Stavo guardando il primo episodio di Oshi no ko per l’ennesima volta. La trama è molto semplice: un medico e la sua paziente, malata di cancro, perdono la vita e vengono reincarnati nei figli della loro pop idol preferita, Ai Oshino. Fin da subito ho adorato il tono comico e spensiarato del primo episodio (dura poco più di un’ora) che tuttavia non si fa problemi ad assumere contorni più drammatici e profondi. Il personaggio di Ruby Oshino, l’ex paziente malata di cancro e ora figlia di Ai, è tra quelli che mi ha colpito di più.
La carismatica Ai
La vita davvero non è uguale per tutti e lei lo ha potuto sperimentare in prima persona. La sua esistenza era scandita da giornate monotone in un lettino d’ospedale senza possibilità di fare granchè. I genitori l’avevano abbandonata e la sua unica luce era vedere alla tv le gesta dell’idol preferita. Una vita grigia senza troppo spazio per i sogni e per la speranza. E alla sua morte si ritrova ad essere la figlia dell’idol che tanto amava: senza malattie, bellissima e piena di talento con i contatti giusti sin dalla nascita. L’unica pecca? I ricordi della vita precedente pieni di traumi e rimpianto.
Un discorso analogo può essere fatto anche per il dottore reincarnato in Aquamarine Hoshino. Una vita sicuramente meno tragica della sua paziente ma comunque priva di avvenimenti degni di nota e, anche lui, ossessionato dalla luce di talento e bellezza di Ai Oshino, la quale può essere ammirata solo da lontano.
E quando muore e si ritrova a rivivere la vita con un’altra mano di carte… che dire: le cose cambiano. Lui stesso ha detto: “Sono quasi grato al tizio che mi ha ucciso”. Ora ha la possibilità di vivere seriamente. Immaginate una early start nella vita così: infanzia (possibilmente) senza traumi, figli di una star, intelligenza, carisma, migliore educazione e soldi.
Ci è sempre stato insegnato che tutto è possibile e basta impegnarsi per avere successo. Ma se non fosse così? Se tutto fosse prestabilito dai nostri geni? È innegabile che ci siano fattori genetici, che non possono essere cambiati in alcun modo, che facilitano la vita di molti individui e ne distruggano altre. Parlo di malattie ma anche di bellezza, intelligenza, talento, fisico e così via. Credo sia nella natura umana fantasticare su cosa significhi avere il massimo in tutte queste cose. Purtroppo non esiste la reincarnazione, o meglio non ci è dato saperlo, ma la consapevolezza che dopo la nostra vita presente si possa nascondere un’altra completamente al di fuori della nostra portata (come un terno a lotto o governata dal karma) mi riempie di fascino.
Purtroppo non sta a noi decidere gli elementi con cui veniamo al mondo ma la vera grandezza sta con come ci giochiamo la nostra mano. Non lo so… solo i miei pensieri dopo aver visto questa piccola perla. Ovviamente la trama non ruota (solo) intorno a questo. I personaggi hanno una caratterizzazione unica e i disegni sono superiori di molti che ho trovato al Louvre. Una storia meravigliosa, fresca che non ha paura di spaziare dal comico al tragico, con temi a me cari come abbandonarsi il passato alle spalle (letteralmente), vendetta e esplorare il proprio spirito di affermazione sullo sfondo dello showbusiness giapponese.
“Non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma, di una combustione incompleta. Anche se solo per un secondo… voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante! E poi.. quello che resta è solo cenere bianchissima… nessun residuo… solo cenere bianca.”
Joe Yabuki è un 15enne che ha vissuto passando da un orfanotrofio all’altro e vagabondando solo come un cane. Attraversando una Tokyo ancora scossa dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, Joe si imbatte in Dampei Tange, un ex pugile e allenatore di boxe con un occhio solo con problemi di alcolismo che non riesce a smettere di pensare alle vecchie glorie dello sport.
Dampei vede in Joe un potenziale campione del pugilato ma quest’ultimo non è interessato a combinare alcunché nella vita e vuole solo sopravvivere. I due si scannano subito di botte per un futile motivo e Joe ha la meglio. Ciò non fa che accrescere l’interesse di Dampei Tange per il giovane Yabuki… questo e il fatto che il ragazzino ha preso a pugni da solo un’intera comitiva di yakuza.
Joe, dopo i continui tentavi del vecchio, accetta la proposta di Dampei di diventare suo allievo e imparare le basi della boxe. Ma questo non è che un trucco: in realtà Joe vuole solo sfruttarlo e scroccare vitto e alloggio, approfittandosi della buona fede del vecchio, il quale smette di bere e si mette a fare due lavori per crescere il suo nuovo pupillo. Joe, nel frattempo, finge di allenarsi e fonda una banda con i bambini poveri del quartiere che usa per compiere vari furti e truffe.
Ed è proprio una di queste truffe che lo porterà in riformatorio, dove farà la conoscenza di Rikiishi, giovane prodigio della boxe, che accenderà in Joe il fuoco dell’agonismo. Sulla base di queste premesse che inizia il viaggio immortale che accompagna Joe da trovatello senza scrupoli e morali a leggenda immortale della boxe che è pronto a morire pur di “bruciare con una fiamma rossa e accecante”.
Il manga ha avuto inizio dal 1968 e ha visto la conclusione nel 1973. Scritto da Asao Takamori (pseudonimo di Ikki Kajiwara) e disegnato da Tetsuya Chiba. La storia ha voluto illustrare una vicenda cruda, cupa e ruvida in cui viene mostrato che anche le persone con un passato turbolento come Joe possono ritrovare un riscatto grazie all’impegno, la costanza e la speranza di un domani migliore (non a caso le lezioni di Dampei per corrispondenza mentre Joe è in riformatorio si chiamano “per il domani”).
Tutti hanno diritto ad un futuro a dispetto delle condizioni sociali da cui siamo nati. La consapevolezza che magari, anche se non si vince, si può comunque avere la soddisfazione di aver dato tutti noi stessi per un obiettivo più grande. Joe rappresenta la massa, i perdenti, che non hanno voce in capitolo e che vengono pestati a sangue forse anche più dello stesso Joe nella storia: l’uomo comune che trova la forza per reagire.
