Shenmue I: take it easy

Non sono mai stato un videogiocatore competitivo. I giochi online sono molto simili tra loro. Giocare a call of duty nel 2021 vuol dire entrare in una lobby di gamers di undici anni in preda a sbalzi ormonali che urlano tra di loro: in sottofondo, puoi sentire i loro genitori lamentarsi cercando di capire cosa abbiano fatto di male nella vita precedente. La schermata di caricamento è infinita. La fissazione con i battle royale è insensata. Ne ho provato uno (meglio non menzionarlo): ho corso in una mappa deserta senza incontrare nessuno e dopo venti minuti un cecchino mi ha centrato in pieno. I battle royale sono più solitari (e frustranti) di Shadow of the Colossus.

Preferisco di gran lunga un gioco orientato sulla componente narrativa con il gameplay ridotto al minimo e senza persone. Perché dovrei giocare online? Uno dei motivi per cui sono un giocatore è proprio per prendermi una pausa dalla realtà ed entrare nell’universo narrativo di una persona che odia la realtà quanto me.

Facendo una breve ricerca mi sono imbattuto in Shenmue. La trama prometteva bene: il giovane artista marziale Ryo Hazuki osserva impotente mentre il padre muore per mano di un misterioso uomo cinese in uno scontro corpo a corpo. Ryo medita vendetta ma prima deve scoprire chi è l’uomo che ha ucciso suo padre. Ryo comincia ad investigare e a chiedere a ogni abitante della cittadina di Yokosuka che gli capiti a tiro dettagli sulla strana comparsa dell’uomo cinese.

Qui comincia l’avventura di Shenmue. Il gioco è lento.

Estremamente lento.

La città è realistica.

Estremamente realistica.

Si può bussare a una porta di un’abitazione per chiedere informazioni ma non è detto che chiunque vi sia dentro vi aprirà la porta. Ogni abitante segue la proprio routine. I negozi della città aprono e chiudono a una determinata ora. Se un personaggio vi dovesse dare un’appuntamento per l’indomani voi dovrete aspettare ventiquattr’ore (che credo siano trenta minuti nel gioco).

Ogni giorno Ryo si sveglia alle otto del mattino e può stare in giro in città fino a mezzanotte. Se, tuttavia, dovreste rincasare molto tardi la governante vi dirà di essere più cauti e tentare di tornare a casa prima per non farla stare in pensiero. Ogni abitante ha la propria personalità e linee di dialogo pressoché infinite da utilizzare con Ryo.

Guardate come si preoccupa per Ryo. Quando Ine-san mi ha pregato di tornare a casa presto ci sono rimasto parecchio male. Shenmue ti da la possibilità di deludere genitori che non hai mai avuto.

Ci sono sale giochi, parchi, dialoghi opzionali, quest secondarie che arricchiscono l’esperienza di Shenmue. Se il giocatore sarà abbastanza paziente, Shenmue potrà rivelarsi un’esperienza calda, confortevole e simile a una seconda vita. È incredibile pensare che questo gioco sia stato pubblicato nel 2000. Shenmue ha creato il genere FREE (Full Reactive Eyes Movement) basato sulla massiva interazione del giocatore sull’ambiente circostante e con i personaggi del mondo che lo compone. Senza Shenmue, probabilmente, non ci sarebbero stati giochi come Heavy Rain, Detroit becoming human o Resident Evil 4. La trama di vendetta del giovane Ryo passa quasi in secondo piano. Shenmue è una completa immersione in un mondo video-ludico ai limiti del realismo. Per farvi capire: sono state registrate le reali condizioni atmosferiche durante il 1986/1987 (periodo in cui la storia del gioco si svolge) e sono state inserite nel gioco, dando al giocatore la possibilità di scegliere il tempo atmosferico reale di quegli anni nei pressi di Yokosuka.

I combattimenti, per quanto siano rari, sono ben fatti e responsivi con una buona dose di quick time events (un tasto appare improvvisamente sullo schermo e il giocatore deve premerlo in fretta per permettere a Ryo di reagire). Shenmue è un’esperienza meravigliosa. A volte mi dimenticavo di giocare a un videogioco e camminavo senza fretta tra le strade di Yokosuka, ammirando le vetrine dei negozi e intrattenendomi con i passanti. Shenmue è un’esperienza intima e un gioco d’altri tempi che merita di essere provato.

