Oshi no ko, reincarnazioni e il limite della propria genetica

Stavo guardando il primo episodio di Oshi no ko per l’ennesima volta. La trama è molto semplice: un medico e la sua paziente, malata di cancro, perdono la vita e vengono reincarnati nei figli della loro pop idol preferita, Ai Oshino. Fin da subito ho adorato il tono comico e spensiarato del primo episodio (dura poco più di un’ora) che tuttavia non si fa problemi ad assumere contorni più drammatici e profondi. Il personaggio di Ruby Oshino, l’ex paziente malata di cancro e ora figlia di Ai, è tra quelli che mi ha colpito di più.

La carismatica Ai

La vita davvero non è uguale per tutti e lei lo ha potuto sperimentare in prima persona. La sua esistenza era scandita da giornate monotone in un lettino d’ospedale senza possibilità di fare granchè. I genitori l’avevano abbandonata e la sua unica luce era vedere alla tv le gesta dell’idol preferita. Una vita grigia senza troppo spazio per i sogni e per la speranza. E alla sua morte si ritrova ad essere la figlia dell’idol che tanto amava: senza malattie, bellissima e piena di talento con i contatti giusti sin dalla nascita. L’unica pecca? I ricordi della vita precedente pieni di traumi e rimpianto.

Un discorso analogo può essere fatto anche per il dottore reincarnato in Aquamarine Hoshino. Una vita sicuramente meno tragica della sua paziente ma comunque priva di avvenimenti degni di nota e, anche lui, ossessionato dalla luce di talento e bellezza di Ai Oshino, la quale può essere ammirata solo da lontano.

 E quando muore e si ritrova a rivivere la vita con un’altra mano di carte… che dire: le cose cambiano. Lui stesso ha detto: “Sono quasi grato al tizio che mi ha ucciso”. Ora ha la possibilità di vivere seriamente. Immaginate una early start nella vita così: infanzia (possibilmente) senza traumi, figli di una star, intelligenza, carisma, migliore educazione e soldi.

Ci è sempre stato insegnato che tutto è possibile e basta impegnarsi per avere successo. Ma se non fosse così? Se tutto fosse prestabilito dai nostri geni? È innegabile che ci siano fattori genetici, che non possono essere cambiati in alcun modo, che facilitano la vita di molti individui e ne distruggano altre. Parlo di malattie ma anche di bellezza, intelligenza, talento, fisico e così via. Credo sia nella natura umana fantasticare su cosa significhi avere il massimo in tutte queste cose. Purtroppo non esiste la reincarnazione, o meglio non ci è dato saperlo, ma la consapevolezza che dopo la nostra vita presente si possa nascondere un’altra completamente al di fuori della nostra portata (come un terno a lotto o governata dal karma) mi riempie di fascino.

Purtroppo non sta a noi decidere gli elementi con cui veniamo al mondo ma la vera grandezza sta con come ci giochiamo la nostra mano. Non lo so… solo i miei pensieri dopo aver visto questa piccola perla. Ovviamente la trama non ruota (solo) intorno a questo. I personaggi hanno una caratterizzazione unica e i disegni sono superiori di molti che ho trovato al Louvre. Una storia meravigliosa, fresca che non ha paura di spaziare dal comico al tragico, con temi a me cari come abbandonarsi il passato alle spalle (letteralmente), vendetta e esplorare il proprio spirito di affermazione sullo sfondo dello showbusiness giapponese.

Prima lettura di Slam Dunk, paura per il futuro e nostalgia di un passato che non ho mai avuto

Ieri mi sono recuperato i primi quattro volumi di Slam Dunk di Takehiko Inoue. È passato più di un anno da quando ho visto The First Slam Dunk, un piccolo e meraviglioso gioiello cinematografico, e mi ero ripromesso di leggere il manga. Il protagonista è Hanamichi Sakuragi, una matricola del liceo a capo di un piccolo squadrone di teppisti con l’incredibile record di essere stato rifiutato da 50 ragazze ai tempi delle medie.  

Nel primo capitolo fa la conoscenza di Haruko, una ragazza innamorata del basket che vede nel fisico possente di Sakuragi un forte potenziale per lo sport. Ovviamente Sakuragi non è minimamente interessato alla pallacanestro, ma decide di iscriversi al club di basket del liceo proprio per fare colpo sulla bella Haruko.

Lo Shohoku in azione

Così inizia l’avventura di Sakuragi, giovane teppista dal pugno di ferro ma dal cuore tenero, nel mondo del basket amatoriale tra amori non corrisposti, amicizie, risse e risate. Nonostante abbia letto solo i primi quattro volumi ho subito adorato l’atmosfera leggera e irriverente del manga (anche se mi aspetto profondi cambiamenti di trama tragici considerando il film) e non ho potuto fare a meno di paragonare i miei giorni al liceo a quelli di Sakuragi e la sua truppa di adorabili teppisti e il mio presente.