Il manga è diventato così influente da diventare un simbolo per le rivolte studentesche giapponesi del 1968. Ma c’è di più: il potere della finzione è diventato così potente che quando nel marzo 1970 uscì il numero del manga in cui muore un personaggio particolarmente apprezzato, i lettori organizzarono un vero funerale per rendergli omaggio. Il messaggio del manga è profondo quanto spietato: è vero, non arrendersi mai può portare a enormi soddisfazioni, ma anche a orribili finali e, forse, anche alla morte. Un’opera che descrive spietatamente lo stato del Giappone del dopo guerra che cerca di rialzarsi dopo gli eventi traumatici subiti (e inferti).
Il ring di Joe diventa un luogo sacro in cui tutti, almeno per 20 round, sono uguali e il passato non ha importanza. D’altronde quando ci possono essere differenze con il nostro avversario se siamo su un quadrato ricoperti di sangue e sudore insieme a lui? Tutto si annulla: desiderio di ricchezza, di fama, di gloria e di amore. Resta solo il presente. Pochi minuti in cui si dà il tutto per il tutto e si può solo bruciare come una fiamma.
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Ho iniziato a leggere Tokyo Revengers in piena pandemia, periodo che ha coinciso con l’ultimo anno dell’Università che frequentavo in Galles. Non è stato un momento particolarmente felice per me. Ero rimasto l’unico studente nella casa in cui vivevo. Tutti i miei amici, due per la precisione, erano tornati dalla loro famiglia. E io ero rimasto completamente solo: il mio unico contatto umano era con la cassiera del supermercato Morrison del quartiere.
Sarei potuto tornare in Italia anche io ma non ho mai provato amore nel posto in cui ho passato la mia infanzia e adolescenza. A quel tempo, la solitudine mi logorava e aveva trovato il modo di farlo anche in Galles. In quel periodo, tutti i traumi subiti all’epoca avevano cominciato a riempire i vuoti corridoi della mia mente. Quando sei completamente solo e senza svaghi sei quasi costretto ad affrontare ciò che non hai risolto nella tua vita. Ed ecco perciò che avevo preso l’abitudine di scrivere su due diario: uno per il presente ed uno per il passato.
Nel diario del passato volevo scrivere e rivivere con più nitidezza e dettagli possibili i ricordi che mi tormentavano (forse non proprio una strategia vincente); nel diario del presente volevo focalizzarmi sui progetti futuri, sullo stato d’animo del momento e cercare di capire come gli eventi della mia storia abbiano plasmato il mio essere. Lo so: non avevo davvero un cazzo di meglio da fare.
Ma questo esercizio mi si è dimostrato piuttosto utile e, dopo una settimana o giù di lì, ho capito una cosa: il me stesso del diario del presente era una diretta conseguenza di quello del passato. Ho vissuto, almeno la prima parte della mia vita (1-18 anni) quasi come uno spettatore, una vittima degli eventi, senza aver anche solo pensato di essere nella cabina di comando. Quello è stato il periodo più difficile da mettere su carta. A volte non riuscivo a trovare le parole giuste. A volte smettevo di scrivere e facevo 100 piegamenti a terra.
Takemichi, protagonista di Tokyo Revengers, viene massacrato (adesso spiego tutto…)
Inutile dire che non sia stato un bel periodo. Dopo i 18 anni e il mio trasferimento a Londra le cose sono andate meglio. Non ho nulla da rimproverarmi. In quel momento ho iniziato davvero la mia vita, che ha subito un piccolo arresto a 23 anni, e che è ricominciata a pieno regime subito dopo. Anche adesso che ho 26 anni la vita non è male e ci sono più alti che bassi.
L’unico pensiero che avevo dopo aver completato quel piccolo diario del passato è stato solo uno: “vorrei tornare indietro nel tempo”. A volte lo penso ancora. Avrei voluto agire di più, fare scelte differenti e avere ricordi più belli. Purtroppo tutto ciò non è possibile: non si può cambiare il passato.
Takemichi di Tokyo Revengers non si regola e diventa uno dei protagonisti più iconici degli shonen
Il tempo è una freccia che va solo in avanti. Tutto questo giro di parole per dire che la storia di Takemichi Hanagaki di Tokyo Revengers è subito risuonata con le mie esperienze e con una delle mie fantasie più grandi: cambiare il passato. E ora andiamo direttamente alla trama: Takemichi è un 26enne sfigato con un lavoro che disprezza e un’esistenza alquanto effimera. Un giorno, alla televisione, scopre che la sua fidanzata delle medie, Hinata Tachibana, è morta durante un attentato della Tokyo Manji Gang, un’associazione criminale del fitto sottobosco malavitoso di Tokyo che si era formata proprio nel periodo in cui lui frequentava la scuola.
Takemichi che non si arrende dopo essere stato gonfiato di botte da mezza Tokyo
Dopo essere stato spinto contro un treno in corsa alla stazione, Takemichi scopre di non essere morto ma bensì di essere tornato nel passato, per la precisione al periodo delle medie in cui bazzicava con una gang di aspiranti teppisti a 13 anni. E, come in un film, ricorda tutto ciò che accaduto: I suoi continui scontri con le altre gang e la sua completa sottomissione da parte di un gruppo di bulli più grandi che ha minato completamente la sua autostima.
Tuttavia, adesso, forse, c’è un modo per rimediare ad una vita di soprusi e tristezza. Takemichi scoprirà di avere il potere di tornare indietro nel tempo grazie al contatto fisico con Naoto Tachibana, fratello di Hinata, che nel presente è un poliziotto con il desderio di salvare la sorella, ex fidanzata di Takemichi, dalla morte per mano della Tokyo Manji Gang.
Takemichi ha adesso una seconda possibilità nella sua vita: salvare la ragazza che ama e cambiare la personalità inetta che ha costruito negli anni. Ma salvare Hinata non sarà così semplice. Takemichi ripercorrerà le tappe salienti che hanno reso la Tokyo Manji Gang una delle organizzazioni criminali più forti e crudeli di sempre e lo farà dagli inizi: dalla creazione della gang fin dagli anni delle medie. Dovrà destreggiarsi tra risse, violenza e soprusi per salvare la sua ragazza e costruirsi un nuovo domani.
Ed ecco che inizia la storia di Takemichi: da vittima di bullismo a membro di una organizzazione criminale. Un uomo di 26 anni che vive nel corpo di un tredicenne che ha l’occasione che tutti almeno una volta nella vita abbiamo disperatamente cercato: cambiare il passato. Le premesse dei primi volumi sono fantastiche. I personaggi sono spettacolari: dal capo della Tokyo Manji Gang, Manjirō Sano, con il sogno di costruire una nuova era della malavita, fino a passare al suo braccio destro, Draken e per finire con i componenti secondari delle altre bande. L’abilità di disegno del mangaka Ken Wakui è seconda solo al suo sublime intreccio narrativo.