Musashi Miyamoto II: Correre alle quattro del mattino (breve riflessione)

Questo è il mio terzo posto post in cui menziono Musashi Miyamoto. Ho sviluppato una leggera ossessione su di lui ma credo di essere giustificato: un ronin (samurai senza padrone) che non ha mai subito una sconfitta e che è morto di vecchiaia è una figura che appartiene più alla leggenda che alla storia. Musashi, poco prima della sua morte, compose il ‘Dokkodo’ in cui elenca le 21 regole per seguire la ‘Via della Solitudine’ che porta al successo personale.

“Accettate tutto nel modo in cui esso è”.
“Non cercate il piacere in sé e per sé”.
“In nessun caso dipendete da una parziale sensazione”.
“Pensate leggermente di voi e profondamente del mondo”.
“Siatene staccati dal desiderio per tutta la durata della vostra vita”.
“Non rammaricatevi di ciò che avete fatto”.
“Non siate gelosi”.
“Non fatevi rattristare da una separazione”.
“Il risentimento ed il rimpianto non sono mai appropriati né per se stessi né per gli altri.”
“Non lasciatevi guidare da un sentimento di amore o di lussuria”.
“In tutte le cose non abbiate preferenze”.
“Siate indifferenti a dove vivete.”
“Non ricercate il gusto della buona cucina”.
“Non mantenete il possesso più di quanto sia necessario”.
“Non agite seguendo le credenze comuni”.
“Non collezionate armi né fate pratica con le armi al di là di ciò che è utile”.
“Non temete la morte”.
“Non cercate di possedere i beni o feudi in ragione della vostra vecchiaia”.
“Rispettate il Buddha e gli dei senza contare sul loro aiuto.”
“Si può abbandonare il proprio corpo, ma è necessario preservare l’onore”.
“Mai smarrire la Via”.

Una vita molto dura sacrificata per il sogno di diventare lo spadaccino migliore del Giappone. Una vita senza alcuna soddisfazione, se non per il proprio lavoro, vale davvero la pena di essere vissuta? Musashi non ha avuto alcuni legami personali (nonostante non sia chiaro, quasi tutte le fonti storiche dubitano sul fatto che avesse moglie, figli o amicizie) e ha vissuto seguendo le proprie regole, rendendo il suo sogno realtà affinando ogni giorno l’arte della spada e seguendo la via del guerriero in completa solitudine. Si può davvero chiamare vita? Nel mio modesto parere: si. Ogni persona di successo il cui nome viene inserito nei libri di storia ha votato la propria vita a un sogno e un’ambizione molto più grande di loro. Hanno rifiutato ogni singolo compromesso per arrivare ai vertici del loro sogno. Mi chiedevo perché in quasi tutte le routine dei personaggi che più hanno successo, la componente dello ‘svegliarsi presto’ sia così essenziale.

-Elon Musk: sveglia alle sette (del mattino, ovviamente).

-Donald Trump: sveglia alle cinque e mezza (dichiara di dormire tre o quattro ore per avere più tempo produttivo)

-David Goggings: sveglia alle tre.

-Haruki Murakami: sveglia alle quattro. Scrive per sei ore. Fa una corsa di dieci chilometri al giorno… What a madlad.

Sono sicuro che lo stesso Miyamoto si svegliasse all’alba a esercitarsi con la spada. Dalla mia prospettiva ci sono diversi motivi per svegliarsi così presto:

  • Ci sono meno distrazioni.
  • Puoi ritagliarti tempo per te.
  • C’è meno competizione e ti senti una bestia. Chi è il pazzo che si sveglia alle 4 per andare a correre? Chi è il folle che lavora al proprio romanzo prima di attaccare il suo turno a lavoro?
  • La giornata inizia meglio se ti concentri sui tuoi progetti e sul tuo benessere.

Ho provato per tre mesi a svegliarmi considerevolmente presto. I primi giorni andavano bene ma dopo una settimana ricadevo nella mia vecchia routine. È difficile togliersi un’abitudine. Appena pensi di aver vinto una tua dipendenza, il giorno dopo cadi a terra come chiunque si sia battuto con Tyson quando aveva vent’anni.

Per motivarmi penso al futuro. A come sarebbe bello cambiare, vincere e rendere il mio sogno realtà. Pensavo a tutto questo quando mi sono svegliato alle quattro del mattino e ho corso per 11 chilometri (un chilometro in più per sentirmi superiore a Murakami). Alla fine mi faceva male persino quando respiravo. Non sono estraneo al cardio ma era da un mese che non correvo. Ho visto l’alba sulla riva del mare. Ho pensato a Musashi Miyamoto che vinse il suo duello contro il grande maestro Sasaki Kojiro su una spiaggia in un’isola vicino a Kokura. Ho pensato a Murakami che corre prima che il suo ultimo lavoro venga pubblicato e venduto. Ho pensato a Elon Musk e SpaceX. Per poco sono stato in pace.