Ad essere sincero, non ho potuto neanche fare a meno di provare un leggero senso di invidia e, forse, di disperazione. Il liceo è stato un periodo che forse non definirei negativo ma di certo tutt’altro che positivo.

Non mi sono accadute tragedie ma neanche esperienze da ricordare. È stato un limbo: cinque anni della mia vita che non torneranno indietro e che, un po’ per circostanze esterne a me, non ho saputo sfruttare al meglio. Niente esperienze come al liceo Shohoku di Sakuragi, poche risate e ben poca nostalgia. All’università (e soprattutto adesso) è andata (e sta andando) sicuramente meglio ma gli anni del liceo (per quanto grigi e incolori) mi perseguitano ancora.

Ma, a volte, mi chiedo come sarebbe tornare indietro nel tempo e non avere troppi pensieri per la testa come adesso, focalizzandosi interamente sul presente e non pensando al futuro… come al versamento dei contributi pensionistici obbligatori (non sia mai che si abbia potere decisionale sul proprio guadagno…).

Nulla mi vieta di pensare alle ragazze e spaccarmi nello sport come i ragazzi di Slam Dunk, ma devo ammettere che non è la stessa cosa. Quel treno del liceo è passato e non tornerà mai più. Ma questo non significa che non possa passare un treno migliore, cosa che fortunatamente è successa. Mancano ancora molti volumi alla fine di Slam Dunk, ma non posso fare a meno già da ora di ringraziare i ragazzi dello Shohoku per aver condiviso con me una nuova versione di un periodo della mia vita non troppo felice. Non male come riflessione delle 5 del mattino.

In chiusura: mi sto davvero appassionando al genere bosozoku, fenomeno sociale che ha visto come protagonisti giovani teppisti a cavallo di moto che hanno raggiunto l’apice tra gli anni ’70 e ’90. Come  è possibile immaginare, questo tema è davvero popolare nei manga: a chi non piace immedesimarsi in ribelli con un codice morale tutto loro che utilizzano la potenza dei loro pugni per portare la pace? Basti pensare al successo di Tokyo Revengers e Akira. Se qualcuno mi legge, sarei aperto a suggerimenti per manga e film e ampliare la mia conoscenza al riguardo.

Giappone: un piccolo sogno che diventa realtà tra lo-fi e Monster Energy

Un sogno che avevo da tempo sta cominciando a prendere forma. Ad agosto partirò per il Giappone, una terra che mi affascina ormai da sei anni. Dopo aver acquistato un biglietto andata-ritorno, mi sono fermato a pensare ai traguardi che ho raggiunto in questi due anni da quando mi sono trasferito a Milano. Ho ottenuto la certificazione per il corso da sceneggiatore e il mio viaggio verso il primo match di boxe prosegue.

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Non amo molto parlare della mia vita ma fare un piccolo recap di queste soddisfazioni, per quanto modeste siano, mi danno coraggio per tornare a riscrivere su questo blog che ho abbandonato ad agosto.

Il viaggio in Giappone rappresenta forse il primo, vero regalo che mi concedo. Ho ritrovato la lista delle mie “esperienze da fare almeno una volta nella vita” che ho scritto 6 anni fa. Una di queste era: sorseggiare una Monster Energy mentre ascolto musica lo-fi (un rituale che ho seguito spesso nei miei solitari anni all’Università) in un parco di Tokyo.

Mi piacerebbe ascoltare qualcosa del genere (lo stesso tipo di musica che è nella mia playlist Spotify)

Ovviamente non mi limiterò a visitare solo Tokyo. Ho in programma un bel viaggio che spazia dalla capitale a Okinawa fino a passare per Kyoto e Osaka. Forse un po’ mainstream, me ne rendo conto, ma per la prima volta nel Sol Levante direi che possa andare.

Adesso che penso a tutto quello che vorrei, ancora, ottenere realizzo una cosa: mi è sempre mancata un po’ di disciplina. È meraviglioso tuffarsi nei progetti quando si è agli inizi, che sia la scrittura, la palestra o altro, ma non è per tutti continuare anche (soprattutto) se non si ottengono i risultati sperati.

Non ho una grande ambizione nella vita se non fare delle mie passioni un lavoro e guadagnare abbastanza per potermi permettere qualche esperienza come il Giappone. Anzi… ormai è da qualche tempo che accarezzo l’idea di poter diventare un nomade digitale: avere la libertà di poter lavorare dappertutto solo grazie ad un pc portatile.