Tuttavia, nel corso dei volumi, la storia comincia a perdere la sua grinta, fino ad arrivare ad uno dei finali più scontati della storia della narrativa. Ma la prima parte, soprattutto per chi, come il sottoscritto, è ossessionato dalla criminalità e dai viaggi nel tempo, rasenta il capolavoro che illustra uno spaccato (seppure tutt’altro che realistico) della delinquenza giovanile giapponese. Vedere l’ossessione, la voglia di rivalsa e la perseveranza di Takemichi mi hanno commosso.
Scontro tra gang per stabilire chi è il più forte: Mobius vs Toman Manji Gang
Tutti possono cambiare e non è mai troppo tardi. Dubito che molti di noi avranno il lusso di tornare indietro nel tempo. Tuttavia, possiamo imparare dal passato e vivere un presente migliore. Come voto oggettivo questo manga rasenta a malapena il 7 e mezzo, ma da un punto di vista personale non posso fare altro che dargli un 9 e mezzo. Grazie per la bellissima storia, Ken Wakui.
Cultura bosozoku
Ultima considerazione: lo stesso Ken Wakui faceva parte di una gang durante la sua giovinezza ed è stata l’ispirazione per la Tokyo Manji Gang. Per la precisione, nel manga si parla della cultura bosozoku: una sottocultura giovanile giapponese collegata alla customizzazione di motociclette che era talmente violenta da far talvolta invidia alla Yakuza. I primi bosozoku erano ex-veterani di guerra che non riuscivano ad accettare la perdita del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale e che sfrecciavano ad alta velocità con le moto nelle strade nipponiche. Le bande bosozoku sono diventate famose negli anni ’80 ed erano composte da liceali ribelli.
I bosozoku sono stati protagonisti di numerosi manga e film. Tra i più celebri: Akira, Shonan Jonai Gumi e Tokyo Revengers. In Occidente possiamo paragonare opere come Sons of Anarchy e The Bikeriders.
Ieri mi sono recuperato i primi quattro volumi di Slam Dunk di Takehiko Inoue. È passato più di un anno da quando ho visto The First Slam Dunk, un piccolo e meraviglioso gioiello cinematografico, e mi ero ripromesso di leggere il manga. Il protagonista è Hanamichi Sakuragi, una matricola del liceo a capo di un piccolo squadrone di teppisti con l’incredibile record di essere stato rifiutato da 50 ragazze ai tempi delle medie.
Nel primo capitolo fa la conoscenza di Haruko, una ragazza innamorata del basket che vede nel fisico possente di Sakuragi un forte potenziale per lo sport. Ovviamente Sakuragi non è minimamente interessato alla pallacanestro, ma decide di iscriversi al club di basket del liceo proprio per fare colpo sulla bella Haruko.
Lo Shohoku in azione
Così inizia l’avventura di Sakuragi, giovane teppista dal pugno di ferro ma dal cuore tenero, nel mondo del basket amatoriale tra amori non corrisposti, amicizie, risse e risate. Nonostante abbia letto solo i primi quattro volumi ho subito adorato l’atmosfera leggera e irriverente del manga (anche se mi aspetto profondi cambiamenti di trama tragici considerando il film) e non ho potuto fare a meno di paragonare i miei giorni al liceo a quelli di Sakuragi e la sua truppa di adorabili teppisti e il mio presente.
Ad essere sincero, non ho potuto neanche fare a meno di provare un leggero senso di invidia e, forse, di disperazione. Il liceo è stato un periodo che forse non definirei negativo ma di certo tutt’altro che positivo.
Non mi sono accadute tragedie ma neanche esperienze da ricordare. È stato un limbo: cinque anni della mia vita che non torneranno indietro e che, un po’ per circostanze esterne a me, non ho saputo sfruttare al meglio. Niente esperienze come al liceo Shohoku di Sakuragi, poche risate e ben poca nostalgia. All’università (e soprattutto adesso) è andata (e sta andando) sicuramente meglio ma gli anni del liceo (per quanto grigi e incolori) mi perseguitano ancora.
Ma, a volte, mi chiedo come sarebbe tornare indietro nel tempo e non avere troppi pensieri per la testa come adesso, focalizzandosi interamente sul presente e non pensando al futuro… come al versamento dei contributi pensionistici obbligatori (non sia mai che si abbia potere decisionale sul proprio guadagno…).
Nulla mi vieta di pensare alle ragazze e spaccarmi nello sport come i ragazzi di Slam Dunk, ma devo ammettere che non è la stessa cosa. Quel treno del liceo è passato e non tornerà mai più. Ma questo non significa che non possa passare un treno migliore, cosa che fortunatamente è successa. Mancano ancora molti volumi alla fine di Slam Dunk, ma non posso fare a meno già da ora di ringraziare i ragazzi dello Shohoku per aver condiviso con me una nuova versione di un periodo della mia vita non troppo felice. Non male come riflessione delle 5 del mattino.
In chiusura: mi sto davvero appassionando al genere bosozoku, fenomeno sociale che ha visto come protagonisti giovani teppisti a cavallo di moto che hanno raggiunto l’apice tra gli anni ’70 e ’90. Come è possibile immaginare, questo tema è davvero popolare nei manga: a chi non piace immedesimarsi in ribelli con un codice morale tutto loro che utilizzano la potenza dei loro pugni per portare la pace? Basti pensare al successo di Tokyo Revengers e Akira. Se qualcuno mi legge, sarei aperto a suggerimenti per manga e film e ampliare la mia conoscenza al riguardo.
Uno dei miei posti preferiti a Milano è lo Starbucks Reserve a Cordusio. Non è uno Starbucks normale bensì una via di mezzo tra una caffetteria e una torrefazione dove poter osservare la lavorazione del caffè mentre si beve una miscela scelta di prim’ordine. Non è il genere di posto che avrei scoperto da solo e per questo devo ringraziare il mio lavoro che mi ci ha indirizzato per farci un pezzo di cronaca.
E se c’è una cosa che adoro associare al caffè, questo è il lo-fi (sta diventando un blog tematico, eh?). Stringere tra le mani una tazza fumante ascoltando playlist come questa è un rituale che mi concedo ogni domenica. Sarebbe un paradiso in terra se non fosse per tutti i clienti, ma incontrare persone è un rischio piuttosto alto quando ci si reca da un marchio del genere. Sarebbe un po’ come lamentarsi della fila al McDonald.
