Aku no Hana (i fiori del male) non si regola e ti farà venire gli incubi

Poche cose in questo mondo mi fanno deprimere come ricordare i miei anni delle medie. Non che io abbia avuto problemi con la scuola, con il bullismo, con i genitori o cose del genere (forse avrei da ridire sui genitori ma il passato è passato). La cosa che mi ricordo più di quel periodo (ad una considerevole distanza temporale di dieci anni) è la noia, il tedio e l’impotenza che scandivano quei giorni. A undici anni non puoi fare nulla se non andare a scuola o praticare uno sport. Il massimo che ti può capitare è passare un paio d’ore di fronte alla televisione per evadere dalla realtà. Magari leggere un libro di tanto in tanto (fu l’epoca in cui scoprì Harry Potter). Ma la routine era sempre quella, mi spiego? Casa, scuola, sport, (far finta di) studiare, dormire e ripetere il tutto. Non capirò mai quelli che sognano di tornare bambini. Ma forse parlo solo per la mia esperienza, ovvero il motivo per cui il manga di cui sto per parlarvi mi ha colpito così tanto.

Partiamo dal titolo che non è dei più rosei. Probabilmente molti di voi sono familiari con ‘I fiori del male’ di Charles Baudelaire e che il manga usa come omaggio. I fiori del male è una raccolta di poesie sui più vari argomenti immorali: morte, sesso, prostituzione, droghe e altre cose del genere. Questa raccolta di poesie è il libro preferito del protagonista di questa storia, Takao Kasuga: studente delle medie e grande appassionato di libri… un giovane personaggio con gusti insoliti, non sta a me giudicare. Comunque sia, un giorno si ritrova in classe da solo dopo l’ora di ginnastica. Nota le borse dei compagni di classe con le tute da ginnastica che hanno indossato prima. Spinto da un attacco di frenesia, Takao ruba i pantaloncini da ginnastica della ragazza per cui ha una cotta. Takao, una volta giunto a casa si pente delle sue azioni e decide di riconsegnare i pantaloncini anonimamente. Il giovane Takao non sa che qualcuno è stato testimone del suo furto. Una ragazza di nome Nakamura.

Nakamura non ha proprio la fama di una studentessa modello: insulta chiunque provi a parlare con lei, non ha rispetto per gli insegnanti e i suoi compagni e preferisce la violenza alle parole. Nakamura promette a Takao di non rivelare alla classe del suo furto, tuttavia, in cambio, lo obbliga a stipulare un ‘contratto’ poichè ha riconosciuto in lui un ‘pervertito’ esattamente come lo è lei stessa. Takao accetta e dal quel momento diventa lo schiavo di Nakamura che lo spingerà a diventare amico della ragazza a cui ha rubato i pantaloncini (Nanako) e a passare ogni singolo momento con lei. Il peso della coscienza di Takao si fa sentire: non riesce a stare accanto a Nanako senza pensare a ciò che le ha fatto. Nakamura porterà Takao alla disperazione fino a quando sentirà l’influenza negativa di Nakamura avere effetto su di lui. Takao dovrà scegliere due vie in un bivio morale: seguire la ragazza perfetta di cui si era innamorato o scegliere la ragazza che lo ha portato sulla via della follia.

Parlare di più di questa opera sarebbe uno spoiler imperdonabile. Aku no Hana ha centrato il punto di quegli anni: la voglia di azione, di conflitto, di confronto in un periodo della vita che molti (forse tutti, forse solo io) definirebbero come arido. La follia di Nakamura provvede un’ottima analisi dell’importanza della salute mentale nei più giovani: la depressione, il senso di impotenza, l’impazienza e i traumi dell’infanzia sono secondi solo a quelli di Neon Genesis Evangelion (un grande complimento, se non si fosse capito). Ma questi temi comprendono solo la prima parte del manga. La seconda parte, invece, darà luce sull’importanza di accettare e lasciarsi il passato alle spalle e focalizzarsi sul futuro. Takao sembra sulla strada giusta… ma Nakamura?

Un manga poco conosciuto ma caldamente consigliato (insieme alla lettura dei ‘Fiori del male’ di Baudelaire per un’esperienza completa).

Eh… la preadolescenza, dico bene? Nonostante i temi totalmente diversi, l’atmosfera del manga mi ha ricordato American Psycho.

Uno contro cento- l’epoca d’oro, Battle Royale e massacri vari

Consiglio del senpai: se non avete voglia di fare qualcosa, ascoltare una track a caso di Neon Genesis Evangelion. Risultato? Produttività e voglia di trucidare angeli come se non ci fosse un domani.

Sono passati strani eoni in cui persino la morte è morta (semi-citazione di un certo livello) dall’ultima volta che portai un’analisi di Berserk. Oggi non è il giorno in cui la continuerò (nonostante il nome del blog) ma è successo qualcosa che ha riportato la mia giovane mente alla golden age di Berserk: l’età in cui Guts si alleò (più o meno) con il signore supremo signore dell’universo Griffith e la banda dei falchi. Quel ‘qualcosa che mi è successo’ è la lettura del romanzo Battle Royale di Houshun Takami. Cos’è Battle Royale? Per molti di voi il termine non sarà nuovo (soprattutto per chi ha una certa familiarità con gli spara-tutto). La trama in due parole:

Una classe di ragazzi intorno ai quindici anni viene costretta a partecipare ad un crudele gioco: il governo dell’Asia li ha isolati in una isola deserta e ha donato loro ogni più varia sfumatura di armi. Il loro obiettivo è uccidere i loro compagni. Solo una persona può vincere e guadagnarsi la libertà. Da qui, il termine ‘battle royale’: tutti contro tutti con un solo possibile vincitore.

Dal libro è stato tratto anche un meraviglioso film che ha ricevuto le lodi di Tarantino (ininfluente ma almeno faccio un po di pubblicità dato che non lo conosce nessuno… diciamo che semmai Batttle Royale fa pubblicità al mio blog)

Se la trama vi ricorda qualcosa è perché Hunger Games ha la stessa identica trama (al limite del plagio). Solo che Battle Royale è uscito nel 1999 mentre Hunger Games quasi dieci anni dopo. Ovviamente non sto giudicando. Sono entrambe opere che fanno il loro dovere e scrivere qualcosa di interamente originale al giorno d’oggi è pressoché impossibile. Il motivo per cui la trama è stata riscritta è perché funziona. La premessa è irresistibile; la storia è geniale. Tuttavia non è questo il punto. Ciò che mi ha fatto collegare Battle Royale con l’epoca d’oro di Berserk è il famoso episodio di “uno contro cento”. Per chi ha letto Berserk è quasi impossibile dimenticare questa scena. Guts, il nostro eroe, combatte da solo contro cento soldati per difendere Caska.

Guts (non Gatts… il suo nome cambia di versione in versione) non si regola e combatte per otto ore di fila.

Provate a pensare. Un uomo contro cento persone che vogliono ucciderlo. L’unica speranza che ha per respirare ancora è quella di combattere. Questo è vero anche per i quarantadue bambini che sono costretti a uccidersi a vicenda. Non c’è alcuna nobiltà o poesia nel sopravvivere. Qualcuno (la minoranza) riesce a sopravvivere per vedere l’alba di un nuovo giorno. Ora… quello che sto per scrivere potrebbe risultare un filino drammatico: ma non è così anche oggi? Mi spiego meglio: i requisiti per sopravvivere sono decisamente cambiati con il tempo. Non c’è bisogno di essere ‘fisicamente’ forti per vivere; non c’è bisogno di cacciare o sapersi difendere (nonostante possa tornare utile). Cosa significa essere forti, oggi? Cosa significa riuscire a sopravvivere in una società dove abbiamo accesso a qualsiasi cosa ? (magari non è proprio vero in questi ultimi tempi… ma seguitemi).