Credo che uno dei motivi per cui molti hanno in testa di diventare ricchi non sia tanto per i soldi in sé ma per assecondare un desiderio innato di libertà. Essere liberi di essere dove si vuole, di spendere il proprio tempo nel fare ciò che realmente si sogna: tutto questo però non è alla portata di tutti. Serve un prezzo da pagare per raggiungere quei livelli di libertà economica che non tutti sono disposti a pagare e che, per quanto sia triste ammetterlo, non tutti possono farlo nonostante gli sforzi (chissà… forse rientro tra questi). La vita non è di certo un manga: l’impegno non è garanzia di successo. Tuttavia, una grande motivazione mista a duro lavoro offre almeno la speranza di poter cambiare vita e questo potrebbe veramente non avere prezzo.

Cyberpunk: Edgerunner, sognando la Luna in un appartamento nella periferia di Night City

Ultimamente mi sento come se il tempo mi stesse scivolando per le mani. I giorni passano e si trasformano velocemente in mesi e poi in anni. Non riesco a smettere di pensare che un giorno, con una sicurezza matematica del 100%, non sarò più qui. Sono molto più attaccato alla vita di quanto pensassi. Eppure, per quanto io riconosca il valore (seppur effimero) della mia esistenza, ho ancora la sensazione di non riuscire a vivere appieno.

Come molti sono prigioniero di una routine che, per quanto sana e costruttiva, lascia poco spazio all’avventura e ai sogni. Come recita Fight Club “Questa è la tua vita e sta finendo un minuto alla volta”. Forse ho preso troppi pugni nello sparring, ma questa frase acquisisce sempre più senso man mano che continuo a vivere. La nostra vita è molto fragile e può finire da un momento all’altro. Forse è il caso di farci qualcosa nel frattempo oppure, almeno, godersela per quanto possibile. Perlomeno questo è il messaggio che mi pare di aver colto da Cyberpunk: Edgerunners, la serie anime targata Netflix ispirata al videogioco della casa di produzione CD Project RED.

You are going to carry that weight…

Cyberpunk: Edgerunners ricorda a tratti Devilman Crybaby

Come si potrebbe evincere dal nome, la serie ricade sul filone narrativo cyberpunk, il quale, come chiarisce Wikipedia, tratta di scienze avanzate, come l’information technology e la cibernetica, accoppiate con un certo grado di ribellione o cambiamento radicale nell’ordine sociale.

L’anno è il 2077. Il protagonista della serie è David, un ragazzo di strada che vive nella periferia di Night City insieme alla madre Gloria. David è una mente brillante e tra i primi della classe all’Arasaka Academy, la scuola più prestigiosa della città. La madre fa due lavori per mantenere la retta e cercare di dare al figlio un futuro dignitoso che lei non ha potuto avere per se stessa.

Un incidente stradale fa subito traballare questo equilibrio precario: Gloria rimane gravemente ferita e il suo ceto sociale non è abbastanza elevato per permetterle cure mediche di prim’ordine. Con la sua morte, David rimane solo a Night City. Tormentato dai suoi compagni di classe per essere povero e con un forte senso di colpa per non essere riuscito a proteggere la madre, David decide di lasciare l’Arasaka Academy e modificare il proprio corpo con un impianto Sandevistan di tipo militare che gli permetterà di essere più forte fisicamente ma che tuttavia gli causerà danni psicofisici che graveranno sempre di più sulla sua mente.

In poco tempo si introdurrà nella criminalità di Night City alla ricerca di un posto che possa chiamare casa. David fa la conoscenza di Lucy, una ladra di professione che bazzica nel temuto gruppo di Maine, il cyberpunk criminale. Ed è così che ha inizio la nuova vita di David alla scoperta di sé stesso e dei suoi sogni. Night City è una giungla urbana e ogni giorno può essere l’ultimo.

La vita umana vale in proporzione al denaro che viene guadagnato: una lezione che il protagonista ha imparato a caro prezzo con la morte della madre. Una storia di formazione che trova spazio anche per temi importanti come l’amore, riflessioni sul senso della vita e la natura umana che spinge ognuno di noi a trovare un posto in cui ci si sentiamo accettati. In dieci episodi questa serie offre molto più di quanto altri anime non riescano a delineare in 8 stagioni: una storia autoconclusiva con personaggi umani e perfetti nelle loro imperfezioni.

Il finale è un qualcosa di straziante che, però, è maledettamente in linea con la premessa iniziale della serie: “Non ci sono lieto fine a Night City”. Tuttavia, almeno per i più ottimisti, è presente un briciolo di speranza per il futuro a cui, con un po’ di forza di volontà, ci si può aggrappare. Per quanto possa essere scontato dirlo, la vita è davvero imprevedibile e breve: tanto vale godersi il viaggio anche nelle sue sfumature più negative. Una serie altamente consigliata per chiunque.

Menzione speciale per la colonna sonora firmata da Akira Yamaoka, storico compositore di Silent Hill.