Comunque sia, in questo particolare giorno, con le cuffie che risuonano le intramontabili sigle di Dragonball in versione giapponese, ripenso all’infanzia e di quanto fossi simile a Goku da bambino: senza pensieri, allegro, combattivo e pieno d’energia.
Non faccio a meno di pensare: qualcosa deve essere andato storto. Non ho una brutta vita. Sarei persino sul punto di dire che mi piace l’equilibrio che mi sono creato. Tuttavia, non riesco a smettere di avere la sensazione di vivere al di sotto delle mie potenzialità: un qualcosa che avevo da ragazzino e che, trauma dopo trauma, imbastito con un po’ di solitudine che sta bene con tutto, potrebbe non tornare mai più.
Ho provato molte cose: boxe, buttarmi sul lavoro, coltivare hobby, amicizie, rapporti e così via. Mi ci sono impegnato davvero molto (ancora adesso tutte queste attività occupano una gran parte del mio tempo) e la mia vita è migliorata esponenzialmente. Ma questa sensazione rimane. Saltare anche un allenamento, trascurare anche solo per un’ora i miei progetti e piccoli set back che accadono di tanto in tanto mi portano inevitabilmente a ricordare brutti momenti della mia vita che avrei potuto evitare se fossi stato solo un po’ più forte, intelligente e capace. Mi domando quanto ancora possa punirmi per gli sbagli che ho fatto al liceo. Sono passati ormai 8 anni e uso ancora quella roba come motivazione. Mi fa sopravvivere ma, al tempo stesso, mi consuma. Sono più presente nel passato che nel presente (ahah).
Ciò mi riporta a una frase di Godor, fabbro di Berserk: “L’odio è uno di quei luoghi in cui la gente che non riesce ad affrontare la tristezza cerca asilo. Vendicarsi è come affilare una lama arrugginita dal sangue immergendola in un lago sempre di sangue. Per riparare la lama del tuo cuore arrugginita dalla tristezza, la stai inabissando nel sangue. Ma più l’affili, più si arrugginisce. E più si arrugginisce, più l’affili. Alla fine rimarrai solo con un pugno di ruggine”.
Non nutro odio e non ho certo desideri di vendetta ma sento comunque che rivivere ogni giorno quei ricordi mi stia arrugginendo. Forse credo che mi motivino ma, più probabilmente, mi stanno solo consumando lentamente. In un certo senso sono grato di aver vissuto quelle esperienze negative. Sono convinto che chi ha visto il lato negativo della vita possa anche riuscire a vederne quello più bello. Questo però richiede molto lavoro, impegno e anche una certa dose di illusione.
È uno dei motivi per cui mi è sempre piaciuto Goku: lui crede sempre di potercela fare e sconfiggere il prossimo avversario. Non brilla di certo di intelligenza e a volte avrebbe fatto meglio a scappare (fortuna che ci sono le sfere del drago) ma la sua caparbietà lo ha portato a diventare letteralmente un Dio. Non a caso molti protagonisti shonen sono così poco competenti all’inizio. Anche Naruto e Luffy sono costruiti su questo modello: si tratta essenzialmente dei perdenti dal cuore d’oro accumunati però dal desiderio di diventare sempre più forti. Non sarebbe male se fossi più simile a loro. Detto questo, come accennato prima, in questi anni la mia vita è migliorata e questo, già di sé, è una piccola vittoria.
La mia ultima visione di Evangelion risale a quasi tre anni fa. Non ricordo alla perfezione i dettagli, la storia e i riferimenti esoterici e biblici. La cosa che mi è rimasta più impressa, oltre alla mia amata waifu Rei Ayanami, è stato il protagonista Shinji Ikari: un eterno indeciso, introverso, schivo e con un principio di asocialità. Shinji rappresenta l’otaku medio giapponese che sfugge dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia. Come biasimarlo? Shinji è un quattordicenne abbandonato dal padre poiché considerato “inutile”. La morte della madre non ha di certo aiutato nella costruzione del suo carattere. Essere moralmente obbligato a pilotare quello che è all’apparenza un robot e avere il destino dell’umanità sulle spalle sarebbe troppo per tutti.
Non starò qui a parlare dell’affascinante quanto complessa trama di Evangelion, della splendida caratterizzazione psicologica dei personaggi, delle metafore e delle splendide animazioni. Ci vorrebbe un blog a tema o una serie di dieci video su youtube da un’ora ciascuno. Parlerò solo di due dei personaggi fittizi che amo di più in assoluto: Shinji Ikari e Guts. Non potevo scegliere due persone più differenti.
Ho sempre avuto molto in comune con Shinji sin da quando ero un bambino. Ho evitato, ed evito tutt’ora, di intrattenere relazioni sociali oltre lo stretto necessario. La folla mi mette a disagio. Vado al cinema da solo. Vado in palestra da solo. Scrivo da solo. Ho sempre pensato a ciò come un motivo di grade orgoglio. Mi piace la solitudine e preferisco starmene per conto mio. Non la vivo male come cosa. Ho un paio di amici e una ragazza. Sto a posto da quel punto di vista. O almeno così credevo.
Un paio di eventi mi hanno costretto a riconsiderare tutto ciò. Spinto dall’idea del successo, del guadagno, ho scelto di iscrivermi a un corso per imparare i concetti di compra-vendita e diventare un broker. L’immagine che avevo in mente (Leonardo Di Caprio su uno yacht che lancia soldi ai federali come in The Wolf of Wall Street) non era molto calzante con la realtà che mi si presentava davanti: un ufficio pieno di persone che cerca di convincere sconosciuti al telefono per comprare i propri pacchetti azionari.
Più di un problema
Le lezioni erano utili e motivanti. L’ufficio, al contrario, era soffocante. Non ero abituato a stare a contatto con troppe persone. Il solo atto di scegliere le persone dalle pagine gialle per rifilargli un discorso imparato a memoria mi dava dolore fisico. Small talk con i colleghi? Fantascienza. Da lì ho cominciato a sospettare di avere qualche problema. Un problema che mi trascino sin dall’infanzia e che non ho mai avuto modo di risolvere: il contatto umano. Questo è accaduto un anno fa. Ora ho un lavoro in una branca che mi piace e che, soprattutto, si svolge in smart working da remoto. Posso mascherarlo quanto voglio ma, un giorno, tornerà a perseguitarmi. Sono grato di aver lasciato quel posto. Ma sono anche grato dalle conclusioni che ne ho tratto.