Anche io voglio intraprendere ‘la via della solitudine’. Anche io voglio vincere cominciando dalla mattina. Oggi è stata una buona giornata (per adesso). Spero sia la prima di una lunga serie.

Spreco di ossigeno: Bloodborne e Berserk (breve riflessione)

Ho giocato a Bloodborne prima di vendere definitivamente la mia playstation 4. Non ricordo neanche perché l’ho venduta. Forse volevo avere più tempo per dedicare alla produttività e ai miei progetti. Mi piacerebbe dire che è andata così… ma così non è stato. Non era un gioco a cui fossi particolarmente interessato ma ne ho sentito parlare bene e così l’ho installato (all’epoca era gratuito se abbonato al servizio playstation plus). Non avevo idea a cosa sarei andato incontro.

L’atmosfera del gioco, l’architettura squisitamente gotica, la soundtrack imponente… questo gioco colpisce sin da subito.

Per prima cosa, come oggi gioco di ruolo che si rispetti, il giocatore deve scegliere la ‘classe’ a cui il suo personaggio appartiene. Alcune classi donano al giocatore statistiche differenti. Ad esempio:

  • la classe ‘passato violento’ aumenta i parametri di attacco, forza, resistenza. Parti da livello 10. Descrizione: ‘Le imprudenze passate ti hanno reso più forte.’
  • la classe ‘nobili origini’ aumenta i parametri di arcano e di echi del sangue (oggetti che rilasciano i nemici uccisi con cui puoi comprare armi, oggetti e abilità). Parti da livello 10. Descrizione: ‘Discendi da un’antica famiglia e confidi delle tue origini.’
  • la classe ‘spreco d’ossigeno’ ha tutti i valori ridotti al minimo indispensabile. Parti da livello 4. Descrizione: ‘Non hai alcun talento. La tua nascita è stata vana’.

Leggere la classe ‘spreco d’ossigeno’ mi ha strappato qualche risata. L’avevo scartata a prescindere dato che Bloodborne ha la fama di essere un gioco difficile. Poi ci ho ripensato. Mi sembrava molto bella la decisione di iniziare la mia avventura con uno zero assoluto e portarlo alla gloria. Così sono diventato uno ‘spreco di ossigeno’. E sono rimasto nell’area di Yarhnam centrale (la prima area di gioco) per circa tre ore.

Tre ore per completare un tutorial e uccidere il primo boss (Cleric Beast) che era del tutto opzionale. Ho avuto la forte tentazione di rinunciare completamente a questo gioco più di una volta. Ero frustato, arrabbiato, deluso e annoiato. Davo la colpa al gioco che la mia esperienza fosse cosi orribile. Qualcosa, però, mi ha fermato. È stata una epifania. La colpa non era del gioco. La colpa era mia: ero una sega. Un titolo come Bloodborne ti da tutti gli strumenti per vincere e per passare al ‘livello successivo’: chiunque può farlo. Se non ce la fai basta ritentare. Una volta. Due volte. Dieci volte. Venti volte. Morirai. Tante. Tante volte. La scritta ‘you died’ comparirà nei tuoi sogni.

Ma la scritta è solo una scritta. Non muori per davvero. Ogni volta rinasci nel sogno del cacciatore. La notte è ancora lunga ed è nella natura del cacciatore quella di cacciare. Perciò ci riprovi. Uccidi più nemici, collezioni più ‘echi del sangue’, fai l’upgrade del tuo armamento e ritenti. Non sei più quello di prima. Sei più saggio, più forte e più competente e usi la frustrazione di ogni singolo fallimento per avvicinarti alla vittoria. Questo gioco è stato una rivelazione: vieni trasferito a forza in un incubo (la trama è criptica) e sai solo che devi cacciare dei mostri che hanno perso il raziocinio in questa notte maledetta. Nel corso del gioco (i più attenti) sapranno mettere al proprio posto i tasselli che compongono la trama di Bloodborne ma per farlo bisogna sopravvivere. Il cacciatore dovrà proseguire il suo viaggio interminabile nell’abisso se vuole vedere la luce. Non è difficile capire come Miyazaki (il creatore di questo gioco e presidente di FromSoftware) abbia preso spunto da un’opera come Berserk (e infinite altre fonti tra cui i racconti di H.P. Lovecraft): sei in un oscuro tunnel. Arrendersi non è un opzione e devi trovare il tuo lieto fine. Da solo.