Scuola, odio e Pink Floyd

Ho sempre odiato la scuola. Mi piaceva imparare. Alcune materie le trovavo persino interessanti. Ciò che non sopportavo era svegliarmi alle 07:00, prendere i mezzi pubblici e parcheggiarmi per sei ore su una sedia in mezzo ad altri 22 ragazzi. Non mi sono mai sentito a mio agio nei luoghi sovraffollati e alcune persone, soprattutto gli insegnanti, non facevano che rinfacciarmelo. “Perché non parli mai?” “Sei muto?” E, spesso, queste considerazioni da premio Nobel provocavano più di una risata tra i miei compagni di classe. Dicono che la scuola ti prepari alla vita e non potrei essere più d’accordo.

La scuola ti prepara a passare il resto della tua vita a svegliarti presto, a incurvati le spalle su una metro, a passare le giornate con persone che preferiresti evitare, ad ascoltare i tuoi superiori (insegnanti, capi: fa lo stesso) a dirti cosa fare con un vago cenno di frustrazione nelle loro voci perché anche loro non vorrebbero essere in quel posto.

Forse la faccio un po’ tragica. Non tutti gli insegnanti erano così male e non tutti godevano nell’asserire autorità a dei ragazzini con rimarchi più che discutibili. La maggior parte . Credevo di essere l’unico ad aver avuto un’esperienza orribile al liceo ma sta di fatto che non è così. Con chiunque abbia avuto modo di parlare, la scuola – soprattutto il liceo – è stato percepito come un periodo se non orribile, perlomeno negativo. Ma, come direbbe il professor Oak in Pokémon, non è questo il luogo o il momento per muovere una critica al sistema scolastico. La scuola è essenziale per la crescita mentale di un individuo. Letteratura, matematica, arti, scienze: tutto è fondamentale. Ma la scuola raramente si basa sull’apprendimento delle materie, basandosi di più su una burocrazia infondata e insensata che non porta a risultati tangibili.  

low angle photo of two men fighting in boxing ring
Come avveniva il confronto con il mio professore nella mia testa. Montante e gancio sinistro. Una delle mie combinazioni preferite.

Si sta avvicinando la mia stagione preferita, l’autunno. Già oggi ho visto un bambino insieme alla mamma che comprava un quaderno a righe e un compasso. Ciò mi ha fatto tornare alla mente ricordi che avrei preferito dimenticare. Ore e ore della mia vita a sentirmi inadeguato e depresso in un’aula anonima di provincia. L’unica cosa positiva di quel periodo era la mia ragazza e Il Trono di Spade. A pensarci bene, forse, la colpa non è del sistema scolastico ma solo mia. Se avessi avuto una bella esperienza le mie parole sarebbero ben diverse.

Eppure, sono grato di non essere più uno di quei bambini costretti a varcare le porte di un liceo. E sono ancora più grato di non essere uno che varca le porte di un ufficio. Ogni volta che entravo in quei posti mi sentivo un animale pronto per essere macellato. Forse anche i Pink Floyd si sono sentiti così. Quel video è stata un’esperienza catartica.

Don’t be another brick in the wall…

Io lo sono stato per troppo tempo. Mi ricordo ancora quando mio padre mi diceva: “Adesso odi la scuola ma da grande ti mancherà tutta questa spensieratezza e vorrai tornare indietro per rivivere questi meravigliosi anni!”

Preferirei un avvelenamento da cianuro piuttosto che rivivere quegli anni. Ho ventiquattro anni, un pelo grigio nella mia barba da tre giorni, lavoro da remoto, ho quattro paia di jeans e vivo in una casa in affitto lontano dal posto in cui sono nato. Non è molto ma in confronto a quell’obbrobrio della mia vita a sedici anni mi sento Elon Musk. E, cosa più importate, ho un obiettivo, un sogno e qualcosa di tangibile a cui aggrapparmi. Quella scuola non è stato altro che un inferno per me. Credevo di averla lasciata una volta per tutte dopo un ricco 95/100 alla fine degli esami. Ma le cicatrici sono ancora qui dentro di me. A volte odio me stesso per lasciare che il passato mi influenzi ancora. Ho una lunga strada di fronte a me ma sono fiducioso.

Sono grato di ciò che mi è successo. Le esperienze negative possono essere tanto utili, se non più utili, di quelle positive. I rimpianti sono per i perdenti. Ciò che è accaduto è accaduto. Tanto vale imparare la lezione e andare avanti. Non si può cambiare il passato, ma si può agire nel presente e cambiare il futuro. Questo è già qualcosa.

Buona fortuna per chiunque sia ancora alle prese con le mirabolanti avventure nel sistema scolastico.