E questo ci porta a Guts. Il guerriero nero (una figura chiave in queste pagine) è probabilmente l’antitesi di Shinji. Anche lui marchiato da traumi infantili, ben peggiori di quelli Shinji, ha trovato nella resilienza e nella forza di carattere il modo per sopravvivere, affrontando ogni sfida che gli si pari davanti. Non importa quanto essa possa sembrare impossibile (e alcune lo sono veramente): Guts applica i principi della leadership tanto cara agli imprenditori e sceglie di andare contro la corrente del destino per raggiungere il suo lieto fine. Guts è forse una delle figure a cui mi sono ispirato di più in questi anni per la crescita personale. Ma andare in palestra e conciliarla con il proprio lavoro non è abbastanza per svilupparsi come individuo.
Non è neanche lontanamente abbastanza.
Come Shinji, anche io decido di privarmi delle interazioni sociali per paura di farmi del male. Se ti privi di tutto, in fin dei conti, non ti succede nulla: non c’è dolore ma neanche crescita. Ma questo è un approccio completamente sbagliato che non porta a nulla se non ad avere rimpianti. E ciò non si riflette solo sui rapporti sociali ma anche sui propri obiettivi. Fortunatamente ho ritrovato una mia routine e sono di nuovo al lavoro. Non intendo il mio lavoro principale ma quello che mi porterà alla vita che voglio veramente. Tutto sommato, sono fiducioso. Sono sulla strada giusta e il tempo è dalla mia parte. Sono ancora in tempo per diventare Nathan Drake.
Questo anime mi è stato raccomandato da un amico (e con ‘amico’ intendo una persona anonima in un forum in cui non sono neanche iscritto) che definiva questo anime come il nuovo Death Note. Dopo aver visto tutte e dodici gli episodi in una notte, posso confermare che non è affatto vero. Si… ci sono dei giochi mentali. Si… i protagonisti non sono maggiorenni e sono dei geni (come nel novanta percento degli anime). Non che abbia troppo in comune con Death Note eccetto, forse, la qualità della scrittura.
Tipici eroi di un anime: poco più alti di un metro, minorenni e geni psicopatici
La premessa dell’anime è fantastica: ci troviamo in un allegro orfanotrofio dove bambini dai primi mesi fino a dodici anni convivono pacificamente. L’atmosfera è idilliaca: tutti sono amici di tutti, la loro educazione si svolge nelle mura dell’orfanotrofio e i bambini hanno tanto libero per giocare all’aperto e per fare amicizia. Sono cresciuti da ‘Mamma’, una tutrice fantastica che pensa solo al benessere dei bambini. In questo scenario, conosciamo i tre bambini più grandi: Norman, Emma (si… è una ragazza, quella al centro) e Ray. I tre spiccano subito nella folla dei bambini per via delle loro personalità e abilità:
-Norman è un bambino prodigio che riesce a risolvere ogni genere di enigma. Dallo spiccato quoziente intellettivo e dal carattere pacato, Norman è il genere di bambino a cui non sfugge nulla. Il suo fisico gracile, tuttavia, gli impedisce di essere riconosciuto come atleta.
-Emma, oltre ad essere una versione femminile di Melodias, ha una personalità estroversa ed esuberante. Ottime doti intellettive e atletiche. Il suo principale difetto è quello di essere troppo ingenua.
-Ray, lo stratega che assomiglia vagamente a Sasuke. Ray potrebbe essere considerato come un mix tra Emma e Norman: un piccolo genio con una grande resistenza al lavoro fisico. Bravo negli scacchi, e nella costruzione di nuovi oggetti Ray è probabilmente il più attivo dei tre.
Uniti da una grande amicizia, i tre sono quasi sempre insieme. Un giorno molto triste per l’orfanotrofio Grace Field: Connie, una bambina di sei anni, deve lasciare la casa. Finalmente è stata adottata. Quando ‘Mamma’ accompagna Connie al cancello dell’orfanotrofio, Emma e Norman si accorgono con errore che Emma ha dimenticato ‘Little Bunny’ (il suo giocattolo preferito) all’interno dell’orfanotrofio. Emma e Norman corrono per consegnare Little Bunny a Connie. Varcano il cancello e trovano un furgone. Confusi, i due cercano Connie per consegnare Little Bunny. Incuriositi dal furgone, i due guardano dentro solo per trovare il cadavere di Connie.
Beh… non è più così importante consegnarle ‘Little Bunny’, no? Emma e Norman si nascondono sotto il furgone quando sentono dei rumori sinistri. Vedono la loro ‘mamma’ parlare con dei mostri (che i bambini chiameranno demoni). Capiscono che l’orfanotrofio è una copertura: ‘mamma’ ha il solo compito di allevare i bambini per darli in pasto ai mostri. Emma e Norman scappano senza essere visti ma lasciano ‘Little Bunny’ dietro di loro. Adesso ‘Mamma’ sa che qualcuno dei bambini dell’orfanotrofio (o per meglio dire dell’allevamento) sa del segreto ma non sa di chi si tratta. I bambini, d’altro canto, decidono di non divulgare l’informazione a tutti: d’altronde ‘Mamma’ è molto amata e non tutti crederebbero a questo scioccante plot-twist. Norman ed Emma rivelano il segreto a Rey e, insieme, troveranno un modo per scappare senza però rivelare a ‘Mamma’ che loro sanno di essere semplice mangime. Molti giochi mentali (da qui posso capire il paragone con Death Note) e molta ansia in un anime che mischia generi diversi tra cui: horror, distopia, mistero, fantasy e gore. Molte domande. Ottima prima stagione.
Sto leggendo il seguito del manga (sono arrivato alla fine dell’arco dedicato a Goldy Pound) e non delude minimamente. Assolutamente consigliato.
Il mio legame con quest’opera non è mai stato così forte come adesso. Le palestre sono chiuse e tutto ciò che mi resta è l’allenamento a corpo libero. Ciò che mi serve è una scheda che faccia lavorare ogni muscolo del corpo. Avrei potuto cercare informazioni su internet OPPURE fare il weeabo e prendere ispirazione dagli anime. Inutile dire che ho scelto l’opzione che tutti avrebbero scelto.
