultura bosozoku: una sottocultura giovanile giapponese collegata alla customizzazione di motociclette che era talmente violenta da far talvolta invidia alla Yakuza. I primi bosozoku erano ex-veterani di guerra che non riuscivano ad accettare la perdita del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale e che sfrecciavano ad alta velocità con le moto nelle strade nipponiche. Le bande bosozoku sono diventate famose negli anni ’80 ed erano composte da liceali ribelli.
I bosozoku sono stati protagonisti di numerosi manga e film. Tra i più celebri: Akira, Shonan Jonai Gumi e Tokyo Revengers. In Occidente possiamo paragonare opere come Sons of Anarchy e The Bikeriders.
Ieri mi sono recuperato i primi quattro volumi di Slam Dunk di Takehiko Inoue. È passato più di un anno da quando ho visto The First Slam Dunk, un piccolo e meraviglioso gioiello cinematografico, e mi ero ripromesso di leggere il manga. Il protagonista è Hanamichi Sakuragi, una matricola del liceo a capo di un piccolo squadrone di teppisti con l’incredibile record di essere stato rifiutato da 50 ragazze ai tempi delle medie.
Nel primo capitolo fa la conoscenza di Haruko, una ragazza innamorata del basket che vede nel fisico possente di Sakuragi un forte potenziale per lo sport. Ovviamente Sakuragi non è minimamente interessato alla pallacanestro, ma decide di iscriversi al club di basket del liceo proprio per fare colpo sulla bella Haruko.
Lo Shohoku in azione
Così inizia l’avventura di Sakuragi, giovane teppista dal pugno di ferro ma dal cuore tenero, nel mondo del basket amatoriale tra amori non corrisposti, amicizie, risse e risate. Nonostante abbia letto solo i primi quattro volumi ho subito adorato l’atmosfera leggera e irriverente del manga (anche se mi aspetto profondi cambiamenti di trama tragici considerando il film) e non ho potuto fare a meno di paragonare i miei giorni al liceo a quelli di Sakuragi e la sua truppa di adorabili teppisti e il mio presente.
Ad essere sincero, non ho potuto neanche fare a meno di provare un leggero senso di invidia e, forse, di disperazione. Il liceo è stato un periodo che forse non definirei negativo ma di certo tutt’altro che positivo.
Non mi sono accadute tragedie ma neanche esperienze da ricordare. È stato un limbo: cinque anni della mia vita che non torneranno indietro e che, un po’ per circostanze esterne a me, non ho saputo sfruttare al meglio. Niente esperienze come al liceo Shohoku di Sakuragi, poche risate e ben poca nostalgia. All’università (e soprattutto adesso) è andata (e sta andando) sicuramente meglio ma gli anni del liceo (per quanto grigi e incolori) mi perseguitano ancora.
Ma, a volte, mi chiedo come sarebbe tornare indietro nel tempo e non avere troppi pensieri per la testa come adesso, focalizzandosi interamente sul presente e non pensando al futuro… come al versamento dei contributi pensionistici obbligatori (non sia mai che si abbia potere decisionale sul proprio guadagno…).
Nulla mi vieta di pensare alle ragazze e spaccarmi nello sport come i ragazzi di Slam Dunk, ma devo ammettere che non è la stessa cosa. Quel treno del liceo è passato e non tornerà mai più. Ma questo non significa che non possa passare un treno migliore, cosa che fortunatamente è successa. Mancano ancora molti volumi alla fine di Slam Dunk, ma non posso fare a meno già da ora di ringraziare i ragazzi dello Shohoku per aver condiviso con me una nuova versione di un periodo della mia vita non troppo felice. Non male come riflessione delle 5 del mattino.
In chiusura: mi sto davvero appassionando al genere bosozoku, fenomeno sociale che ha visto come protagonisti giovani teppisti a cavallo di moto che hanno raggiunto l’apice tra gli anni ’70 e ’90. Come è possibile immaginare, questo tema è davvero popolare nei manga: a chi non piace immedesimarsi in ribelli con un codice morale tutto loro che utilizzano la potenza dei loro pugni per portare la pace? Basti pensare al successo di Tokyo Revengers e Akira. Se qualcuno mi legge, sarei aperto a suggerimenti per manga e film e ampliare la mia conoscenza al riguardo.