Un elemento del gioco che mi ha riscaldato il cuore: i messaggi degli altri giocatori. Scegliendo la versione ‘online’ è possibile trovare piccoli messaggi che i giocatori più esperti hanno lasciato nel corso della loro avventura. Bloodborne è un gioco infido e pieno di trappole e imboscate mirate a snervare la salute mentale del giocatore. A volte, se si è fortunati, è possibile leggere alcuni messaggi che avvertono del pericolo: ‘Attenzione. Trappola più avanti,’ per esempio. Alcuni messaggi sono d’incoraggiamento. Poco prima di entrare in una boss battle per l’ennesima volta alcuni messaggi incoraggiano il giocatore: ‘Non arrenderti!’ dicono alcuni; ‘Stai attento,’ dicono altri. A volte, in uno scorcio panoramico particolarmente suggestivo come questo, alcuni giocatori potrebbero aver lasciato un messaggio con su scritto: ‘meravigliosa luna’.

Il semplice fatto che io abbia ammirato la stessa fantastica luna piena in un luogo tanto orribile quanto affascinante come quello proposto da Bloodborne e un giocatore (prima di me) abbia fatto lo stesso mi riempie il cuore di serenità senza neanche capirne a pieno il perché.

Bloodborne è un gioco fantastico che, a mio avviso, può far diventare tutti più resilienti e grati della propria vita. Finire questo gioco come ‘spreco di ossigeno’ mi rende (per quanto strano possa ammetterlo) davvero orgoglioso.

‘Queste note ti sono state utili, Cacciatore?’

Murakami depressing af II- A sud del confine, a ovest del sole

A diciannove anni partii per Londra con un biglietto di sola andata.

Lo so.

Non è originale come meta ma penso sia la prima destinazione che ti viene in mente quando non hai molta esperienza e non hai le palle per andare oltre oceano. Comunque sia, partii verso settembre e alloggiavo in una camerata d’ostello condivisa con altre sette persone. Immaginatevi otto uomini chiusi in una stanza grande quanto un salotto con quattro letti a castello, una doccia, uno specchio e un lavandino. Dormivo sul letto di sopra posizionato accanto alla finestra che si affacciava su un cimitero così grande che si andava a perdere nell’infinito, da qualche parte, all’orizzonte. Era uno spettacolo fantastico: le tombe gotiche si confondevano tra i rami spogli degli alberi di inizio autunno, il terreno era ricoperto da un manto soffice di foglie che scricchiolavano sotto i passi dei visitatori. Ho passato più di una notte insonne a osservare quel cimitero, il quale mi riempiva di una grande sensazione di pace e di melanconia.

Alcuni dei tramonti più belli li ho visti proprio lì. Mi ricordo che uno dei miei sette compagni di stanza mi offrì una lattina di Monster sul finire del pomeriggio (preciso momento in cui sviluppai una dipendenza da energy drink) e guardammo insieme il tramonto. Per un momento, non c’erano preoccupazioni per il futuro né ansie sociali inutili: solo due persone appena conosciute che si godono il sole tramontare sulle tombe con la fredda aria settembrina londinese a scompigliarci i capelli e le luci dei lampioni accendersi lentamente.

Leggere Murakami mi offre quelle stesse sensazioni: malinconia, stupore, meraviglia, accettazione, un certo senso di familiarità e un certo senso di solitudine.

Mi sono messo in testa di leggere ogni suo singolo libro e credo di essere a buon punto. Ultimamente ho letto ‘A sud del confine, a ovest del sole’: un volume smilzo di appena 200 pagine.

La malinconia di Murakami

Hajime è un bambino solo costretto a rapportarsi con la solitudine sin dall’infanzia. Ogni suo compagno di classe ha almeno un fratello o una sorella. Nel Giappone del dopoguerra era molto raro essere figli unici. Hajime fa di questa sua solitudine una fortezza impegnandosi nella scuola e nello sport senza però instaurare alcun legame. Tutto questo cambia quando conosce Shimamoto, una bambina tanto sola quanto lui. I due cominciano a conoscersi e a condividere le proprie passioni tra cui la lettura e la musica. Dopo le elementari, Shimamoto cambia casa e scuola ma Hajime riesce comunque a trovare il modo per vederla. Il rapporto non si evolve dalla semplice amicizia con cui era nato tuttavia entrambi sentono un legame profondo, speciale e fisico l’uno per l’altra.