100 piegamenti! 100 crunches! 100 squats e 10 chilometri di corsa! Ma sei impazzito, Saitama? Vuoi che io perda ogni grammo di massa muscolare che ho? E il tuo piano nutrizionale? E gli esercizi per la schiena? E le spalle? Non credo neanche per un secondo che tu riesca a uccidere ogni nemico con un singolo pugno dopo un allenamento così leggero. Tuttavia, non ho molte opzioni al momento e lavorare sul cardio potrebbe essere un’ottima scelta per adesso. Ormai è da due settimane che seguo l’allenamento di Saitama con qualche piccola differenza: 100 sollevamenti alla sbarra e corsa ogni 3 giorni, consumando circa 2200 calorie al giorno. Sarà un buon piano? Non lo so. Non so niente di queste cose. Do per scontato che questo sia meglio che non fare niente. In più, il buon Mike Tyson non aveva il sollevamento pesi nella sua scheda ma faceva solo allenamento a corpo libero. Come Saitama? Quasi: 2000 crunches, 500 push ups, 500 dips e 500 shrugs al giorno. Beh… si vede che anche lui come Saitama voleva scoprire cosa volesse dire essere forti e uccidere una persona con un pugno.
Tuttavia, non è questo il punto. One Punch Man, come si può evincere dal titolo, parla di un uomo, un eroe, che riesce a vincere ogni battaglia con un singolo pugno. Nessun conflitto. Nessun dramma. Ogni volta che compare il prossimo dominatore dell’universo, il buon Saitama compare e gli sferra un pugno. Fine della minaccia. La premessa era estremamente intrigante. Uno dei motivi principali per cui l’ho guardato era per capire come la storia sarebbe proseguita. Voglio dire… negli anime c’è sempre un tizio che si allena duramente per sconfiggere un nemico molto forte. Vince e un altro nemico compare (guarda caso un nemico che è leggermente più forte di quello precedente)… e cosi via. Non mi credete? Guardate la struttura di Dragonball Z:
-I sayan fortissimi arrivano. I guerrieri Z si allenano e i sayan vengono sconfitti!
-Freezer, l’imperatore dell’universo, è la minaccia più terribile che sia mai apparsa. Goku si allena e lo sconfigge.
-Cell è forte. Goku si allena. Gohan lo sconfigge (qualcosa cambia).
-Majin Bu è forte. Tutti si allenano. Goku lo sconfigge.
One Punch Man salta tutto questo dramma per focalizzarsi su altro. Saitama è troppo forte. Si annoia. Ma non è stato sempre così. Non è sempre stato un eroe. Una volta era un impiegato. Dopo essere stato licenziato si rende conto che da bambino non voleva essere un impiegato ma un eroe indistruttibile (il mondo di One Punch Man è sempre sotto attacco di un mostro improbabile).
Tipo questo. Un tizio che è diventato metà granchio perché ne ha mangiati troppi.
Saitama decide allora di dedicarsi anima e corpo nel realizzare il suo sogno e diventare un eroe ‘per divertimento’. Si allena ogni giorno al solo scopo di scoprire il vero significato della parola ‘forza’. Nonostante le persone intorno a lui non vedano di buon occhio i suoi allenamenti, lui riesce a perseverare e grazie alla sua forza di volontà riesce finalmente a ottenere la forza che tanto desidera. Nel post precedente, avevo parlato di meta-racconto: nonostante One Punch Man non possa essere definito come meta-racconto, è interessante notare come la vita del creatore della serie abbia numerosi punti in comune con il personaggio Saitama.
Il creatore della serie (ONE… no serio, si chiama così) pubblicò i primi disegni del web manga sul suo blog e non ottennero molto successo. Alcune persone gli consigliarono di lasciar perdere. Tuttavia, il disegnatore Yusuke Muruta fu impressionato dallo humor della storia e decise di entrare in partnership con One: Murata avrebbe disegnato e One avrebbe creato la storia.
A destra: il disegno originario di One. A sinistra: una squallida imitazione.
Il punto, secondo me, è che One si sente vicino al suo personaggio: entrambi hanno delle capacità in quello che fanno; entrambi sono anche sottovalutati dal loro pubblico. Nell’avanzare della storia, Saitama prenderà sul personale il fatto che non è conosciuto. Nonostante faccia l’eroe da quasi tre anni (e sia il più forte) nessuno riconosce il suo valore. Saitama dice più e più volte di fare l’eroe per divertimento e che non ha bisogno di approvazioni… Tuttavia, non è quello che diciamo tutti? Anche io dico di scrivere per divertimento (altrimenti non lo farei) ma essere riconosciuto per ciò che si fa è sempre una grande fonte di soddisfazione. Stessa cosa per tutte le altre passioni. Saitama è già forte: non è questo il dramma del suo personaggio (qualcosa che io non posso dire per me stesso) ma vuole essere riconosciuto come eroe esattamente come One voleva essere riconosciuto come artista. Entrambi sono riusciti nel loro intento, infondendo speranza a persone come me. Il punto di entrambi è che con la giusta determinazione e duro allenamento ognuno può raggiungere quello che vuole.
Questo ci porta alla teoria delle diecimila ore: lo psicologo Anders Ericsson illustrò la teoria secondo la quale ognuno può raggiungere il successo sfruttando diecimila ore di lavoro in un singolo campo. Ad esempio anche una persona negata per la cucina come me, secondo la teoria, potrebbe diventare il prossimo Gordon Ramsey. Recentemente questa teoria è stata in parte smentita. L’idea è che la parte della perseveranza e della quantità di tempo non è sbagliata, ma la qualità è un altro fattore da non sottovalutare. Se io mi allenassi a tirare un gancio per dieci ore e lo facessi in modo sbagliato per tutte e dieci le ore, non avrei imparato nulla se non la tecnica sbagliata. Work smarterdon’t work harder, come dice… Vegeta? Non lo so. Comunque mi pare che questo sia un consiglio prezioso.
E del talento, allora? Cosa si dice del talento? Può il duro lavoro battere il talento? Può Rock Lee battere Gaara? Può Midorya essere il nuovo All Might? O questo è solo un leitmotiv degli anime? Non lo so, altrimenti avrei risolto un dilemma che perseguita la comunità scientifica da anni.
Mi sento di citare un aneddoto letto in The seven habits of highly effective people; un libro di crescita personale che consiglio caldamente.