Un sogno che avevo da tempo sta cominciando a prendere forma. Ad agosto partirò per il Giappone, una terra che mi affascina ormai da sei anni. Dopo aver acquistato un biglietto andata-ritorno, mi sono fermato a pensare ai traguardi che ho raggiunto in questi due anni da quando mi sono trasferito a Milano. Ho ottenuto la certificazione per il corso da sceneggiatore e il mio viaggio verso il primo match di boxe prosegue.
Non amo molto parlare della mia vita ma fare un piccolo recap di queste soddisfazioni, per quanto modeste siano, mi danno coraggio per tornare a riscrivere su questo blog che ho abbandonato ad agosto.
Il viaggio in Giappone rappresenta forse il primo, vero regalo che mi concedo. Ho ritrovato la lista delle mie “esperienze da fare almeno una volta nella vita” che ho scritto 6 anni fa. Una di queste era: sorseggiare una Monster Energy mentre ascolto musica lo-fi (un rituale che ho seguito spesso nei miei solitari anni all’Università) in un parco di Tokyo.
Mi piacerebbe ascoltare qualcosa del genere (lo stesso tipo di musica che è nella mia playlist Spotify)
Ovviamente non mi limiterò a visitare solo Tokyo. Ho in programma un bel viaggio che spazia dalla capitale a Okinawa fino a passare per Kyoto e Osaka. Forse un po’ mainstream, me ne rendo conto, ma per la prima volta nel Sol Levante direi che possa andare.
Adesso che penso a tutto quello che vorrei, ancora, ottenere realizzo una cosa: mi è sempre mancata un po’ di disciplina. È meraviglioso tuffarsi nei progetti quando si è agli inizi, che sia la scrittura, la palestra o altro, ma non è per tutti continuare anche (soprattutto) se non si ottengono i risultati sperati.
Non ho una grande ambizione nella vita se non fare delle mie passioni un lavoro e guadagnare abbastanza per potermi permettere qualche esperienza come il Giappone. Anzi… ormai è da qualche tempo che accarezzo l’idea di poter diventare un nomade digitale: avere la libertà di poter lavorare dappertutto solo grazie ad un pc portatile.
Credo che uno dei motivi per cui molti hanno in testa di diventare ricchi non sia tanto per i soldi in sé ma per assecondare un desiderio innato di libertà. Essere liberi di essere dove si vuole, di spendere il proprio tempo nel fare ciò che realmente si sogna: tutto questo però non è alla portata di tutti. Serve un prezzo da pagare per raggiungere quei livelli di libertà economica che non tutti sono disposti a pagare e che, per quanto sia triste ammetterlo, non tutti possono farlo nonostante gli sforzi (chissà… forse rientro tra questi). La vita non è di certo un manga: l’impegno non è garanzia di successo. Tuttavia, una grande motivazione mista a duro lavoro offre almeno la speranza di poter cambiare vita e questo potrebbe veramente non avere prezzo.
It’s getting hardto find someone who doesn’t know about Andrew Tate. After seeing a Youtube Short of his, my feed was filled up with his content. He is undoubtedly an interesting character: three times ISKA kickboxing world champion, one time Enfusion Live champion and current commentator of Real Xtreme Fighting, the biggest MMA promoter in Romania. After a successful career as a kickboxer, Andrew Tate has risen to prominence as an influencer.
As a multimillionaire, Tate preaches a life in which man is his own master: economically free, with a muscolar physique and an attitude based on personal growth, far from the slimy matrix (society) that leads only to mediocrity. A charismatic figure who has welcomed as many fans as haters in the vast world of the internet. Many currently criticize his misogynistic outlook on life, his promotion of violence and his Darwinian point of view… which makes me question whether these critics have seen even a single complete video or podcast in which Tate expresses his moral code.
Andrew Tate: how communication changes everything
Everything I found in Andrew Tate, except a distinct genius for the world of marketing, was a source of inspiration. We are talking about a man who built himself together with his brother Tristan and who has always worked hard to excel in his fields of profession. This is an individual who promotes personal growth in the broadest sense of the term with an emphasis on physical exercise and disseminating a higher financial literacy.
The case had a strong media component. People were divided: there were, of course, those who believed that Tate was the victim of a conspiracy and those who instead declared themselves happy with his fate. I don’t want to take a stand but there seems to be no evidence to guarantee any of this. It reminds me a bit of the story of Mike Tyson and Desiree Washington. I also don’t want to join the ranks of those who assume this is all a Matrix conspiracy.
However, what I wonder, is why is the media trying to destroy this guy? His interview with the BBC has become emblematic in which it seems that the journalist does not seem to have done an accurate research job, accusing Andrew Tate on unfounded grounds and on very vague comments on misogyny. I may be entering territory far beyond my reach, but overall I think Andrew Tate is an example to follow.