Con il passare del tempo le visite si fanno sempre più rade. La vita va avanti e Hajime si convince a non mantenere i contatti. Lui stesso è insicuro di questa decisione. Forse ha paura di essere ferito. Forse ha paura che Shimamoto non voglia la sua compagnia. Sia quel sia, Hajime, si ritrova ben presto al liceo dove esplora se stesso tramite una relazione con una ragazza di nome Izumi e che tradirà con sua cugina. Il tradimento di Hajime provoca un collasso emotivo a Izumi che si rinchiuderà in se stessa tagliando ogni contatto con Hajime.

Gli anni vanno avanti. Hajime è sempre solo e ripensa costantemente all’unica persona con cui abbia avuto una connessione speciale: Shimamoto. A volte pensa di tentare a ricontattarla ma qualcosa lo blocca. Decide che è meglio concentrarsi sulla propria vita. Conclude gli anni all’Università, trova un lavoro insoddisfacente in una casa editrice e, a trent’anni, si sposa con una ragazza incontrata in un viaggio (ovviamente) in solitaria: Yukiko.

Hajime rimane folgorato da Yukiko, dalla quale avrà due bambine. Apre un locale in cui si suona musica jazz dal vivo e ottiene una certa fama a Tokyo. Ha una vita fortunata ma, come lui stesso ammette, a tratti appare vuota e artificiosa. Non ha mai avuto sogni o ambizioni, né provato grandi gioie. La vita semplicemente scorre fino a quando non ritrova Shimamoto nel suo locale. Sono passati più di due decenni ma lui la riconosce subito.

Con lo sfondo della malinconica musica jazz del locale, i due parlano per ore. Qualcosa in Hajime si riaccende e (forse) si interroga su come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato a frequentare Shimamoto.

Lungi dall’essere una storia d’amore, ‘A sud del confine, a Ovest del sole’ di Murakami è la cronaca di un uomo indeciso non tanto sotto l’aspetto del romanticismo quanto sul trovare un significato alla propria vita. Tutto appare malinconico e senza scopo per lui. L’esistenza delle ragazze che ha avuto (Shimamoto, Izumi e Yukiko) scandisce il senso del tempo passato a vivere passivamente.

Forse Yukiko (sua moglie) corrisponde al presente. Izumi è un fantasma del passato e dei suoi errori. Shimamoto, invece, è un grande ‘forse’; più la personificazione di un concetto che una donna. L’idea di Shimamoto (e il fatto di averla incontrata dopo molti anni) aiuta (forse) Hajime a scappare da un passato insoddisfacente e da un presente mediocre.

Leggere Murakami è sempre una esperienza agrodolce. Lo spirito di questo libro è lo stesso che permea le pagine di Norwegian Wood, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, Kafka sulla spiaggia e, in minor parte, la fine del mondo e il paese delle meraviglie. Lo stile di scrittura è semplice e raffinato con ben pochi giri di parole. Ormai leggere Murakami, per me, è come parlare con un amico osservando insieme il sole sorgere in un cimitero: un’esperienza bellissima e melanconica.

Assolutamente consigliato.

Quando avevo 17 anni

In questa sottosezione ho deciso di condividere alcuni dei miei primi racconti e primi esperimenti di narrativa del periodo del liceo. Cercherò di produrre qualche mia ultima ‘composizione’ (chi mi credo di essere? Shakespeare?) ma saranno solo piccoli frammenti e storie fine a se stessi. Come da titolo, questo è un racconto che scrissi a 17 anni dopo aver finito di leggere la Torre Nera e durante il mio periodo western in cui ero fissato con Clint Eastwood. Non ho potuto fare a meno di distogliere lo sguardo in alcune parti ma l’ho trovato divertente… tutto sommato.