Da Shinji Ikari a Guts: una riflessione

La mia ultima visione di Evangelion risale a quasi tre anni fa. Non ricordo alla perfezione i dettagli, la storia e i riferimenti esoterici e biblici. La cosa che mi è rimasta più impressa, oltre alla mia amata waifu Rei Ayanami, è stato il protagonista Shinji Ikari: un eterno indeciso, introverso, schivo e con un principio di asocialità. Shinji rappresenta l’otaku medio giapponese che sfugge dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia. Come biasimarlo? Shinji è un quattordicenne abbandonato dal padre poiché considerato “inutile”. La morte della madre non ha di certo aiutato nella costruzione del suo carattere. Essere moralmente obbligato a pilotare quello che è all’apparenza un robot e avere il destino dell’umanità sulle spalle sarebbe troppo per tutti.

Non starò qui a parlare dell’affascinante quanto complessa trama di Evangelion, della splendida caratterizzazione psicologica dei personaggi, delle metafore e delle splendide animazioni. Ci vorrebbe un blog a tema o una serie di dieci video su youtube da un’ora ciascuno. Parlerò solo di due dei personaggi fittizi che amo di più in assoluto: Shinji Ikari e Guts. Non potevo scegliere due persone più differenti.

Ho sempre avuto molto in comune con Shinji sin da quando ero un bambino. Ho evitato, ed evito tutt’ora, di intrattenere relazioni sociali oltre lo stretto necessario. La folla mi mette a disagio. Vado al cinema da solo. Vado in palestra da solo. Scrivo da solo.  Ho sempre pensato a ciò come un motivo di grade orgoglio. Mi piace la solitudine e preferisco starmene per conto mio. Non la vivo male come cosa. Ho un paio di amici e una ragazza. Sto a posto da quel punto di vista. O almeno così credevo.

Un paio di eventi mi hanno costretto a riconsiderare tutto ciò. Spinto dall’idea del successo, del guadagno, ho scelto di iscrivermi a un corso per imparare i concetti di compra-vendita e diventare un broker. L’immagine che avevo in mente (Leonardo Di Caprio su uno yacht che lancia soldi ai federali come in The Wolf of Wall Street) non era molto calzante con la realtà che mi si presentava davanti: un ufficio pieno di persone che cerca di convincere sconosciuti al telefono per comprare i propri pacchetti azionari.

Più di un problema

 Le lezioni erano utili e motivanti. L’ufficio, al contrario, era soffocante. Non ero abituato a stare a contatto con troppe persone. Il solo atto di scegliere le persone dalle pagine gialle per rifilargli un discorso imparato a memoria mi dava dolore fisico. Small talk con i colleghi? Fantascienza. Da lì ho cominciato a sospettare di avere qualche problema. Un problema che mi trascino sin dall’infanzia e che non ho mai avuto modo di risolvere: il contatto umano. Questo è accaduto un anno fa. Ora ho un lavoro in una branca che mi piace e che, soprattutto, si svolge in smart working da remoto. Posso mascherarlo quanto voglio ma, un giorno, tornerà a perseguitarmi. Sono grato di aver lasciato quel posto. Ma sono anche grato dalle conclusioni che ne ho tratto.

E questo ci porta a Guts. Il guerriero nero (una figura chiave in queste pagine) è probabilmente l’antitesi di Shinji. Anche lui marchiato da traumi infantili, ben peggiori di quelli Shinji, ha trovato nella resilienza e nella forza di carattere il modo per sopravvivere, affrontando ogni sfida che gli si pari davanti. Non importa quanto essa possa sembrare impossibile (e alcune lo sono veramente): Guts applica i principi della leadership tanto cara agli imprenditori e sceglie di andare contro la corrente del destino per raggiungere il suo lieto fine. Guts è forse una delle figure a cui mi sono ispirato di più in questi anni per la crescita personale. Ma andare in palestra e conciliarla con il proprio lavoro non è abbastanza per svilupparsi come individuo.

Non è neanche lontanamente abbastanza.

Come Shinji, anche io decido di privarmi delle interazioni sociali per paura di farmi del male. Se ti privi di tutto, in fin dei conti, non ti succede nulla: non c’è dolore ma neanche crescita. Ma questo è un approccio completamente sbagliato che non porta a nulla se non ad avere rimpianti. E ciò non si riflette solo sui rapporti sociali ma anche sui propri obiettivi. Fortunatamente ho ritrovato una mia routine e sono di nuovo al lavoro. Non intendo il mio lavoro principale ma quello che mi porterà alla vita che voglio veramente.  Tutto sommato, sono fiducioso. Sono sulla strada giusta e il tempo è dalla mia parte. Sono ancora in tempo per diventare Nathan Drake.

Grattacielo

Posso vedere il grattacielo anche da qui. Osservo le luci rosse sopra le antenne accendersi, spegnersi e accendersi di nuovo.