Of course, as in many cases, blind devotion can lead to personal destruction just like judging without knowing first (kind of like when it was fashionable to hate Trump). Of course this is just my humble opinion. In a world where depression, sense of bewilderment and unemployment have reached worrying levels (especially for men), Andrew Tate who preaches self-discipline, stoicism, financial education and a little competitiveness may represent a wonderful antidote.
Accontentarsi e abituarsi al dolore è una forma di felicità? Ci stavo pensando in una delle mie passeggiate notturne al parco. Ultimamente va di moda questo trend sui social chiamato “You have no enemies” ispirato dalla trasformazione di Thorfinn di Vinland Saga: un uomo ossessionato dalla vendetta che decide di abbandonare il suo odio e abbracciare una filosofia di vita pacifista in cui, per l’appunto, nessuno è suo nemico.
Ma è davvero applicabile alla realtà? È davvero possibile scegliere questa strada in un mondo in cui, in molti casi, il più forte non si fa scrupoli a mangiare il più debole? Com’è possibile non covare odio e risentimento se si è stati vittima di soprusi anche a distanza di anni? Non si può tornare indietro nel tempo.
Questo è un fatto assodato. Ed è facile per molti parlare di lasciarsi tutto alle spalle quando non hanno mai subito reali ingiustizie. Dopo aver letto Vinland Saga credo che il messaggio di pacifismo sia stato sottointeso da molti. Thorfinn è stato un guerriero assetato di sangue. Sa come combattere. Sa come far male per via del suo passato. Semplicemente, ad un certo punto della storia, sceglie di non farlo e predicare l’amore. Ma sa come difendersi.
Il suo trauma è parte integrante della trasformazione della sua anima. Il pacifismo predicato da Vinland Saga non è mera passività ma agire quando è strettamente necessario. Solo chi sa combattere può scegliere la pace sapendo di essere capace di violenza. Chi è semplicemente innocuo è invece alla mercé del più forte. Come dice Jordan Peterson, l’uomo deve essere capace di violenza e brutalità: deve essere un mostro capace di controllarsi. Ma è difficile. È difficile eccellere in qualcosa che viene contro natura.
Ormai ho iniziato il mio percorso nella boxe da più di due anni. Cosa mi ha insegnato ricevere diretti in faccia per tutto questo tempo? Cosa mi ha insegnato poter effettuare una combinazione gancio sinistro al corpo, gancio destra alla mascella? Sono forse una persona migliore sia dentro che fuori dal ring? Mi piace pensare di esserlo. Dopo tutto, nulla dona confidenza come saper combattere. Non sono di certo Tyson, ma il semplice fatto di salire su un ring con persone che mi guardano mentre un altro cerca di staccarmi la testa mi riempie di paura e di orgoglio.
Dopo questa esperienza il mondo reale fa meno paura: quando riesci a capire che siamo sacchi di carne che perdono sangue allo stesso modo e che abbiamo tutti il potere di fare del male tanto quanto di subirlo, il mondo appare un po’ meno grigio e più luminoso. Stessa cosa quando si guadagna più soldi o quando si ottiene un fisico migliore.
Tante piccole porte ci si aprono e la nostra crescita fisica, economica e spirituale ci permettere di essere un tantino più forti per aiutare noi stessi e le persone intorno a noi. Non possiamo tornare indietro. L’orologio biologico sta scadendo per tutti ogni secondo che passa. L’anno scorso avevo 24 anni. Ora 25. Il prossimo anno, se la mia dipendenza da Monster Energy non viene a reclamare la mia vita anzitempo, ne avrò 26.
Fino a quando sono in tempo, fino a quando ho fiato in corpo, voglio sforzarmi di essere un po’ più forte del giorno precedente. Non potrò mai scordare quel che ho passato. Fa parte di me. Ma, in un certo senso, sono grato anche delle cose negative che mi sono successe: hanno contribuito a donarmi una storia interessante e unica che appartiene solo a me. Sono grato di questa vita ma, più di ogni cosa, sono grato della mia vita.
Come molti anche io utilizzo dating app. Sono metodi meravigliosi per conoscere nuove persone comodamente dal proprio divano di casa tra un episodio e l’altro di una serie tv su Netflix. Chi vuole perdere più tempo in discoteca e pagare una cifra da capogiro per un drink annacquato quando è possibile fare swipe a destra, incrociare le dita e sperare in meglio? Ho avuto delle belle soddisfazioni in questo anno e mezzo di utilizzo (eheheheheh). Ma non sono qui per parlare di questo.