Credo che il termine ‘battle royale’ e la frase ‘uno contro cento’ si sposi perfettamente con le nostre vite. Riallacciandomi al discorso del sogno di qualche post fa… quanti riescono veramente ad ottenere ciò che vogliono? Quanti possono dire di essere riusciti a fare ciò che si erano ripromessi? Noi viviamo in costante competizione con persone che neanche conosciamo per raggiungere un obiettivo. Non è la stessa cosa? Non siamo in un ‘battle royale’? Quando entri in un ring ne esci come vincitore o come vinto. Stesso discorso per chi entra in un competizione di qualsiasi genere.

Primo principio: tu sei il padrone delle tue azioni e hai il controllo dei tuoi sentimenti.
Secondo: scegli la persona che vuoi diventare
Terzo: dai priorità alle cose più importanti per te
Quarto: Pensa win/win (sotto)
Quinto: Prima ascolta e poi fa in modo di essere ascoltato
Sesto: connettiti con le altre persone
Settimo: segui i passi precedenti, raggiungi i tuoi obiettivi e lavora duramente.
I sette principi in chiave estremamente sintetica.

Tempo fa, ho citato un libro di crescita personale che mi ha aiutato molto a stabilire una routine: “The seven habits of highly effective people”. Uno dei setti principi (‘sette regole per avere successo‘ in italiano… credo che il titolo originale sia un filino più appropriato) recita di pensare win/win. Cosa significa? Pensare di non essere in una competizione. Parlare con il tuo “avversario”, capire le sue paure e i suoi problemi; far capire le tue paure e i tuoi problemi e, insieme, scegliere una soluzione. Covey, lo scrittore del libro, porta numerosi esempi di aziende, di banche, di qualsiasi proprietà (anche di relazioni familiari) che può essere risolta tramite un compromesso che possa soddisfare entrambe le parti. Niente uno contro cento, qui. Solo vincita per entrambe le parti. Questo suona molto bene e ha ragione: il dialogo e un accordo che soddisfi entrambe le parti può essere fantastico. Ma non è il caso quando cerchi di puntare a un obiettivo e avere successo. Qualcuno deve vincere. Qualcuno deve perdere.

Come ho detto prima: entrando in un ring ne esci da vinto o da vincitore. C’è solo bianco e nero senza sfumatura di grigio. Questo vale per il mondo dello sport come per il mondo della scrittura. Solo i forti vincono. Ovviamente, la mia non è una critica. Non sta a me decidere i criteri secondo cui una persona possa essere giudicata forte o meno. Esistono solo i risultati e basta. La prossima volta che criticate qualcuno di famoso che non è bravo nel suo campo (anche io sono colpevole di questo)… ricordatevi che lui ha raggiunto le stelle e noi no (non ancora?)

Io so per certo di combattere una battaglia uno contro cento. Non ho la grinta di Guts ma miro ad essere come lui.

Come sempre questo parallelismo tra manga, letteratura e vita reale mi sta uccidendo. Credo che in futuro mi limiterò a semplici recensioni. Il prossimo post sarà una recensione!

Non di Neon Genesis Evangelion però. Ho l’impressione di dover vedere questo anime minimo altre cinque volte per capire la trama in tutte le sue sfumature. Per il momento dirò che l’ho adorato.

Top narrativa.

Top trama.

Top simbolismo.

Top waifu.

Ehm… ho detto Top Waifu
Non è quella che intendevo
Perfezione

Per il momento, Evangelion occupa il terzo posto nella mia classifica anime/manga. Al primo posto immancabile Berserk e al secondo posto Devilman/ Devilman Crybaby.

Training arc- il mio e quello di Tanjiro (breve storia)

Sarà un post estremamente breve. Tutto quel parlare di Goggings mi ha motivato. Mi sono ripromesso di scrivere ogni giorno (dalle 500 alle 1000 parole, se può interessare). Ho una lista quotidiana di cose fare. D’altronde sono obbligato a restare in casa. Tanto vale, mi sono detto, stabilire una routine produttiva da seguire ogni giorno. Molte persone di successo hanno una routine che seguono religiosamente. Ho pensato di provare a farne una tutta per me che comprende i miei interessi, le mie ambizioni e i miei sogni.

Midorya (un quindicenne di 49 chili) segue la simpatica routine di spostare un armadio con sopra All Might (un trentacinquenne di 225 chili). Se non si spezza la schiena acquisterà una gran stamina!

Ecco qui:

-Doccia fredda: E con fredda intendo ghiacciata. Questa è un’abitudine relativamente nuova. L’ho introdotta due mesi fa, ma solo recentemente inizio la giornata con una doccia fredda. Aiuta la circolazione, aumenta il buon umore e, di conseguenza, la produttività durante la giornata. Ne faccio due al giorno.

-Lettura: minimo cinquanta pagine al giorno di un romanzo. Altre trenta pagine di un libro di self-improvement. Il mio obiettivo è quello di leggere almeno un libro a settimana. Per il momento, ci sto riuscendo.

-Studiare: … niente da aggiungere. Minimo indispensabile.

-Scrivere: già citato. Solitamente scrivo in inglese, ma ho deciso di fare un’eccezione per questo blog. Per il resto, la mia ambizione futura riguarda la scrittura (…chissà mai cosa vorrei fare da grande.)

-Allenamento: 100 push-ups! 100 addominali! 100 squat! E 10 chilometri di corsa! Ogni giorno! Il grande Saitama di One Punch Man ha creato questa meravigliosa -ma incompleta- scheda che seguo-quasi-ogni giorno. Non è la stessa cosa di andare in palestra ma si fa quello che si può. L’ultima cosa che faccio durante la giornata. Come ho accennato nel post precedente, mi piace allenarmi di notte in modo che nessuno mi veda. Non vado contro la legge del coronavirus: qui è permesso. Mi piace semplicemente allenarmi da solo.

-Pugilato: Dieci minuti di vuoto. Non è abbastanza ma sono alle prime armi e senza un istruttore temo di fare più danni che altro.

Non c’è altro, a parte, gli anime e i manga che occupano dalle due alle tre ore della mia giornata. Il mio obiettivo è quello di essere il più produttivo possibile, ma soprattutto quello di stabilire un ritmo. Per fare ciò, non devo esagerare dato che miro a seguire una scheda del genere per il resto della mia vita.

Detto questo, chi è Tanjiro? Il protagonista di Demon Slayer, uno dei shonen (manga per ragazzi) più di successo di quest’oggi. Non voglio raccontare la trama (che non è male, ma neanche un capolavoro) dato che devo ancora finire di vederlo. Tuttavia, sono rimasto impressionato dall’allenamento cui il giovane Tanjiro deve sottoporsi per diventare un Demon Slayer… Va bene, dai: Tanjiro vive con la sua famiglia in mezzo alla foresta. Un giorno va in paese per vendere il carbone e quando ritorna trova i suoi familiari brutalmente uccisi da un demone, creature che vivono di notte e si cibano degli umani. L’unica sopravvissuta è la sorellina che si è trasformata in un demone. Tanjiro decide di diventare un cacciatore di demoni sottoponendosi a un allenamento durissimo in modo tale da trovare una cura per la sorella, trasformarla di nuovo in umana e vendicare la sua famiglia. Nonostante io non abbia una storia tragica come questa, anche io mi sto sottoponendo a un duro allenamento come quello di Tanjiro con la speranza di riuscire a diventare un guerriero (cringe, eh?).