Forse una delle due luci ha qualche problema dato che si accende con un impercettibile ritardo rispetto all’altra.

Forse hanno entrambe un problema.

Mi siedo sulla panchina del parco con lo sguardo fisso sul grattacielo, unica fonte di luce insieme alla luna. Apro una lattina di Monster Energy. Il ‘click’ della lattina rimbomba nel parco zittendo i grilli per un momento. Mi guardo intorno. Ci sono solo io.

Forse c’è anche qualcun altro.

Impossibile saperlo con certezza dato il buio che mi circonda. Prendo la lattina di Monster con entrambe le mani e la porto alle labbra. Mi sento già meglio. I grilli ricominciano il loro canto.

Ho sentito dire che nel grattacielo distribuiscono lattine gratis alle persone. Non c’è assolutamente nulla per me in questo parco. Solo fantasmi. Tutto quello che voglio è sopra a me.

‘Come posso vivere lì?’ domando a me stesso ai grilli.

‘Come posso abbandonare questo posto?’

Nessuna risposta. Non mi sorprende. Un fruscio di foglie cattura la mia attenzione. Mi volto ma è un’azione inutile. Non vedo nulla. Mi chiedo per un momento perché non ci siano lampioni in questo parco. La risposta è così ovvia che mi do dello stupido. Sento un movimento fluido accanto a me.

‘Come va?’

Un uomo deve essersi seduto accanto a me.

‘Bene.’

Forse dovrei chiedergli lo stesso? Decido di no.

‘Cosa fai?’

‘Guardo.’

‘Che cosa?’

‘Il grattacielo.’

‘Bello, non è vero?’

‘Già.’

‘Peccato che non ci arriveremo mai.’

‘Parla per te.’

Mi concedo un altro sorso di Monster. Lo sguardo si sposta sulla Luna. Non illumina neanche lontanamente quanto il grattacielo.

‘Cosa vuoi dire?’ mi chiede il tizio.

‘Voglio dire che ci arriverò.’

‘Incontro sempre persone come te. Lo giuro. Capitano tutti a me.’

Non rispondo. Perché si è seduto qui? Forse perché è l’unica panchina del parco. Ma come ha fatto a trovarla con questo buio? E io come ho fatto a trovarla?

‘E dimmi… come vorresti arrivarci?’

‘Non lo so.’

‘Cosa ti fa pensare che puoi arrivarci?’

‘Non lo so.’

‘Qual è il tuo piano?’

‘Non lo so.’

‘Sei anche peggio degli altri…’

‘Forse.’

Sento il suo giacchetto strusciare sulla superficie della panchina. Probabilmente si è alzato.

‘Grazie per avermi rovinato la serata,’ mi dice. ‘Addio.’

‘Senti…’ gli dico. ‘Tu non sei stanco di tutto questo buio?’

‘No.’

‘E perché?’ gli chiedo ancora.

‘Perché il buio non è una fantasia. Se impari a fartelo piacere non è così male.’

Sento i suoi passi scricchiolare sul manto erboso ricoperto di foglie. Constato con piacere che la lattina di Monster non è neanche a metà. Mi concentro sul grattacielo ancora una volta. L’unica cosa reale in questo mondo. Allungo la mano verso il grattacielo e la chiudo a pugno.

‘Eccomi,’ sussurro. ‘Ti ho preso.’

Non è una verità ma neanche una bugia. Riporto le mani sulla lattina fredda.

Forse sono bravo solo a parole.

Grattacielo (racconto breve)

Posso vedere il grattacielo anche da qui. Osservo le luci rosse sopra le antenne accendersi, spegnersi e accendersi di nuovo.

Forse una delle due luci ha qualche problema dato che si accende con un impercettibile ritardo rispetto all’altra.

Forse hanno entrambe un problema.

Mi siedo sulla panchina del parco con lo sguardo fisso sul grattacielo, unica fonte di luce insieme alla luna. Apro una lattina di Monster Energy. Il ‘click’ della lattina rimbomba nel parco zittendo i grilli per un momento. Mi guardo intorno. Ci sono solo io.

Forse c’è anche qualcun altro.

Impossibile saperlo con certezza dato il buio che mi circonda. Prendo la lattina di Monster con entrambe le mani e la porto alle labbra. Mi sento già meglio. I grilli ricominciano il loro canto.

Ho sentito dire che nel grattacielo distribuiscono lattine gratis alle persone. Non c’è assolutamente nulla per me in questo parco. Solo fantasmi. Tutto quello che voglio è sopra a me.

‘Come posso vivere lì?’ domando a me stesso ai grilli.

‘Come posso abbandonare questo posto?’