Ciò che voglio raccontare è la mia esperienza con Bumble Business. Per chi non la conoscesse, Bumble è un po’ come Tinder: la sola differenza è che è la donna a fare la prima mossa e puoi risponderle solo se è lei la prima a inviare un messaggio (come se le ragazze non avessero già abbastanza potere nelle dating app…).
Tuttavia Bumble offre due interessanti funzioni eccetto la più classica orientata al mondo del dating: Bumble Friends (come si evince dal nome serve per trovare amici) e Bumble Business (per creare un network di persone, trovare lavoro, proporre un business, avviare start-up… cose così insomma). Ebbene, oggi ho conosciuto di persona il mio primo match su Business. Ci siamo incontrati per prendere un caffè all’ombra del grattacielo Unicredit di Milano. Ecco come è andata.
Si tratta di un personaggio interessante con grande esperienza nel mondo del real estate in Europa e in Asia e ora si trova a Milano con l’idea di vendere una linea di prodotti skin-care. Abbiamo parlato molto del mindset necessario per creare un business, dell’importanza della lettura, copywriting, dropshipping, internet e di come, essenzialmente, ci sia un’opportunità in tutto a patto di avere una mentalità sufficientemente aperta.
Sono tutti argomenti esplorati fino allo sfinimento da vari video su YouTube, avete ragione, ma ciò su cui voglio concentrami è che è stato bello avere qualcuno con cui parlare di imprenditoria e che ha della vera esperienza in più di un settore. È stato bello parlare delle idee di Robert Kiyosaki (qui il link a Padre Ricco Padre Povero) con qualcuno che lo ha effettivamente letto. E queste non sono cose da poco.
Ultimamente mi sento statico nella vita e uno degli aspetti in cui mi sono ripromesso di migliorare, oltre che nelle social skill, è quello di avere una seconda entrata e guadagnare di più. L’educazione finanziaria e il proprio patrimonio dovrebbe, a mio avviso, essere migliorato con costanza insieme alla salute fisica, la cultura e gli hobby. Diciamo la verità: più soldi equivalgono a più esperienze e meno problemi. Forse oggi la mia vita non è cambiata grazie a questo incontro, ma ho cominciato a vedere diverse cose sotto una luce differente e, di sicuro, sono motivato: questo di per sé è già una piccola vittoria.
Si dice che noi siamo la somma delle cinque persone con cui passiamo più tempo e, forse, c’è un fondo di verità in tutto questo. È importante condividere il proprio tempo con persone con valori simili ai nostri.
Per chi mi segue da un po’ di tempo avrà capito che il genere crime è tra i miei preferiti in assoluto. La figura del criminale è romanticizzata da molti attraverso i media e si può quasi dire che appaia come eroica. Quanti di noi hanno sognato anche solo una volta di essere dei gangster dopo aver visto Goodfellas o The Wolf of Wall Street? Qual è la ragione per cui a volte sogniamo di essere come loro? Non serve pensare troppo. Sono uomini pieni di soldi e donne che si prendono ciò che vogliono senza farsi troppi problemi: molto spesso l’opposto dello spettatore che li guarda. Credo sia normale voler essere di più come loro… soprattutto nella loro versione dipinta dai media.
Leggendo Romanzo Criminale per la prima volta mi sono ricordato di come anch’io, da bambino, romanticizzavo queste figure: persone senza talenti o meriti ma che potevano definirsi i nuovi Re di Roma a poco meno di trent’anni. Peccato che questa storia, come tutte le favole a sfondo criminale, non ha una lunga durata. Peccato che non ci sia neanche un lieto fine… ma non preoccupatevi. Non è uno spoiler: solo il naturale ordine delle cose.
Ma procediamo con ordine: Libanese, Dandi, Bufalo e Freddo sono pesci piccoli nel vasto mare della criminalità organizzata romana, accumunati dal sogno di prendersi la Città Eterna. Un luogo che non ha mai voluto padroni e che mai ne vorrà. Qui la criminalità è decentralizzata e limitata alla supremazia di quartiere. Manca una vera e propria banda che faccia capo al commercio di droga e gioco d’azzardo. Ed è da questo sogno che nasce la Banda della Magliana e le origini di Mafia Capitale.