Per il momento, ho avuto scarsi risultati. Tuttavia, all’incirca due anni fa, la mia prima storia breve venne pubblicata in una rivista letteraria gallese. Ovviamente, non si tratta di una rivista importante e ben conosciuta. Non ho guadagnato nulla.

Però, vedere la mia storia stampata su un giornale con il mio nome sotto mi fa sempre piacere. Non importa se il mio allenamento non avrà frutti. Non mollerò mai. Perché questo che gli anime insegnano, no? Per citare Baki: “Io voglio conoscere la sconfitta… per il solo motivo di combattere”.

Per chi fosse interessato, eccola qui:

Pathetique

This hanged woman is by far the most beautiful thing I’ve ever seen in my life for the simple fact that she’s not beautiful. Her plump body, covered in pimples, moves slowly at the mercy of the sea breeze, and the branch of the tree she hangs from creaks slightly under her weight. I wish my classmates were like her. 

Silent. Peaceful. Dead. 

I look at her closely. She is ugly – objectively ugly. It makes sense that she’s ugly. After all, why would she have committed suicide if she was beautiful? 

And I know what ‘suicide’ means because my father’s friend did it. He killed himself, I mean. Why? Because he was depressed, which apparently is another way to say ‘unhappy’. And I’m also sure that besides being ugly and sad, he was smart. I think the dead woman hanging in front of me was smart. I’m smart, too, and I often think about death. 

A red butterfly flies over my shoulder and I’m still, and in complete wonder. I have never seen anything like this on television or at school. The noose is tight around her neck, which has now turned blue and dark, and her eyes are open but they don’t look at me. This makes me feel sad because I would like her to look at me. I look at her brown eyes, but they consider the grass beneath her more interesting than me.  

I was uncertain about this little trip of mine as I should be at school right now, but here, in her company, everything changes. I sit on the ground so she can finally look at me in the eyes. I think she is short-sighted though, because I notice a pair of glasses just underneath her fat, half-white-half-blue body. 

I observe the tall, magnificent tree the she hangs from. The tree number is 9030, and I know that because it’s the tree that was assigned to me when I was born. All the trees in the main park of the city are numbered. When you’re born, they give you a tree with a number and a certificate saying that particular tree is now yours. I think that’s something nice. 

I like having something like a tree growing old with me. It’s strange and special, just like me.

I move her glasses with my foot and lie down with my face underneath her body. Its shadow covers all of my head and part of my shoes.

From here I can see her pink panties.

She wears a white skirt which clashes against the bluish colour of her skin. I take her glasses and wear them and I see everything around me is blurred. I take them off. 

Why can’t people be silent and quiet like her? Why does everyone have to be in such a hurry in this world? The teachers are always hyperactive and looking for new ways to scare us about things that should not scare us at all – like homework or tests – or to show how much better they are compared to young kids.

She’s not snooty, nor angry, nor critical, nor superior. She simply exists and occupies space in the world. A bit like me – immobile, silent, and in peace – at least until I grow up and become miserable, just like everyone else: like my parents and teachers, or the caretakers, cleaners and couples in movies… If all the people in the world were like this corpse then this would be a more pleasant life. 

“Do you want to be my best friend?” I ask, staring at her underwear. She doesn’t reply. I wouldn’t have answered either. I see she is full of bubbles and growths in that area. Maybe she has that thing my classmate has on his face, but instead she has it around her panties, maybe even inside. 

I open my backpack and take out a sandwich that I eat lying down. Once, a boy in my school almost choked to death eating like that and became almost as blue as she is. Since then, I always try to eat lying down. It could happen to me with a little luck, but I have never been that lucky. I’m ten years old.

“I do not have much time,” I say to my new best friend. “I should be at school.”

Every time I have the chance I run away to come here, to this special place. Not because I don’t like reading or studying, but because I cannot bear the other children. I hate them all, from the first to the last. But this is life, according to my father. I just need to accept it and enjoy it like every other kid. With a smile. Never forget to smile. 

“But you’re different, just like me. I do not belong here. We do not belong here,” I tell her calmly. “You have chosen my tree number to commit suicide and I am truly grateful. It makes me feel special.”

‘Special’ is another way to say ‘loved’ or even just ‘considered’. Now I can proudly say that, from the thousands and thousands of trees in this ugly city, this woman chose mine. She had not even looked at the others. I can picture her last living moments, stood at the foot of my tree: she climbs with her depressed flab that wobbles with every reach; she makes a strong knot; she jumps into the void. 

Lucky for her, my tree is in the heart of the park. She needed my tree – number 9030 – the one hidden in full view. 

I would like to stay with her some more, but I’m afraid of being discovered. It wouldn’t be the first time in my life a person ruined a special moment like this – something important, something private, something mine.

I walk away from my best friend. It’s morning and the chances of someone coming here are very high. Maybe some old woman, walking her dog before she dies. Maybe someone else, who wants to join my new friend as a corpse. 

“Should I give you a name?” I ask her. 

Eve is the name that comes to my mind and that’s what I call her. We are our own kind, I think. Somehow.

“My name is Adam,” I tell her, “and yours should be Eve. So we will have something else in common. Do you like it, Eve?”

She is silent, so I assume it’s a dry and loud ‘yes’ to me. 

I suddenly hear small leaves crunching under someone’s tired shuffle. I decide to leave. Today I have been the witness of a great event. It will be my secret. I will never tell anyone about her.

On my way back to school, I can’t decide what I enjoyed the most: having seen a corpse, having glimpsed her underwear or almost being caught in the act of talking to her.

Bushido, David Goggings e l’importanza di soffrire

Stavo guardando l’ennesimo podcast di Joe Rogan. Per chi non lo conoscesse: immaginatevi Joe Rogan come un Oprah ma per uomini. Gli argomenti sono molteplici ma Joe non manca mai di aggiungere quel pizzico di testosterone in più (che di questi tempi non fa mai male) con i suoi aneddoti incentrati sul combattimento. D’altronde, Joe è una personalità poliedrica: conosciuto soprattutto come commentatore dell’UFC, Joe è anche uno stand-up comedian e una personalità di culto grazie al suo podcast: “The Joe Rogan Experience”.

Ci sono molti ospiti che si danno il cambio nello show di Joe. Molti di loro sono dei combattenti di varie arti marziali (Eddie Bravo, Mike Tyson, Max Holloway…) Altri sono dei pensatori e personalità di spicco del mondo scientifico (Neil deGrasse Tyson, Elon Musk…). Lo scopo del podcast è dare un paio di delucidazioni al pubblico sul pensiero e la vita di persone estremamente influenti nel panorama di oggi.

Non poteva mancare David Goggings come ospite al Joe Rogan experience. L’uomo ‘più duro’ sulla faccia della Terra.

Cosa dire di Goggings? è l’unica persona ad aver completato il l’addestramento di élite come Navy Seal, Army Ranger, e Air Force Tactical Air Controller. Ha vinto il record per il maggior numero di pullups fatti in 24 ore (4030 pull-ups fatti in diciassette ore). Ultra-maratoneta. Ora è uno speaker motivazionale con la missione di portare il meglio in ognuno di noi. Il fatto è che vedendo la vita di una persona del genere riassunta in tre righe potrebbe portare alla falsa convinzione che Goggings abbia avuto una vita completa: certamente difficile dato che non molti hanno anche solo avuto l’occasione di ricevere l’addestramento da Navy Seals, ma di sicuro piena di soddisfazioni. Forse è così. Ma avete idea di che cosa ha passato Goggings prima di raggiungere tutta questa fama?

Sono la stessa persona. Difficile da immagine, non è vero?

