Alice in Borderland: un gamer apprezza di più la vita rischiando la morte ogni giorno

È passato qualche anno da quando vidi la prima stagione di questa serie. Ero tornato dal Galles ormai da qualche mese appena terminata la mia laurea. Mi sarebbe piaciuto restare lì, ma era il periodo del Covid e della Brexit e fui quasi costretto a prendere un volo per Roma. È stato un periodo piuttosto buio della mia vita. Avevo giurato che non avrei mai più fatto ritorno nella casa della mia adolescenza. Non aver mantenuto fede alla mia promessa mi aveva devastato. Non avevo un lavoro, né la scusa degli studi. Passavo le giornate in completo isolamento. Tra i pochi svaghi che avevo l’immancabile lo-fi, Monster Energy, qualche libro, la televisione e Bloodborne.

Non c’è da meravigliarsi se all’epoca mi sono immedesimato subito in Arisu, il protagonista di Alice in Borderland. Ma andiamo per ordine: Arisu è un neet (neither in employment or education: non lavora né studia) e passa le giornate chiuso in camera a giocare ai videogame. Un fenomeno tristemente noto soprattutto in Giappone, patria degli hikikomori, persone che non escono mai al di fuori della propria camera (per un approfondimento completo cliccare qui).

Arisu non ha prospettive per il futuro. Suo padre lo guarda dall’alto in basso e lo paragona sempre a suo fratello, il quale ha completato con successo il ciclo di studi e ha un lavoro. L’unico suo sfogo risiede nell’ottenere il punteggio più alto negli sparatutto e uscire con i suoi due amici Chōta e Karube. Un giorno, dopo essere stato bacchettato per l’ennesima volta da suo padre per il suo stile di vita, Arisu decide di incontrarsi con i suoi amici in una mattina di calda estate al centro di Tokyo.

Per un attimo tutto sembra aver senso per Arisu e prende respiro dalle ansie che gli impediscono di vivere appieno il presente. L’idillio continua fino a quando la piazza di Shibuya viene scossa dal rombo di diversi fuochi d’artificio che illuminano la città nonostante sia pieno giorno.

Chōta, Arisu e Karube

D’un tratto, i tre amici si ritrovano in una versione alternativa di Tokyo. La natura ha preso il sopravvento: la vegetazione si è fatta strada tra i grattacieli che compongono la skyline della città. Sembra non esserci nessuno. La folla di Shibuya è scomparsa e non c’è segno di vita. I tre decidono di esplorare la città in cerca di risposte.

Il sole fa posto alla luna e nel cielo compaiono alcune scie luminose. Arisu, Chōta e Karube si dirigono in uno dei luoghi illuminati. Al loro ingresso nel palazzo di luce inizia il game Dead or Alive. Una voce robotica informa loro che non è più possibile uscire dal palazzo: pena la morte tramite un laser che compare dal cielo. Le regole sono semplici: il gruppo è costretto a scegliere una di due porte in cui entrare entro un certo limite di tempo. Una conduce a morte certa e l’altra è la via per la salvezza.

Viene scoperto in poco tempo che per sopravvivere in questa versione di Tokyo è indispensabile giocare a questi game mortali. Ognuno dei personaggi che è stato trasportato in quel mondo ha un visto con un certo numero di giorni. Al termine del visto, la persona muore. Per ottenere più giorni nel visto è quindi necessario superare i game.

Un qualcosa in cui Arisu si può definire un esperto. Si scoprirà con il passare della serie che molte persone si trovano in questa nuova versione della città. Nessuna ne sa il motivo e tutti sono alla ricerca di un modo per tornare a casa.

Questo è solo il primo episodio di una serie composta da due stagioni tratte dal manga di Haro Aso. Un manga all’apparenza fantascientifico ma che si pone importanti domande sul senso della vita e quanto sia importante viverla al meglio ogni giorno. Nel corso della serie, il passato dei personaggi verrà messo a nudo: ognuno ha il suo motivo per sopravvivere e tornare a casa e, allo stesso modo, ognuno ha un motivo che lo ha portato a sfuggire dai traumi della realtà esattamente come Arisu.

Non mi piace utilizzare troppo la parola “capolavoro” ma credo seriamente che sia uno degli aggettivi che più si addice a questa serie. Ha molti difetti, primo tra tutti un ritmo lento, ma racchiude un grandissimo messaggio di speranza. Anche nelle situazioni più orribili della vita è possibile trovare una ragione per continuare a respirare. Ogni giorno, per quanto cliché possa sembrare, potrebbe essere l’ultimo. Il finale della serie lascia veramente spazio al desiderio di rinascita che ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita. Forse la vita che viviamo non è troppo differente da uno dei game descritti da quel genio di Aso. Non importa quanto siamo bravi: alla fine c’è un game over per tutti. Quello che conta però è vivere al meglio il viaggio che abbiamo scelto di intraprendere.

Molte cose sono cambiate nella mia vita da quando vidi la prima stagione della serie. E, in un certo senso, anche io sono cresciuto insieme ad Arisu in questi tre anni. Alice in Borderland è quel genere di storia a cui ritorni ogni volta che hai bisogno di conforto. Quella versione di Tokyo, esattamente come Silent Hill, è il luogo che ogni anima persa visita per ritrovare la redenzione o la distruzione totale. Altamente consigliato per chiunque.

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