In questa scuola ci sono due classi di bambini: una è considerata la migliore, l’altra è considerata la peggiore. La scuola decide di investire più tempo sulla classe migliore. Però (come spesso accade negli aneddoti) accade qualcosa: c’è un piccolo errore tecnico e il maestro che avrebbe dovuto insegnare nella classe migliore va in quella inferiore e viceversa. Gli alunni vengono trattati in maniera del tutto diversa in entrambi i casi: i bambini della classe peggiore (considerati per sbaglio quelli della classe migliore) ricevono tutti gli elogi e le cure possibili mentre i bambini della classe superiore (considerati per sbaglio quelli della classe peggiore) vengono trascurati e criticati.
Una volta che si sono resi conto dell’errore, i bambini della classe inferiore avevano registrato i voti più alti e quelli della classe superiore quelli più bassi.
Ciò può voler dire molto come le circostanze possano aiutare un talento a svilupparsi come a distruggersi. Il modo migliore per raggiungere un obiettivo sarebbe quello di creare una mentalità forte e non arrendersi. Nonostante sembri una frase fatta, non arrendersi di fronte alle difficoltà può essere un’esperienza positiva per il proprio cervello: anche se non dovessimo raggiungere il successo, potremmo essere sempre in pace con noi stessi per aver dato del nostro meglio. Può non sembrarlo ma mollare è molto più doloroso che proseguire con fatica in una visione a lungo termine. Avete mai pensato se Stephen King, Bukowski, Alì o altri avessero rinunciato lungo la via per il successo? (E tutti loro avevano un buon motivo per farlo).
Mah… sembra che io stia parlando sempre delle stesse cose in circolo. Il punto è che grazie a Saitama mi sento anche io un eroe.
Prima stagione dell’anime consigliata. Mi manca la seconda stagione, ma a giudicare dalle recensioni non è proprio il massimo. Probabile che mi recupererò il manga.
Poche cose in questo mondo mi fanno deprimere come ricordare i miei anni delle medie. Non che io abbia avuto problemi con la scuola, con il bullismo, con i genitori o cose del genere (forse avrei da ridire sui genitori ma il passato è passato). La cosa che mi ricordo più di quel periodo (ad una considerevole distanza temporale di dieci anni) è la noia, il tedio e l’impotenza che scandivano quei giorni. A undici anni non puoi fare nulla se non andare a scuola o praticare uno sport. Il massimo che ti può capitare è passare un paio d’ore di fronte alla televisione per evadere dalla realtà. Magari leggere un libro di tanto in tanto (fu l’epoca in cui scoprì Harry Potter). Ma la routine era sempre quella, mi spiego? Casa, scuola, sport, (far finta di) studiare, dormire e ripetere il tutto. Non capirò mai quelli che sognano di tornare bambini. Ma forse parlo solo per la mia esperienza, ovvero il motivo per cui il manga di cui sto per parlarvi mi ha colpito così tanto.
Partiamo dal titolo che non è dei più rosei. Probabilmente molti di voi sono familiari con ‘I fiori del male’ di Charles Baudelaire e che il manga usa come omaggio. I fiori del male è una raccolta di poesie sui più vari argomenti immorali: morte, sesso, prostituzione, droghe e altre cose del genere. Questa raccolta di poesie è il libro preferito del protagonista di questa storia, Takao Kasuga: studente delle medie e grande appassionato di libri… un giovane personaggio con gusti insoliti, non sta a me giudicare. Comunque sia, un giorno si ritrova in classe da solo dopo l’ora di ginnastica. Nota le borse dei compagni di classe con le tute da ginnastica che hanno indossato prima. Spinto da un attacco di frenesia, Takao ruba i pantaloncini da ginnastica della ragazza per cui ha una cotta. Takao, una volta giunto a casa si pente delle sue azioni e decide di riconsegnare i pantaloncini anonimamente. Il giovane Takao non sa che qualcuno è stato testimone del suo furto. Una ragazza di nome Nakamura.
Nakamura non ha proprio la fama di una studentessa modello: insulta chiunque provi a parlare con lei, non ha rispetto per gli insegnanti e i suoi compagni e preferisce la violenza alle parole. Nakamura promette a Takao di non rivelare alla classe del suo furto, tuttavia, in cambio, lo obbliga a stipulare un ‘contratto’ poichè ha riconosciuto in lui un ‘pervertito’ esattamente come lo è lei stessa. Takao accetta e dal quel momento diventa lo schiavo di Nakamura che lo spingerà a diventare amico della ragazza a cui ha rubato i pantaloncini (Nanako) e a passare ogni singolo momento con lei. Il peso della coscienza di Takao si fa sentire: non riesce a stare accanto a Nanako senza pensare a ciò che le ha fatto. Nakamura porterà Takao alla disperazione fino a quando sentirà l’influenza negativa di Nakamura avere effetto su di lui. Takao dovrà scegliere due vie in un bivio morale: seguire la ragazza perfetta di cui si era innamorato o scegliere la ragazza che lo ha portato sulla via della follia.
Parlare di più di questa opera sarebbe uno spoiler imperdonabile. Aku no Hana ha centrato il punto di quegli anni: la voglia di azione, di conflitto, di confronto in un periodo della vita che molti (forse tutti, forse solo io) definirebbero come arido. La follia di Nakamura provvede un’ottima analisi dell’importanza della salute mentale nei più giovani: la depressione, il senso di impotenza, l’impazienza e i traumi dell’infanzia sono secondi solo a quelli di Neon Genesis Evangelion (un grande complimento, se non si fosse capito). Ma questi temi comprendono solo la prima parte del manga. La seconda parte, invece, darà luce sull’importanza di accettare e lasciarsi il passato alle spalle e focalizzarsi sul futuro. Takao sembra sulla strada giusta… ma Nakamura?
Un manga poco conosciuto ma caldamente consigliato (insieme alla lettura dei ‘Fiori del male’ di Baudelaire per un’esperienza completa).
Eh… la preadolescenza, dico bene? Nonostante i temi totalmente diversi, l’atmosfera del manga mi ha ricordato American Psycho.
Consiglio del senpai: se non avete voglia di fare qualcosa, ascoltare una track a caso di Neon Genesis Evangelion. Risultato? Produttività e voglia di trucidare angeli come se non ci fosse un domani.