Nessuna risposta. Non mi sorprende. Un fruscio di foglie cattura la mia attenzione. Mi volto ma è un’azione inutile. Non vedo nulla. Mi chiedo per un momento perché non ci siano lampioni in questo parco. La risposta è così ovvia che mi do dello stupido. Sento un movimento fluido accanto a me.

‘Come va?’

Un uomo deve essersi seduto accanto a me.

‘Bene.’

Forse dovrei chiedergli lo stesso? Decido di no.

‘Cosa fai?’

‘Guardo.’

‘Che cosa?’

‘Il grattacielo.’

‘Bello, non è vero?’

‘Già.’

‘Peccato che non ci arriveremo mai.’

‘Parla per te.’

Mi concedo un altro sorso di Monster. Lo sguardo si sposta sulla Luna. Non illumina neanche lontanamente quanto il grattacielo.

‘Cosa vuoi dire?’ mi chiede il tizio.

‘Voglio dire che ci arriverò.’

‘Incontro sempre persone come te. Lo giuro. Capitano tutti a me.’

Non rispondo. Perché si è seduto qui? Forse perché è l’unica panchina del parco. Ma come ha fatto a trovarla con questo buio? E io come ho fatto a trovarla?

‘E dimmi… come vorresti arrivarci?’

‘Non lo so.’

‘Cosa ti fa pensare che puoi arrivarci?’

‘Non lo so.’

‘Qual è il tuo piano?’

‘Non lo so.’

‘Sei anche peggio degli altri…’

‘Forse.’

Sento il suo giacchetto strusciare sulla superficie della panchina. Probabilmente si è alzato.

‘Grazie per avermi rovinato la serata,’ mi dice. ‘Addio.’

‘Senti…’ gli dico. ‘Tu non sei stanco di tutto questo buio?’

‘No.’

‘E perché?’ gli chiedo ancora.

‘Perché il buio non è una fantasia. Se impari a fartelo piacere non è così male.’

Sento i suoi passi scricchiolare sul manto erboso ricoperto di foglie. Constato con piacere che la lattina di Monster non è neanche a metà. Mi concentro sul grattacielo ancora una volta. L’unica cosa reale in questo mondo. Allungo la mano verso il grattacielo e la chiudo a pugno.

‘Eccomi,’ sussurro. ‘Ti ho preso.’

Non è una verità ma neanche una bugia. Riporto le mani sulla lattina fredda.

Forse sono bravo solo a parole.

American Psycho, manuale di crescita personale (film)

Non centra nulla. È ciò che ascolto mentre scrivo.

Oggi ho rivisto il film di American Psycho per la quarta volta nel corso della mia vita. Ogni volta è come se fosse la prima volta. Un film magistrale tratto da un romanzo che definisce la letteratura moderna insieme a Fight Club e Trainspotting. Patrick Bateman ha tutto nella vita: un lavoro ben retribuito a Wall Street, un attico nella zona più lussuosa di New York (ma che non si affaccia su Central Park… fottuto Van Allen e le sue prenotazioni al Dorsia), un fisico scolpito da allenamenti quotidiani nelle palestre più esclusive di New York.

Eppure Patrick è preda di una grande insoddisfazione personale. Odia il suo lavoro, odia le apparenze, odia i continui confronti con i suoi colleghi eppure sono questi ultimi su cui si basa la sua vita.

Prenota il locale migliore per la sera. Prendi il vestito migliore. Fatti di steroidi. Fatti una lampada due volte a settimana. Sii un membro produttivo, rispettabile della società. Per Patrick, però, non è abbastanza. Vuole essere il migliore sotto qualsiasi aspetto.

‘Se odi tanto il tuo lavoro perché non te ne vai?’ mi chiede Evelyn.

‘Perché voglio integrarmi…’

Ed è proprio il bisogno sfrenato di essere superiore e di essere accettato che porta Patrick alla follia. Tra un allenamento e l’altro, infatti, Patrick Bateman uccide e tortura diverse prostitute, senzatetto e amiche della sua Università. La sua facciata da ‘ragazzo della porta accanto’ si fa sempre più sottile rivelando una persona essenzialmente fragile e preda dell’opinione degli altri.

Il suo continuo mentire sulla sua presunta amicizia con Donald Trump ne è un chiaro esempio così come la sua frustrazione per non riuscire ad effettuare una prenotazione al locale più esclusivo di Manhattan, il Dorsia.

American Psycho parla delle ossessioni di un uomo che, semplicemente, non si sente abbastanza e della sua conseguente frustrazione su se stesso e su gli altri: Patrick è una vittima passiva di una società consumistica di cui diventa sempre più difficile far parte. Non riesce a vivere senza continuare ad ottenere di più per compiacere persone che disprezza. Non vuole essere lasciato in disparte. La soluzione? Scatenare il suo malessere con se stesso verso gli altri. Fantasie e azioni di violenza si mescolano alla sua routine fatta di palestra, bevute con gli ‘amici’, cocaina e concerti. Forse questo è l’unico modo in cui Patrick possa trovare sollievo nella sua missione per integrarsi.