Si tratta di un progetto ambizioso che pone le sue fondamenta con il rapimento del barone Rosellini, un colpo eseguito con maestria e che genera alla Banda un generoso profitto. Ma ecco la pensata geniale direttamente dalla mente del Libanese: non bisogna dividere il malloppo per ciascun membro del Gruppo ma investire il totale nel commercio di droga per ampliarsi. Il resto? Stecca para per tutti.
Una cosa così a Roma non si era mai vista. Ed è proprio da qui che incomincia l’origine della Banda. Alle loro costole, il giovane commissario Scialoja insieme al sostituto procuratore Fernando Borgia.
Un romanzo scritto con uno stile fluido e semplice che racconta una delle storie, e delle fantasie, che hanno plasmato l’Italia come la conosciamo adesso. Ovviamente molti eventi sono stati cambiati e romanzati, così come i nomi dei protagonisti, per ottenere una trama più avvincente. La caratterizzazione dei personaggi è di una umanità sconcertante tanto che, spesso, si dimentica che si sta parlando di assassini. Alcuni passaggi, come il Libanese e il Freddo che si concedono una carbonara al ristorante o la Banda che decide all’unisono come spendere i soldi del colpo, sono scritti in maniera tale da rendere queste persone quasi vive e, in un certo senso, amici del lettore. Un romanzo sicuramente consigliato e che ha gettato le fondamenta per una delle serie tv italiane più belle nel panorama internazionale.
Sono affascinato, come molti, dalle storie che pongono la criminalità al centro. Quando andavo alle medie, una delle serie tv che creava più discussione tra i vari gruppi che componevano la gerarchia sociale delle classi era senza dubbio Romanzo Criminale, trasposizione televisiva della storia della Banda della Magliana, un gruppo di criminali realmente esistito con il sogno di conquistare Roma.
Alcuni di noi, se non quasi tutti, guardavano con ammirazione le loro gesta: d’altronde quel tipo di vita risulta particolarmente affascinante per un bambino. Il fenomeno di eroicizzare figure criminali in Italia ha raggiunto forse il suo apice con Gomorra: al liceo era d’obbligo guardarlo. Ma la lista continua con Breaking Bad, The Wolf of Wall Street, I Soprano,Quei bravi ragazzi. C’è qualcosa in queste storie che parla ad ognuno di noi a un livello personale e credo che tutti, almeno una volta, nelle più oscure fantasie, ci siamo immaginati più simili a questi personaggi tanto brutali quanto carismatici che compongono la vasta narrativa crime.
Denti da squalo: tra criminalità e formazione
Denti da squalo parla di come questa vita da criminale composta di paura, rispetto e gloria venga percepita dal punto di vista di un bambino che si riflette in noi spettatori. Tutto comincia quando Walter, 13 anni, perde suo padre Antonio in un incidente al depuratore. Rimasto solo insieme alla madre, questa sarà la sua prima estate senza la figura paterna. In una delle sue traversate in bicicletta lungo il litorale romano, Walter si introduce furtivamente in una villa all’apparenza abbandonata con un’enorme piscina. Come ogni bambino di tredici anni che si rispetti, Walter non ci pensa due volte a tuffarsi dentro… per poi trovarsi uno squalo all’interno. Walter farà la conoscenza di Carlo, custode temporaneo della villa appartenente al temuto boss criminale Corsaro.
Ed è così che nasce un’improbabile amicizia tra i due. Carlo introdurrà Walter alla piccola vita criminale locale nella gang con a capo Tecno. Tra le prime rapine, estorsioni e momenti di dialogo e riflessioni a bordo piscina in compagnia dello squalo, Walter sembra ricalcare le ombre del padre. Ma questa vita non è facile. Come rivela lo stesso Corsaro: “Non è per tutti essere uno squalo”. Walter si rende conto presto di come l’adrenalina della criminalità possa sfociare in poco tempo ad una privazione dei propri obblighi morali e della libertà stessa.
Al contrario di altri film di questo genere, Denti da squalo è un racconto di formazione che a tratti funge da meravigliosa fiaba urbana in cui la criminalità è solo un pretesto per esprimere al meglio l’inquietudine e la difficoltà del passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
I riferimenti cinematografici sono molteplici: da Stand By Me a Dog Man fino ad arrivare a Non essere cattivo. Nonostante nel finale si perda un po’, forse per colpa di un minutaggio troppo esiguo, l’opera prima di Davide Gentile si rivela un film originale con una grande intuizione cinematografica. La caratterizzazione dei personaggi è fortemente ispirata e le location del litorale romano sono una cornice perfetta per inquadrare una storia di speranza mista a malinconia.