David Goggings ha subito qualsiasi umiliazione possibile da bambino. Cresciuto in una famiglia con un padre abusivo, Goggings fu costretto a lavorare all’età di sei anni. Incapace di concentrarsi a scuola e picchiato regolarmente dal padre, Goggings cominciò a sviluppare forme di PTSD già quando aveva otto anni. Fortunatamente, Goggings e sua madre riuscirono a scappare in una cittadina dell’Indiana. Le cose non cambiarono per il meglio purtroppo. I suoi insegnanti lo etichettarono come un bambino con dei seri problemi di apprendimento e questo fu abbastanza perché diventasse la vittima della classe. Come se non bastasse, Goggings era l’unico ragazzo nero in tutta la scuola e vittima di bullismo ogni singolo giorno. Dato che il suo passato e le sue condizioni mentali non gli permettevano di studiare, Goggings riuscì a passare gli anni delle elementari e delle medie copiando in classe. Questo significa che arrivò al liceo che sapeva a malapena leggere.

‘That’s crazy man… by the way, do you smoke DMT’ (Joe Rogan trova sempre il modo per infilare il combattimento e la DMT nelle sue coversazioni).

Con la sua motivazione ridotta al minimo, Goggings usò il cibo come metodo per sfuggire alla realtà… Incredibile come ognuno di noi abbia un qualcosa di diverso da usare per scappare dalle delusione della vita. Comunque sia, Goggins vide in televisione un documentario sui Navy Seals che riaccese in lui quella voglia di rivalsa che giaceva dormiente all’interno del suo corpo. Grazie ad allenamenti estenuanti e a studi massacranti, Goggings riuscì a ritagliarsi quella piccola opportunità che gli serviva per ribaltare la sua vita e viverla a pieno.

Dai suoi successi, infine, David Goggings stabilì la sua filosofia di vita: ‘crescere attraverso la sofferenza’. Nella sua intervista Goggings spiega come tutte le cose orribili che ha subito nella sua vita sono state indispensabili per raggiungere uno stato mentale che lui stesso definisce ‘indistruttibile’. Attraverso uno scopo, ha trovato la disciplina. Attraverso la disciplina, ha trovato autostima. Come riuscire ad avere successo nella vita? Semplicemente lavorando molto duramente ai limiti del raggiungimento della follia e affrontare il dolore come se fosse il tuo più grande amico (perché di questo si tratta). Se abbandonate un sogno perché avete subito qualcosa di orribile o non sopportare il fatto di non essere abbastanza…allora probabilmente non meritate quel particolare sogno (Non è vero, Griffith?).

Un grandioso aneddoto su Goggings: ha criticato chi si allena con la musica poiché si ‘estranea’ dal dolore e non è realmente presente in ciò che fa (sia correre, powerlifting o sollevamento pesi). Mi sono sentito accusato. D’altronde avevo cominciato a scrivere l’articolo con “A way of Life” di Hans Zimmer come sottofondo. Ma credo di capire ciò che vuole trasmettere Goggings: solo essendo presenti in qualsiasi momento nella vita, dal più bello al più orribile, senza scappare, possiamo trovare un modo per migliorare noi stessi. Qualcosa che sperimento ogni notte quando corro (perché corro di notte? perché odio essere visto dalla gente… e poi faccio gli sprint e sembro un serial killer per quanto vado veloce). Il respiro come sottofondo, il rumore dei miei passi sull’erba, le cicale e il loro stupido canto… è tutta una sfida con me stesso e miei demoni. Non c’è nessun altro con me, neanche Hans Zimmer e le sue colonne sonore.

Disciplina, senso del sacrificio, Hans Zimmer… tutto ciò mi ricorda pericolosamente ‘L’ultimo Samurai’ (non potrò mai consigliarlo abbastanza). Proprio grazie a questo film, sono giunto alla conoscenza del bushido: lo stile di vita, nonché il concetto morale che i samurai applicavano nel loro stile di vita applicato ufficialmente nel periodo Tokugawa (1603-1867).

-Onestà e giustizia

-Eroico coraggio

-Compassione

-Gentile cortesia

-Completa sincerità

-Onore

-Dovere e lealtà

Per riassumere il tutto sulla base dell’esperienza infernale di Goggings: bisogna essere onesti con se stessi e l’obiettivo che si vuole raggiungere; avere il coraggio di prendere l’iniziativa (ma non la stupidità di muovere guerra in una battaglia già persa); compassione per se stessi quando si fallisce senza sfociare nell’autocommiserazione; gentile cortesia verso gli altri e il loro sogno; sincerità nelle proprie parole ma soprattutto nelle proprie azioni); onore (fare ciò che è giusto da un punto di vista morale. L’importante è dormire bene la notte pensando alle azioni compiute nel giorno).

Che io abbia letto decisamente troppo sulle possibili correlazioni tra Goggings, Joe Rogan e il bushido?

(Spoiler: si)

Tuttavia, la disciplina e il sapere perseverare nei nostri obiettivi nonostante numerose cadute e sconfitte è essenziale per vivere la propria vita al meglio. Come dice Tyson (Mike Tyson non quel nerd di Neil deGrasse Tyson): “Disciplina significa fare le cose che odi come se le amassi”.

Ultimo aneddoto degno di nota: Goggings ha dichiarato di aver ascoltato per 17 ore di seguito la stessa canzone quando batté il record di pull-ups: “going the distance” di Bill Conti. Una delle rare situazioni in cui Goggings ha ascoltato musica in un workout. Quando Rocky decise di non arrendersi di fronte ad Apollo Creed e rialzarsi per l’ennesima volta di fronte al suo avversario segnò un punto si volta nella storia del cinema e nella psicologia di Goggings.

Goggings si è immedesimato molto in Rocky: una persona che voleva conoscere qualcos’altro al posto della sconfitta. Questo mi fa sentire meno nerd quando faccio sparring con il sottofondo di Hekireki di Hajime No Ippo o scrivo ascoltando il tema di Hank Moody di Californication.

Haruki Murakami- depressing af

Stavo guardando un vecchio video di Filthy Frank. Avete presente, no? Pink Guy? Nessuno? Eppure è stato un fenomeno di youtube nell’età dell’oro della piattoforma (referenza a Berserk). Se non lo conoscete, andate a cercarlo. Ad ogni modo, in quest’altro video Frank spiega nel dettaglio che cosa costituisce un weeabo. Per chi non lo sapesse: un weaboo è quella persona talmente ossessionata dagli anime e dalla cultura giapponese da immedesimarsi con la loro lingua, la loro storia e le loro credenze nonostante non siano giapponesi, non sanno parlare il giapponese, hanno visto sei serie anime e credono di sapere tutto sul Giappone. Sicuro avete presente chi sono queste persone.

La prima cosa che mi è balenata in mente è: ‘Di sicuro non parla di me.’ Ovvio che non parla di me. C’è un’enorme differenza tra chi semplicemente ama i manga e gli anime e chi si appropria di una cultura che non è la sua. La statuetta sulla mia scrivania di Yumeko senpai concorda con me. Ovviamente non dovete fidarvi della parola della mia waifu.

Accidenti. Troppo tardi.

Ovviamente si scherza qui. Non ho una statua di Yumeko sulla mia scrivania e non credo di essere giapponese solo perché adoro il loro intrattenimento (manga, anime, letteratura, cinema). Non voglio imparare il giapponese e non ho una waifu. Non che ci sia niente di male ad avere qualche action figure della propria serie animata preferita. Tuttavia, è bene capire quando una passione o un hobby diventa un ossessione. A tale riguardo, mi sento di consigliare un video musicale dal carattere provocatorio. MEMEME! Andate oltre il fan service e le numerose scene di sesso e provate a immedesimarvi con il personaggio principale di questa storia. Il personaggio principale è un Hikikomori (di cui ho scritto sul post dedicato a Holyland). Non lascia mai la sua casa, ha un’insana dipendenza da anime e pornografia che gli impediscono di vivere una vita normale. Il ragazzo è prigioniero di un mondo che non esiste.