La mano di Dio

Le ombre dei pistoleri si proiettavano lunghe chilometri nella strada percorsa ogni giorno dalle innumerevoli diligenze appena fuori città. Le Colt erano pronte a sparare, le dita pronte ad armare: John teneva la mano destra al di sopra della fondina attaccata alla cintura, mentre il matricida una volta noto con il nome di Leon stiracchiava dolcemente i polpastrelli della sinistra, disegnando nella calura del meriggio piccole ellissi. La mano destra non l’aveva più da tempo. Il primo pensiero che percorse la sua anticamera del cervello quando venne privato dello strumento di morte destro fu: ‘fortunatamente mi masturbo con la sinistra’ . Un ombra di un sorriso apparve su quel volto solcato dalle rughe, incorniciato da capelli lunghi e crespi più tendenti al grigio che al nero, nonostante avesse superato da poco la soglia dei venticinque anni. Lo allarmò scoprire con quanto noncuranza avesse espresso quel pensiero. Non molto tempo fa, quello stesso uomo che si era ridotto a bere urina di cavallo per non morire disidratato nel deserto e a cui era stata tagliata la mano dai pellirossa (per fortuna non il suo scalpo, dice grazie) e che stava per affrontare la resa dei conti finale, aveva la fama di essere un vanitoso seduttore: Aye, se lo ricordava come se fossero passati pochi anni (nonostante ne fosse passato uno solo).

Spendeva la maggior parte del tempo a incipriarsi il volto, già pallido per natura, facendosi bello per le rinomate donne di alto borgo che frequentavano  la locanda gestita da suo cugino. Prostitute le avrebbe chiamate quella santa di sua madre, ma ora lei non c’era più, l’aveva uccisa lui stesso con l’ultimo di una serie di proiettili che ricevette in eredità da suo padre: uno di quelli d’argento. Appena sparato il colpo si dispiacque…per il proiettile, non per la madre, per lei non poteva che trarre un sospiro di sollievo. Non uno dei suoi più bei ricordi, bisogna ammetterlo, ma questo e tanti altri episodi attraversarono come un lampo il cervello del pistolero, grazie all’accavallamento e al contatto dei suoi neuroni ceppati, i quali non erano più in grado di commettere come un tempo (bisogna ammetter anche questo). John era di tutt’altro temperamento. Non pensava a niente se non al compito che gli sarebbe toccato da li a cinque secondi. Quattro secondi… e prima del quattro? Avrebbe scommesso sulla santa Trinità che ci fosse il tre, Aye!

2,

1,

DING,DONG          

Le campane cominciarono a suonare, e poco più sotto di una trentina di metri le pistole dei masnadieri cominciarono ad accompagnarsi alla melodia con una canzone ben diversa. Leon fu il primo (e ultimo) a unirsi alla sinfonia: scostò con la mano sinistra il suo poncho impolverato ce nascondeva la sua Colt 45, la impugnò, armò il grilletto, mirò al torace  e sparò. Tutto questo portò via al pistolero meno di quattro secondi, quegli stessi secondi che John –o la sua carcassa, per meglio dire-   impiegò per riversarsi a terra. Un rivolo di sangue scivolò dalla sua stella da sceriffo e si andò a infilare sotto la cintura.  Leon, con lentezza estrema, fece scivolare la sua unica amica nella fondina e si avviò a lunghe falcate verso il cadavere di suo fratello. Lo esaminò tasca per tasca. Un rotolo di banconote da cinquecento dollari, una foto della loro madre e un carillon fu tutto quello che trovò, e tutto quello che ricevette dal suo fratellino in tutta la sua vita. La sua eredità. Gli tornò alla mente il sorriso di sua moglie e il carillon con cui si dilettava il figlio. Accantonò con freddezza quei ricordi. Loro non erano più in questo mondo e ora neanche i loro assassini. Pensò che un fratricida e un matricida come lui fosse destinato con ogni probabilità al cerchio più buio dell’Inferno e che neanche Gesù e Cristo in persona potessero cambiare ciò. Pazienza. La sua ultima tappa del viaggio sarà anche riservata alla tana di Satana , ma di certo non ci sarebbe passato per El Paso. Prese lo stallone di suo fratello -dello sceriffo e del complice di sua madre dello sterminio di sua moglie e sua figlia- e cavalcò verso il tramonto. A fargli compagnia nel cielo infinito, gli avvoltoi.

On writing di Stephen King, commenti di IoScrittore, sanità mentale e il mio romanzo I

Nel periodo di Natale lessi On Writing di Stephen King, un piccolo manuale di scrittura creativa (nonostante lo stesso autore rabbrividirebbe nel definirlo tale). Mi era stato descritto come ‘imperdibile’ fonte di ispirazione per un giovane, aspirante autore. All’Università era nella lista dei libri facoltativi da leggere nel corso di scrittura creativa. Inutile aggiungere che nessuno lo sfogliò.

Ho sempre evitato di leggere manuali di scrittura creativa ma (un grande ma) ho sempre adorato Stephen King. Il primo libro che lessi senza che nessuno mi obbligasse a farlo (subito dopo Harry Potter) fu Misery all’età di quattordici anni.