Tuttavia Patrick è una persona di successo ma non riesce a vederlo. La sua visione è oscura e distorta dal perenne confronto con gli altri in questioni davvero banali da cui ne esce quasi sempre perdente. Ad esempio, il confronto dei format dei biglietti da visita in ufficio.

rectangular white table with rolling chairs inside room
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Eccetto la salute mentale, gli impulsi omicidi e la completa sociopatia di Patrick credo che ci sia qualcosa o due da imparare da lui; prima tra tutte, la voglia di vincere.

E, a mio parere personale, credo sia questo il messaggio di American Psycho: non criticare aspramente la società consumistica e yuppie ma di aspirare alla grandezza e alla ricchezza con una mentalità equilibrata e logica, senza lasciare che il giudizio degli altri (positivo o negativo che sia) ti trasformi in un mostro. Credo che questo messaggio non sia tanto rilevante quanto oggi. È difficile trovare un uomo di successo ma ancora più difficile è trovare un uomo equilibrato… ed è questo che porta realmente al vero successo.

Il mio lo-fi

Durante le vacanze di Natale la biblioteca della mia Università era aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. In quel periodo invertivo il giorno con la notte e varcavo le porte della biblioteca intorno a mezzanotte. Le sale erano completamente vuote. In quel periodo dell’anno tutti se ne tornano a casa dai propri genitori. Chi è che rimarrebbe da solo in una cittadina del Galles dove piove sempre nel periodo di Natale? Solo io e un orfanello con una cicatrice sulla fronte a forma di saetta.

Lo-fi, Monster e tempi andati

C’è qualcosa di magico nello stare da soli in una biblioteca mentre fuori piove e la pioggia scende lentamente sulle vetrate a mosaico raffiguranti due leoni rampanti (il simbolo dell’università). Ci sei solo tu.

Tu, te e te stesso seduti in un tavolo immenso da quindici persone. Il rumore del tuo respiro e della pioggia accompagnano le parole che scrivi insieme alla ronda del custode notturno che si fa vedere ogni due ore e ti offre una porzione dello spuntino preparato dalla moglie (arrosto con patate). La ventola di areazione del tuo portatile fa il suo lavoro (quasi) silenziosamente.

Passano ore.

Ho finito il lavoro per cui avevo sentito il bisogno di entrare in biblioteca (un tema sul cinema francese di Godard o qualcosa del genere) ma non voglio andarmene. Non piove più. Non voglio andare a casa. Apro il computer, digito ‘youtube’ e tra i video consigliati c’è un’immagine accattivante di una ragazza con le cuffie che studia china sui libri. Il titolo è: ‘Lofi hip hop mix Beats to Relax Study to 2018’.

Ci clicco sopra senza pensarci troppo e guardo le ultime gocce di pioggia colare dal mosaico di fuori. Il tempo vola. Non faccio neanche caso alla musica che non riesco a capire se sia malinconica, rilassante, triste o un curioso mix tra le tre. Penso alla fortuna che ho avuto ad andarmene di casa e non tornare per tre anni di fila. Penso a quanto sia bello vivere in un posto che mi piaccia sul serio. Infine penso a quanto sia bello il semplice fatto di essere semplicemente in vita. Mi alzo dalla sedia, cammino per quindici minuti fino al distributore automatico e mi concedo una Monster gelata al modico prezzo di due sterline e dieci. Ritorno al mio posto, stringo la lattina ricoperta da una patina di ghiaccio con entrambe le mani fino a quando non perdo parzialmente la sensibilità nelle dita e bevo un sorso.

Probabilmente questo è uno dei ricordi più belli della mia vita.

Al minuto ’09:05′ del video Lo-fi vedo sorgere l’alba. La cittadina è completamente addormentata. I lampioni rischiarano la fitta nebbia che avvolge quel posto tanto simile a Silent Hill. Il signor custode mi saluta e io ricambio. Apro la finestra dall’altro lato della biblioteca e il profumo dell’erba tagliata bagnata dalla pioggia mi sveglia più della Monster.

Tutto questo è successo più di tre anni fa sullo sfondo musicale del genere Lo-fi. Ogni volta che la ascolto ripenso a quella notte e a quel periodo fatto di solitudine e riflessioni. Quanto mi manca.

Yare yare. Perché apprezzo veramente qualcosa solo quando non ce l’ho più?

Non che questo abbia importanza. Fino a quando avrò una lattina di Monster, un foglio bianco e musica riuscirò sempre a vedere un’alba magnifica.