Nonostante non mi sia mai trovato nella posizione del protagonista del video musicale, posso capirlo. D’altronde il mondo reale è così noioso, crudele e senza soddisfazioni… tanto vale rifugiarsi in un mondo animato, vero? Sbagliato! Se c’è una cosa che gli anime ci insegnano è di non arrendersi mai, trasformare la propria insoddisfazione in qualcosa di produttivo. Prendete Naruto: un ragazzino emarginato da tutti, senza genitori, che vuole provare il suo valore. Naruto ha due scelte:

Numero uno: eccellere nella via del ninja e provare riuscire ad avverare il suo sogno.

Numero due: chiudersi in casa con la sua waifu immaginaria per poi ritrovarsi a quarantanni a pentirsi delle proprie scelte.

Forse non è proprio questo il senso di Naruto, ma avete capito il punto. Il fatto è che, per citare Joe Rogan: ‘Tutti gli uomini devono scegliere tra due dolori: il dolore della disciplina (fare qualcosa di costruttivo), o il dolore del rimorso (scegliere la via più semplice e pentirsi in futuro)’. Vi chiedo di scegliere con grande saggezza.

Detto questo, cosa ci porta al titolo? Murakami è davvero deprimente? Si. Ma non del tutto. Per chi non lo sapesse, Haruki Murakami è uno scrittore ma non uno qualsiasi: uno dei scrittori orientali più famosi- e che ha venduto più libri in assoluto. Tra i suoi temi più cari troviamo l’alienazione, la depressione e l’indecisione. Wow. I protagonisti sono apatici a tutto ciò che li circonda e il loro malessere interiore, molto spesso, influenza il mondo in cui si muovono dando vita a una sorta di ‘realismo magico’: ovvero, un genere letterario in cui la magia si sposa in un contesto reale. Molto differente da un fantasy, poiché la magia ricopre un ruolo secondario esattamente come nei romanzi di Milan Kundera. Il libro in questione che ho letto è stato: ‘Colorless Tsukuru Tazaki and his years of pilgrimage’.

La trama è fantastica: Tazaki fa parte di un gruppo di amici -5 per l’esattezza- che si sono conosciuti negli anni delle elementari. Il gruppo è inseparabile: fanno qualsiasi cosa insieme e sono uniti da un profondo legame di amicizia. Un giorno, però, i quattro amici di Tazaki lo emarginano e tagliano tutti contatti con lui senza alcuna-apparente-ragione. Tazaki è devastato e porterà il malessere di essere stato escluso fino a quando diventerà adulto. Non riesce a stabilire più alcun contatto con le persone.

Il motivo per cui il protagonista è chiamato ‘colorless’: tutti i suoi amici hanno un cognome che rappresenta un colore. Tazaki è l’unico senza colore e, casualmente, è l’unico che è stato emarginato.

Il romanzo seguirà i pensieri, le emozioni e le azioni di Tazaki che vive annebbiato da uno spesso strato di apatia che gli impediscono di vivere la sua vita a pieno. A mio modesto avviso, il romanzo esegue uno splendido lavoro nel descrivere come la percezione di un evento possa completamente cambiare la percezione della vita. Tuttavia, è giusto dire che Tazaki è padrone delle proprie emozioni. Non esiste trauma abbastanza grosso da impedirci dal vivere una vita come vogliamo noi. Tazaki è distrutto dall’essere stato emarginato dai suoi amici perché lui ha permesso che questa emozione lo consumasse. Nel romanzo cercherà di cambiare questa attitudine e scoprire una volta per tutte il motivo per cui i suoi amici lo hanno abbandonato e finalmente andare avanti con la sua vita. Consiglio questo romanzo soprattutto a chi non ha l’abitudine di leggere molto. Lo stile della scrittura è scorrevole, il linguaggio è semplice e tutto è narrato in prima persona singolare. Il tema di non lasciare che un evento- per quanto negativo sia- influenzi la tua vita è affascinante quanto importante.

Lettura assolutamente consigliata. Come sempre, chiedo scusa per l’incapacità di andare dritto al sodo per ogni post che scrivo.

Devilman Crybaby- anime of the year (2018)

“L’amore non esiste… o così credevo”

Prima o poi doveva arrivare questo giorno. Il giorno in cui avrei parlato dell’anime che ha acceso la mia passione per l’animazione giapponesi. Devilman Crybaby catturò subito la mia attenzione per la fantastica- quanto strana – direzione artistica, animazione e colonna sonora. Seriamente: la colonna sonora di Devilman che sembra uscita da un remix di Tekken, Hotline Miami e Stranger Things.

La trama, invece, appariva a prima vista come un qualcosa di già visto: il timido Akira non è bravo negli sport o nello studio, non sa combattere e non sembra di certo qualcuno che possa vestire i panni dell’eroe. Tutto questo, però, cambia quando viene inghiottito da un demone: il potente Amon. Il pavido Akira si fonderà con il demone e ne otterrà i poteri lasciando intatto, però, la sua coscienza da umano. Un demone nel corpo di un umano con un animo ancora umano. Ovviamente non sarà il solo a subire questa sorte, nonostante la grande maggioranza degli umani che si fondono con i demoni soccombano, abbandonando la loro anima ma preservando il loro corpo che sarà abitato da un demone. Akira userà i suoi nuovi poteri per proteggere l’umanità dai malvagi demoni, i quali vogliono conquistare il mondo… una descrizione un filino cliché. Potrebbe benissimo essere la trama di spider-man. Uno sfigato viene morso da un ragno, diventa un badass e annienta i criminali con i suoi nuovi poteri. Tuttavia, dopo la prima metà della prima puntata, si scopre che Devilman Crybaby è diverso. Diverso in maniera sostanziale a qualsiasi supereroe mai concepito prima… cosa piuttosto scontata dato che il manga originale su cui è basato Devilman Crybaby è del 1973. La storia è la stessa ma ambientata ai giorni nostri.

Il gore, la violenza, il sesso e i continui riferimenti alla religione cristiana fanno di Devilman Crybaby un prodotto coraggioso e innovativo che vuole a tutti i costi lasciare qualcosa di nuovo e mai visto nell’ambito dell’animazione giapponese. Il fulcro dell’intera opera ruota intorno alla relazione di profonda amicizia che lega Akira, il protagonista, e Ryo: un professore universitario genio di sedici anni che cerca la causa della venuta dei demoni sulla terra (… detto così suona ridicolo, ma è un personaggio meraviglioso).

L’anime interroga lo spettatore sulla vera natura degli esseri umani, donandogli risposte impregnate di nichilismo e di sottile speranza che andrà a culminare in un finale che lascia ben poco spazio a quest’ultima. Sono davvero i demoni la minaccia che deve affrontare l’umanità o gli esseri umani stessi? Come scoprire chi è demone o chi non lo è? Possono la bontà e la fiducia degli umani superare l’isteria, la paura e la diffidenza che aleggia nel mondo? Devilman Crybaby non potrebbe essere più rilevante come al giorno d’oggi.

Il bene e il male. Il bianco e il nero che si scambiano i ruoli.