Che trip.

Adoravo il fatto che l’intera storia si svolgesse nel piccolo spazio di una camera dentro una casa. Adoravo come i pensieri di Paul Sheldon occupassero il romanzo per ogni singola pagina e, cosa forse più importante, adoravo Annie Wilkes: l’aguzzina psicopatica che costringeva Paul a continuare i suoi romanzi incentrati su Misery.

Annie, al contrario di una nemesi come Voldemort, aveva una grande caratteristica: faceva paura. Faceva seriamente paura.

Chi avrebbe paura del signore oscuro che lancia incantesimi di magia nera quando Annie potrebbe tagliarti le gambe e fartele mangiare?

Quando Annie era da sola in stanza con Paul avevo legittimamente paura per lui; un’emozione che non mi era mai capitata prima (mai leggendo un romanzo perlomeno). Dopo Misery lessi molti dei suoi libri (la saga della Torre Nera, La bambina che amava Tom Gordon, Desperation, Joyland tra i miei preferiti) e, nonostante i manuali sulla scrittura non mi convincono, sapevo che il Re aveva (doveva avere) qualcosa di interessante da dire.

Sta scrutando nella tua anima. Ciò che vede non gli piace.

King comincia i primi capitoli del libro descrivendo la sua vita e di come abbia deciso di diventare un romanziere.

Il suo approccio con il mondo della narrativa cominciato con film horror di serie B; un cofanetto pieno di racconti brevi di H.P. Lovecraft; una tendenza ad isolarsi nella finzione; la carriera nel giornalino scolastico; il primo racconto venduto all’età di otto anni; le esperienze di bullismo che diedero l’ispirazione per il suo primo romanzo pubblicato Carrie e le centinaia (se non migliaia) di lettere di rifiuto: il percorso di Stephen King è costellato di piccole vittorie ed enormi fallimenti prima di raggiungere la fama di ‘Re dell’horror’ come è internazionalmente conosciuto. Prima di Carrie, King scrisse quattro romanzi che venivano periodicamente rifiutati. La fonte di guadagno proveniva dal suo lavoro come addetto delle pulizie in una lavanderia automatica (poi successivamente come insegnante di inglese), brevi racconti pubblicati in riviste sconosciute e non (una delle sue storie venne inserite su Playboy Magazine) e da piccoli lavoretti qua e là per arrotondare. Una delle cose in cui trovava più conforto era la scrittura: come lui stesso ammette, buttare giù almeno duemila parole al giorno era una droga.

Stephen King aveva la convinzione che un giorno sarebbe diventato un grande scrittore nonostante le molteplici battute di arresto che la sua carriera ha dovuto affrontare prima di decollare.

Stephen King scriveva dappertutto: nella sua casa, a scuola, nei tavoli dei fast-food (da quanto mi ricordo). Ogni minuto della giornata in cui non scriveva, King leggeva. Non poteva farne a meno e, come lui spesso ricorda, la lettura è una delle abitudini più importanti per gli scrittori poiché senza non si hanno sufficienti strumenti per costruire una storia degna di tale nome.

Come lui stesso dice:

‘Da ragazzino divoravo Ray Bradbury e scrivevo come lui, ricalcandone la spontaneità, lo stupore e la venata nostalgia. non appena passai a James M. Cain comincia a usare uno stile duro, essenziale e sincopato. Con Lovecraft, la mia prosa diventò corta e ridondante. Da adolescente buttai giù racconti dove queste influenze si fondevano, dando origine a un buffo pastrocchio. Si tratta di un passaggio obbligato per sviluppare il proprio stile, ma non succede per caso. Dovete leggere di tutto, continuando nel frattempo a correggere e riformulare i vostri lavori.’

Il Re non è cambiato e anche oggi segue una routine molto scrupolosa con una media di pubblicazione di due libri all’anno (probabilmente con il tempo che ho impiegato per scrivere questo post, King ha pubblicato un bestseller già in vetta alla classifica del New Yorker da due settimane).

Ovviamente ciò non è stato facile. Quando ricevi continui rifiuti la tua autostima potrebbe vacillare. E quando ricevi troppo successo insieme potresti inebriarti a tal punto da diventare dipendente da altre abitudini e dipendenze molto più pericolose oltre a quella dello scrivere (che è già pericolosa di per sé). L’unica cosa che si può fare in questi casi è continuare per la propria strada, fare del proprio meglio e sperare (avere la certezza) che qualcosa di buono prima o poi accadrà. O almeno questo è quello che ho recepito nel leggere quelle pagine.