Sono passati strani eoni in cui persino la morte è morta (semi-citazione di un certo livello) dall’ultima volta che portai un’analisi di Berserk. Oggi non è il giorno in cui la continuerò (nonostante il nome del blog) ma è successo qualcosa che ha riportato la mia giovane mente alla golden age di Berserk: l’età in cui Guts si alleò (più o meno) con il signore supremo signore dell’universo Griffith e la banda dei falchi. Quel ‘qualcosa che mi è successo’ è la lettura del romanzo Battle Royale di Houshun Takami. Cos’è Battle Royale? Per molti di voi il termine non sarà nuovo (soprattutto per chi ha una certa familiarità con gli spara-tutto). La trama in due parole:
Una classe di ragazzi intorno ai quindici anni viene costretta a partecipare ad un crudele gioco: il governo dell’Asia li ha isolati in una isola deserta e ha donato loro ogni più varia sfumatura di armi. Il loro obiettivo è uccidere i loro compagni. Solo una persona può vincere e guadagnarsi la libertà. Da qui, il termine ‘battle royale’: tutti contro tutti con un solo possibile vincitore.
Dal libro è stato tratto anche un meraviglioso film che ha ricevuto le lodi di Tarantino (ininfluente ma almeno faccio un po di pubblicità dato che non lo conosce nessuno… diciamo che semmai Batttle Royale fa pubblicità al mio blog)
Se la trama vi ricorda qualcosa è perché Hunger Games ha la stessa identica trama (al limite del plagio). Solo che Battle Royale è uscito nel 1999 mentre Hunger Games quasi dieci anni dopo. Ovviamente non sto giudicando. Sono entrambe opere che fanno il loro dovere e scrivere qualcosa di interamente originale al giorno d’oggi è pressoché impossibile. Il motivo per cui la trama è stata riscritta è perché funziona. La premessa è irresistibile; la storia è geniale. Tuttavia non è questo il punto. Ciò che mi ha fatto collegare Battle Royale con l’epoca d’oro di Berserk è il famoso episodio di “uno contro cento”. Per chi ha letto Berserk è quasi impossibile dimenticare questa scena. Guts, il nostro eroe, combatte da solo contro cento soldati per difendere Caska.
Guts (non Gatts… il suo nome cambia di versione in versione) non si regola e combatte per otto ore di fila.
Provate a pensare. Un uomo contro cento persone che vogliono ucciderlo. L’unica speranza che ha per respirare ancora è quella di combattere. Questo è vero anche per i quarantadue bambini che sono costretti a uccidersi a vicenda. Non c’è alcuna nobiltà o poesia nel sopravvivere. Qualcuno (la minoranza) riesce a sopravvivere per vedere l’alba di un nuovo giorno. Ora… quello che sto per scrivere potrebbe risultare un filino drammatico: ma non è così anche oggi? Mi spiego meglio: i requisiti per sopravvivere sono decisamente cambiati con il tempo. Non c’è bisogno di essere ‘fisicamente’ forti per vivere; non c’è bisogno di cacciare o sapersi difendere (nonostante possa tornare utile). Cosa significa essere forti, oggi? Cosa significa riuscire a sopravvivere in una società dove abbiamo accesso a qualsiasi cosa ? (magari non è proprio vero in questi ultimi tempi… ma seguitemi).
Credo che il termine ‘battle royale’ e la frase ‘uno contro cento’ si sposi perfettamente con le nostre vite. Riallacciandomi al discorso del sogno di qualche post fa… quanti riescono veramente ad ottenere ciò che vogliono? Quanti possono dire di essere riusciti a fare ciò che si erano ripromessi? Noi viviamo in costante competizione con persone che neanche conosciamo per raggiungere un obiettivo. Non è la stessa cosa? Non siamo in un ‘battle royale’? Quando entri in un ring ne esci come vincitore o come vinto. Stesso discorso per chi entra in un competizione di qualsiasi genere.
Primo principio: tu sei il padrone delle tue azioni e hai il controllo dei tuoi sentimenti. Secondo: scegli la persona che vuoi diventare Terzo: dai priorità alle cose più importanti per te Quarto: Pensa win/win (sotto) Quinto: Prima ascolta e poi fa in modo di essere ascoltato Sesto: connettiti con le altre persone Settimo: segui i passi precedenti, raggiungi i tuoi obiettivi e lavora duramente. I sette principi in chiave estremamente sintetica.
Tempo fa, ho citato un libro di crescita personale che mi ha aiutato molto a stabilire una routine: “The seven habits of highly effective people”. Uno dei setti principi (‘sette regole per avere successo‘ in italiano… credo che il titolo originale sia un filino più appropriato) recita di pensare win/win. Cosa significa? Pensare di non essere in una competizione. Parlare con il tuo “avversario”, capire le sue paure e i suoi problemi; far capire le tue paure e i tuoi problemi e, insieme, scegliere una soluzione. Covey, lo scrittore del libro, porta numerosi esempi di aziende, di banche, di qualsiasi proprietà (anche di relazioni familiari) che può essere risolta tramite un compromesso che possa soddisfare entrambe le parti. Niente uno contro cento, qui. Solo vincita per entrambe le parti. Questo suona molto bene e ha ragione: il dialogo e un accordo che soddisfi entrambe le parti può essere fantastico. Ma non è il caso quando cerchi di puntare a un obiettivo e avere successo. Qualcuno deve vincere. Qualcuno deve perdere.
Come ho detto prima: entrando in un ring ne esci da vinto o da vincitore. C’è solo bianco e nero senza sfumatura di grigio. Questo vale per il mondo dello sport come per il mondo della scrittura. Solo i forti vincono. Ovviamente, la mia non è una critica. Non sta a me decidere i criteri secondo cui una persona possa essere giudicata forte o meno. Esistono solo i risultati e basta. La prossima volta che criticate qualcuno di famoso che non è bravo nel suo campo (anche io sono colpevole di questo)… ricordatevi che lui ha raggiunto le stelle e noi no (non ancora?)
Io so per certo di combattere una battaglia uno contro cento. Non ho la grinta di Guts ma miro ad essere come lui.
Come sempre questo parallelismo tra manga, letteratura e vita reale mi sta uccidendo. Credo che in futuro mi limiterò a semplici recensioni. Il prossimo post sarà una recensione!
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Non di Neon Genesis Evangelion però. Ho l’impressione di dover vedere questo anime minimo altre cinque volte per capire la trama in tutte le sue sfumature. Per il momento dirò che l’ho adorato.
Top narrativa.
Top trama.
Top simbolismo.
Top waifu.
Ehm… ho detto Top WaifuNon è quella che intendevoPerfezione
Per il momento, Evangelion occupa il terzo posto nella mia classifica anime/manga. Al primo posto immancabile Berserk e al secondo posto Devilman/ Devilman Crybaby.