Ovviamente, una recensione su Devilman sarebbe inconcludente senza parlare della caratterizzazione dei personaggi (che, per inciso, ho trovato migliore nell’anime che nel manga). In dieci episodi, gli sceneggiatori sono riusciti a narrare l’epica storia di Go Nagai in una maniera che sembra essere più efficacie del manga stesso. Viene dato spazio a Miki Makimura, la cotta di Akira che frequenta il suo liceo e la sua casa, l’ambiguo Ryo viene dipinto con varie sfumature che riescono a descrivere il suo carattere in tutta la sua completezza, i rapper (aggiunta originale di Go Nagai) e le loro parole riescono ad amplicare l’atmosfera cupa e senza speranza che farà da padrona negli ultimi episodi di Devilman. Le scene di sesso e violenza esagerate all’ennesima potenza sono servite a descrivere gli istinti primordiali dei demoni che agiscono -all’apparenza- solo per appagare i proprio desideri. In conclusione, ho trovato Devilman un trionfo dall’inizio alla fine. Un piccolo gioiello con piccoli errori di direzione artistica che non influenzano minimamente sull’esperienza che regala questo anime.

Due parole sul finale: fantastico. Mi ha lasciato un vuoto dentro che solo Neon Genesis Evangelion è riuscito a regalarmi. La relazione tra Akira e Ryo è tra le più belle che io abbia mai visto in qualsiasi forma di media. Nel caso in cui decideste di imbarcarvi in questo viaggio: fate attenzione alle immagini con cui si apre l’episodio. Lo spettatore più attento rivelerà delle analogie con il finale che spiegheranno un retroscena molto importante su questa opera.

SPOILER:

Ryo si rivelerà essere l’angelo esiliato Satana (reincarnato dopo essere esiliato da Dio). Inconsapevolmente, ha guidato l’esercito di demoni contro l’umanità. Dopo aver ucciso l’amore di Akira (e tutti gli esseri imani ormai resi follia dalla paura), Miki Makimura, propone ad Akira di allearsi con lui e vivere in un mondo di soli demoni. Ryo, infatti, è innamorato di Akira.

Akira, ovviamente, rifiuta e decide di combattere contro Ryo-Satana. Akira recluta tutti i Devilmen del mondo (coloro che hanno i poteri dei demoni ma con l’anima umana ancora intatta). Lo scontro dell’Apocalisse ha inizio. Akira contro Satana. Bontà contro malvagità. Potenza divina contro rabbia e odio. Tuttavia… questa battaglia era decisa sin dall’inizio. Satana è troppo potente. Inconcepibile come si possa anche solo pensare di batterlo. Mentre demoni e Devilmen si massacrano tra di loro, Ryo e Akira giungono alla fine del loro scontro di amore e di odio. Tutto è silenzioso. Nessuno parla se non Ryo che è sdraiato su una spiaggia assieme al suo amico Akira.

Primo piano.

Vediamo solo i volti dei due.

Ryo spiega ad Akira perchè tutto è silenzioso: sono tutti morti- demoni, umani, devilmen. Sono solo loro. Ryo continua e dichiara i suoi sentimenti ad Akira. “L’amore non esiste o così credevo. Se non esiste l’amore e neanche la tristezza… perchè sto piangendo, Akira?” Il primo piano svanisce. La camera si allontana e rivela il cadavere di Akira diviso a metà. Satana ha vinto la battaglia. Stringe il cadavere di Akira a se e piange mentre Dio invia gli angeli a punire Satana per ciò che ha fatto e a creare una nuova vita in cui la storia viene ripetuta. Ancora. Ancora. E ancora. In un eterno loop con lo stesso finale. Satana uccide gli esseri umani, si innamora di Akira Fudo, si pente e ricrea il circolo. Che Dio lo faccia per punire Satana? Lo vuole punire perché ha scelto l’odio al posto dell’amore? Ryo prenderà mai il baton da Akira? E chi può dirlo. So solo che un finale del genere è perfetto per sintetizzare l’anima dell’umanità: siamo impegnati a cercare scontri e guerre inutili in cui non c’è mai un vincitore ma solo vinti.

Voto personale: Undici su dieci (caratterizzazione dei personaggi ottima; soundtrack indimenticabile; stile artistico originale; storia semi-banale che si trasforma gradualmente in un capolavoro).

Voto obiettivo: Otto su dieci (incertezze tecniche; disegni discutibili – soprattutto la caratterizzazione dei demoni; buchi di sceneggiatura; cambio di storia tra la fonte originale che convince in alcune parti ma fa un cattivo lavoro in altre. In poche parole: un capolavoro tecnico discutibile che non mina però l’intera esperienza.)

Hajime no ippo: perseveranza e dedizione

‘My brother! Come join me! In battle we are stronger!

Il solito martedì in questa fantastica quarantena. Scrivere un paio di righe sul proprio blog sorseggiando una lattina di Monster energy invecchiata al punto giusto, con il dolce suono delle note di ‘My brother’ che mi accarezzano l’orecchio… Ero sul punto di addormentarmi, ora sono pronto a intraprendere un viaggio di vent’anni per scovare e uccidere le divinità che mi hanno destinato ad una vita d’inferno. Incredibile come la sola parola ‘berserk’ abbia il potere di farmi fare qualcosa di costruttivo. Parlando di Berserk… questo blog inizialmente avrebbe dovuto concentrarsi su quest’ultimo.

Una grande analisi narrativa e stilistica di un’opera che mi ha portato ad amare il mondo degli anime e dei manga, i quali hanno influenzato gran parte della mia (breve) vita. Adesso, rileggendo alcuni post, mi sono reso conto di quanto sia andato off-topic.

Non che a qualcuno dei miei fedeli lettori (solo io) importi. Non che questa frase voglia descrivere la mia malinconia o rassegnazione. Questo blog è nato come un diario personale per parlare della mia più grande passione e di come abbia migliorato (e in alcuni casi, peggiorato) la mia vita.

Un blog di crescita personale che ha come base il nichilismo di Berserk e anime. Wow. Mai sentito un’idea più stupida. Eppure, gli anime (e manga) sono tra le poche forma di media che abbiano saputo realmente influenzarmi. Non mi credete, vero? Se vi dicessi che leggere Naruto potrebbe avere lo stesso effetto che leggere l’acclamato libro di crescita personale, The seven habits of highly succesful people, ci credereste?

Se vi dicessi che leggere Berserk può far interrogare il lettore sulla natura dell’uomo e sui concetti di giusto e sbagliato in una maniera accurata quanto leggere Delitto e Castigo?

Dove vuole andare a parare questo discorso, Strugger? Il tuo blog è puro caos e non si capisce di cosa tratta. Vai dritto al punto. Ok.

Il punto è che vorrei dare spazio a tutte le opere di differenti media che mi hanno influenzato direttamente. Ho parlato della palestra nei post precedenti. Oggi, vorrei parlare del peso della forza di volontà nelle nostre vite. Vorrei parlare dell’opera che mi ha portato ad imparare il pugilato quest’anno.

Hajime no Ippo

Hajime no Ippo è un manga incentrato sul mondo della nobile arte del pugilato, serializzato a partire dal 1989 e ancora non concluso. Di cosa parla e perché vale la pena di parlarne? Un ragazzo di nome Ippo è preda dei bulli (che sorpresa… sto cominciando a osservare un pattern ben preciso nella serialità fumettistica giapponese). Un giorno, il pestaggio quotidiano da parte del solito gruppo dei bulli è più duro del solito. Per fortuna, il campione di pesi medi della boxe, Takamura, assiste alla scena e va in soccorso di Ippo. Le parole di Takamura colpiscono però Ippo più duramente dei suoi aguzzini.

“Non sopporto i bulli, ma non sopporto neanche le persone deboli che subiscono senza fare niente. Questo mondo non è facile per quelli come te, Ippo.”

Già, proprio così, Takamura. Non è un mondo facile per chi si crogiola nel proprio dolore. Avrei voluto sentire anche io queste parole a quattordici anni. Ma meglio tardi che mai. Ippo, ispirato dal grande Takamura, decide di allenarsi nel pugilato e diventare un professionista. Il suo obiettivo? Scoprire che cosa significa essere forti. Non solo forti da un punto di vista puramente fisico. Ma, soprattutto, da un punto di vista mentale.

Il pugilato è solo una scusa per descrivere una viaggio di un personaggio alla ricerca del concetto stesso di “forza”. Un grandissimo manga che convincerà molte persone ad intraprendere la via del pugilato. Molti manga descrivono in maniera accurata le tecniche di arti marziali. Non c’è da sorprendersi se molti combattenti reali si ispirano a queste storie epiche nel loro viaggio verso la fama e la gloria.

Israel Adesanya, campione del mondo dei pesi medi. Qui imita la posa di Rock Lee (personaggio di Naruto)

Ovviamente, il viaggio di Ippo non è l’unico tema di cui è composta l’opera. L’amicizia, l’accettazione, l’orgoglio, la paura, superare i traumi del passato… Ippo incontrerà diversi pugili che, nonostante la giovane età, hanno passato dei momenti difficili. Ognuno cerca di scappare da ciò che ha subito (o causato) nella sua vita, cercando redenzione e realizzazione dei propri desideri nel mondo del pugilato. Un’opera caldamente consigliata anche per chi non ha particolare interesse nel mondo dello sport.

Uno dei messaggi più importanti che ho trovato in Hajime no Ippo è che affrontare le proprie paure e avere il coraggio di tentare e esaudire il proprio sogno può essere difficile ma che è di gran lunga meglio che lasciar perdere e rinunciare.

Non sto parlando della boxe nello specifico ma di un qualsiasi campo. Magari, ti senti dire che non sei abbastanza bravo a disegnare, scrivere, combattere e che sarebbe meglio lasciar perdere. Magari sei tu stesso a criticarti. Forse hanno ragione o forse no. Forse hai ragione o forse no. Ma sei dai ascolto alle critiche e non provi (e per provare intendo, spendere minimo dieci anni della tua vita in un particolare ambito) allora tutto quello che otterrai sarà rimorso e rimpianto.

Se sei in vita hai già una possibilità in più di molte altre persone. Ippo ha dovuto attendere molto prima di avere la sua chance (in un grande capitolo in cui finalmente ha la possibilità di far avverare i suoi sogni). Ha vinto? Ha perso? Ci è riuscito? Non ci è riuscito? In entrambi i casi, Ippo è entrato nel ring e ha dato il suo meglio. Questo è tutto ciò che serve per vivere una vita al pieno delle proprie possibilità. Per citare il grande Victor Sullivan:

Holyland- la violenza che crea legami

Holyland è senza dubbio uno dei migliori manga che io abbia mai letto (subito dopo Berserk) ed è il numero uno per quanto riguarda le arti marziali. Kamishiro Yuu è uno studente del liceo (che sorpresa!)che è stato costretto ad abbandonare gli studi per i ripetuti atti di bullismo di cui è preda.

Diventa un NEET, una figura che sta diventando ormai tristemente nota in tutto il Giappone e in gran parte dei paesi occidentali. NEET è un acronimo di lingua inglese che significa: “Neither in Employment nor in Education or Training” (Persona, soprattutto di giovane età, che non ha né cerca un impiego e non frequenta una scuola né un corso di formazione o di aggiornamento professionale.)

Molto spesso queste persone, come nel caso di Kamishiro, vivono nelle case dei loro genitori, chiusi nelle loro camere e non escono quasi mai se non per assoluta necessità. Kamishiro vive passivamente preda delle voci nella sua testa, meditando costantemente il suicidio.

Però (c’è sempre un però, non è vero?) un giorno decide di reagire, imparando da autodidatta le nozioni base del pugilato nella sua camera grazie a un libro.

Nelle ore trascorre in solitudine nella sua camera, Kamishiro pratica i due pugni base del pugilato. Il jab (diretto mano sinistra); il cross (diretto mano destra). 5000 volte ogni giorno.

Kmaishiro resta chiuso in casa per più di un anno fino a quando non riesce a fare sue queste tecniche. Poi, si addentra nella sua personale Holyland: “la strada”.

Esce ogni notte negli oscuri vicoli di Tokyo per provare alle persone- e a se stesso- che lui ha ogni diritto di fare quello che vuole. Ben presto, si ritroverà preda della stessa persona che lo tormentava al liceo. Kamishiro riesce a tenergli testa, sfruttando il potere della combinazione base composta da jab e cross. Da qui inizia la leggenda del “cacciatore di teppisti”, un ragazzo che esce di notte per sconfiggere facilmente chiunque gli si pari davanti.

Da qui, inizia anche la trasformazione di Kamishiro, il quale incontrerà altri praticanti di arti marziali che si dedicano allo street-fighting e la sua continua evoluzione della sua tecnica di combattimento e della sua umanità.

Vi chiederete: “com’è possibile vincere uno scontro con due pugni?” La stragrande maggioranza delle persone non sa come combattere (come il tizio qui sopra). Osservate come carica il pugno in direzione di Kamishiro. Non c’è ragione per caricare il pugno all’indietro. Il sinistro e il destro sono i colpi più “diretti” per colpire l’avversario. Scaricare il peso di tutto il corpo sui tuoi pugni, essere veloce ed avere tempismo ha molto più senso che dare un colpo forte ma lento che lascia la tua guardia scoperta. Il manga è colmo di consigli pratici (e reali) su come gestire uno scontro da strada.

Kamishiro acquisterà sempre più fiducia in se stesso. Ma ha molto da imparare. Non ha gioco di gambe. Non sa come gestire una persona che sa utilizzare i calci. Ogni notte uscirà per le strade di Tokyo per trovare se stesso e diventare più forte. Il suo passato lo perseguita e sa che non troverà mai un suo posto nel mondo continuando a scappare dai suoi problemi. Nutrirà il rancore, l’odio e la rabbia dentro di lui fino a quando si sentirà finalmente al sicuro. Ma non può farlo da solo. Fortunatamente, nelle strade di Tokyo esistono anche persone decenti che lo aiuteranno a sviluppare la sua forza.

Boxing. Kickboxing. Judo. Karate. Full contact karate. Kendo. Wrestling. Le persone che hanno più prestigio nella strada sono gli artisti marziali.

Kamishiro sa che non può tirarsi più indietro. Il suo passato da vittima lo tormenta ogni notte e qualcosa dentro di lui sa che non potrà riposare in pace se non mettendosi costantemente alla prova. Ma Holyland è molto più di questo. Ogni persona che trova il suo posto nelle strade di Tokyo ha qualcosa da raccontare: un passato da cui cercano disperatamente di scappare rifugiandosi nell’uso della violenza. Persone che hanno abbandonato il liceo, che hanno avuto una perdita, che hanno un trauma irrecuperabile. Kamishiro non è troppo diverso dai suoi bulli, tormentati anch’essi da gravi traumi.

Holyland insegna che c’è un confine molto sottile tra preda e predatore dato che entrambi- a un certo punto della loro vita- ricopriranno entrambi i ruoli. Ma i legami che si formano grazie alla lotta restano. Kamishiro capisce che non è più solo e che non deve più esserlo. Il suo stile di combattimento misto diventerà l’unione di tutti gli stili che i suoi amici gli hanno insegnato. E, poco a poco, si lascerà alle spalle il passato, lì, nella terra santa in cui le bande giovanili si massacrano a mani nude.

Come Kamishiro, anche io sono entrato nel mondo delle arti marziali imparando il pugilato. Come lui, anche io ho qualcosa da dimostrare cercando di scappare da ciò che mi è accaduto prima. Grande esempio di Struggler: Kamishiro insegna che a volte bisogna combattere per se stessi e trasmettere la propria forza agli altri senza divenire preda del passato.

Ogni volta che perde, il senso di dimostrare qualcosa lo fa tornare in piedi. Non ha paura della sconfitta ma la accetta e va quasi a cercarla. Come dice la prima frase della sigla iniziale di Baki: “Voglio conoscere la sconfitta per il solo motivo di combattere”.

In conclusione (come scrivo sempre nei saggi in cui non ho idea di come concludere), Holyland ha il grande pregio di esplorare i traumi e le insicurezze del genere umano sotto la lente dello scontro fisico. In più, cosa non da poco per un manga, ha un tono realistico e le tecniche delle varie arti marziali vengono descritte con grande accuratezza senza drammi non necessari.

Kamishiro. Nel più cuore c’è spazio anche per te proprio accanto a Guts e Ryo.

Shamo: le arti marziali che uccidono

Ryo Narushima è uno studente modello con tutto ciò che un sedicenne potrebbe volere: ottimi voti, una famiglia perfetta, una condizione sociale agiata. Tutto questo, però, svanisce nel nulla quando decide di uccidere entrambi i genitori a coltellate.

Il motivo, chiederete? Nessuno.

Almeno all’apparenza.

Ryo viene condannato a spendere due anni della sua vita in prigione. Ryo non è proprio quello che si definirebbe un duro. Nonostante abbia ucciso i suoi genitori senza rimorso, la sua personalità sembra essere pacifica, accondiscendente e, almeno per il momento, debole.

Sin dal primo giorno diviene bersaglio di alcuni dei detenuti della prigione. Viene picchiato, deriso e violentato. Tuttavia, l’incontro con il detenuto Kurokawa (uno dei più grandi karateka del Giappone) cambia il destino di Ryo. Affascinato dal karate, il parricida dedicherà anima e corpo a un allenamento massacrante per diventare più forte e tenere testa al suo destino avverso. Fortificare il proprio corpo e renderlo un arma per sopravvivere. Un agnello che diventa un lupo. Al contrario della maggioranza dei manga, Shamo non ruota intorno a un personaggio positivo. Ryo non è animato da un sogno o dal desiderio di proteggere qualcuno. L’obiettivo di Ryo è quello di sopravvivere, di diventare ciò che più odia per potersi guadagnare il lusso di respirare un altro giorno. Ryo è solo. Completamente. Può solo affidarsi alle sua forza per continuare a vivere. Tutta la prigione è contro di lui. Si è fatto molti nemici. Nessuno vuole che l’assassino dei suoi genitori torni nella società e faranno di tutto per ucciderlo… esattamente come lui farà di tutto per rimanere in vita.

Contro ogni pronostico, Ryo riesce a rimanere in vita per due anni e ottiene la sua vendetta contro gli altri detenuti. Ora lo aspetta il mondo vero. Un timido agnello entra in una prigione per poi uscirne come una tigre. Che sia una sottile critica al sistema giudiziario nipponico? In ogni caso, Ryo è preda della sua incontenibile rabbia repressa che lo indirizza nel cuore pulsante della Yakuza. E da là… la sua altalenante personalità e la sua sete di sangue cambierà completamente le dinamiche della storia rendendo Ryo uno dei personaggi più negativi e complessi del mondo della narrativa.

Shamo è un manga differente da tutto ciò che abbia mai letto. Non vuole offrire soluzioni a problemi ma semplicemente dipingere la realtà della malavita giapponese.

Uccidere o essere uccisi. Perdere la propria umanità o perdere la propria vita. In poco più di trentaquattro volumi, Shamo racconta il punto di non ritorno dell’essere umano sotto una lente nichilistica e poco incline al lieto fine. Di sicuro, Ryo Narushima avrà sempre un posto speciale nel mio cuore.

Ryo verso la metà dell’opera.

Chiunque abbia un vivo interesse per una storia con un personaggio negativo e chiunque sia interessato alle arti marziali, Shamo è una lettura d’obbligo. Uno dei pochi personaggi dei manga che deve lottare per ogni singolo privilegio. I personaggi secondari sono pochi ma ben descritti. L’attenzione cade inevitabilmente sulla solitudine di Ryo e di come quest’ultimo debba farsi forza da solo in una vita che gli offre ben poco spazio per respirare. Ryo è una versione ancora più negativa di Guts (difficile da immaginare, vero?) che deve combattere da solo.

Nel corso della narrazione, Ryo si avvicinerà a diversi stili di combattimento ed è impressionante il grado di realismo (come, a volte, il grado di surrealismo e di superficialità) con il quale alcune arti marziali sono descritte, primo fra tutti il karate.

Da appassionato e principiante della boxe e di MMA, sono rimasto deluso da come il pugilato sia stato trattato in maniera superficiale, ma immagino sia un gusto personale. Non potrò mai consigliare abbastanza questo manga. Non è facile essere da soli. Ryo: il prototipo di Struggler che lotta per il solo diritto di vivere.

Attacco per stratagemma- Sun Tzu

Saluti, Strugglers!

Ecco qui un personalissimo aneddoto su The Art of War (l’arte della guerra) di Sun Tzu. Un paio di settimane fa stavo aspettando l’aereo per tornare in Italia quando, sul sedile accanto al mio, trovo un libricino completamente nero rilegato in una copertina rigida. Sembrava non ci fosse un titolo. Come ogni persona sana di mente ho esclamato con sorpresa: “Il DEATH NOTE! I miei problemi sono finiti!”

Non era il Death Note. Era un libro scritto da un generale militare cinese del -2000000 A.C. L’arte della guerra. L’introduzione è di un certo James Chan, un tizio che è il presidente di marketing di una qualche associazione di compra-vendita. Qui la mia prima domanda:

Che senso ha leggere un libro di strategia militare antica al giorno d’oggi?

Qui le mie prime risposte:

La vita degli affari, la scalata al successo (qualsiasi cosa si intenda per successo), la vittoria personale è una grande guerra che viene combattuta dall’alba dell’umanità. Il campo di battaglia di oggi potrebbe essere un ufficio così come nel mondo degli affari. Per conoscere la vittoria (scusa Baki) bisogna giocare d’astuzia.

L’arte della guerra è un manuale di auto-miglioramento che in più di mille anni ha aiutato (aiuta e aiuterà) milioni di leader a raggiungere i propri obiettivi. In sintesi, il libro indica che la vittoria è il fine ultimo della guerra. Il generale capace vince evitando il conflitto. Bisogna conoscere il nemico tanto quanto se stessi.

Ora: il libro è una straordinaria collezioni di aforismi utili e meravigliosi… varrebbe la pena di leggerlo solo per frasi come:

“Veloce come il vento, lento come una foresta, assali e devasta come il fuoco, sii immobile come una montagna, misterioso come lo yin, rapido come il tuono.”

“Se sei capace, fingi incapacità; se sei attivo, fingi inattività.”

E, infine, la mia preferita di Sun Tzu:

“Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.”

Conoscere se stessi: questo mi sembra la cosa più difficile da mettere in praticare. Conoscere se stessi significa possedere un grado di onestà che in pochi potrebbero raggiungere.

Conoscere se stessi significa accettare i propri limiti, le proprie paure, i propri punti deboli… e rifletterli alla luce dei nostri obiettivi, sogni e avversari che vogliamo vincere. Capire quando iniziare una battaglia e quando evitarla è una abilità che si affina con il tempo o con la saggezza. Ho sin troppa quantità del primo fattore e assai poca del secondo fattore.

Grazie all’arte della guerra, le ore che mi separavano dall’Italia sono passate veloci… e ho avuto l’occasione di riflettere su quanto io sia lontano dal mio sogno.

Una lettura che (nel bene o nel male) consiglio a chiunque.

Alla prossima, Strugglers!