Oltre a leggere e scrivere molto (e divorare ogni forma di narrazione compresi i fumetti, il cinema e le serie televisive), King consiglia (o, per meglio dire, implora) di ridurre tutto all’osso, avere uno stile semplice e diretto e di evitare inutili giri di parole. Non dire con due parole ciò che puoi dire con una… o qualcosa del genere.

Ovviamente ci sono molte varianti per questo consiglio ma sono assolutamente d’accordo. Sono davvero pochi a sposare un linguaggio d’altri tempi ed aulico senza apparire pretenziosi.

‘La strada per l’inferno è lastricata di avverbi,’ dice King.

‘Stick to the basics!’ come diceva il mio coach di Boxe. Se non sei (ancora) capace di imitare Mohamed Alì non usare una guardia bassa: avrai delle brutte sorprese, champ.

Sembra impressionante (e lo è) ma non fatelo nel vostro primo incontro. No. Seriamente. Non fatelo.

La terza regola per la scrittura. Quella che preferisco di più. ‘Il talento è meno costoso del sale in tavola. Ciò che separa l’individuo di talento da quello di successo è un sacco di lavoro.’

Ora… non credo che la frase di Stephen King significhi che tutti possono diventare degli scrittori e che non esiste il talento (sarebbe una falsità bella e buona). Ciò significa, a mio parere, è che sia il talento che il duro lavoro siano fondamentali per l’avvio di qualsiasi carriera (soprattutto nel campo dell’arte e dello sport). Tuttavia il duro lavoro è più importante del talento per due motivi (almeno secondo me):

Uno: Se hai un talento mostruoso e non lo utilizzi è come non averlo affatto.

Due: Se una persona senza talento si impegna e scrive continuamente, un’occasione per arrivare al successo la avrà, poiché avrà diversi lavori da proporre e se anche uno dovesse piacere potrebbe diventare (in teoria) un successo commerciale. Non è raro trovare romanzi definiti ‘orribili’ dalla critica che riscuotono grande popolarità tra il pubblico (non faccio nomi, ognuno pensi a chi voglia pensare).

Romanzo e ambizione

Forse ho una visione troppo ottimistica ma credo che chiunque abbia la capacità di compiere grandi imprese in questo mondo. Ciò che blocca (sin troppo spesso) è il lasciarsi divorare dal proprio dubbio e dal proprio senso di inferiorità causato da esperienze negative; ma il fatto è che questi eventi capitano alla maggior parte della gente e coloro che hanno successo sono gli stessi che lavorano maniacalmente alla loro arte senza curarsi (troppo) delle influenze passive e negative che incontrano nella loro via verso il successo. Ci vuole tempo per arrivare alla vetta. Ci vuole tempo per avere dei risultati. Essere consapevoli che un giorno potremmo avere ciò che vogliamo può fare tutta la differenza del mondo. Non tutti quelli che lavorano duramente hanno avuto successo, però, tutti quelli che lo hanno avuto hanno lavorato duramente.

Una delle cose più importanti che ho dedotto da On Writing è di lavorare non solo sulla propria arte (qualsiasi essa sia: scrittura, pugilato o altro) ma di dare primaria importanza alla propria sanità e forza mentale: che sia una sconfitta o che siano mille sconfitte, non bisogna diventare dei mostri pieni d’odio e risentimento ma puntare in alto cercando di correggere i propri errori a ogni piccolo tentativo.

Quando subisco una sconfitta o una delusione faccio un piccolo gioco mentale: immagino di essere Guts che continua il suo viaggio nell’oscurità senza mai arrendersi.

Nel post precedente avevo parlato del torneo di IoScrittore e di come io lo abbia perso poiché il mio incipit non ha raggiunto la media desiderata. Però c’è un premio di consolazione: avere accesso ai dieci commenti che hanno letto le prime pagine del tuo romanzo. Non nascondo che avevo molta paura nel leggerli. Dato che ho perso sapevo già che non sarebbero stati molto lusinghieri (alcuni utenti si sono lamentati della crudezza e della brutalità di alcuni commenti delle loro opere). Però è andata meglio di quanto pensassi. Voglio esorcizzare le mie paure e li posterò qui. Più si scappa da un qualcosa, più incrementa la paura di quel qualcosa per come la vedo. Meglio fare come Guts e affrontare tutto subito. Il dolore passa prima e ci si può concentrare subito sul futuro.

  • Sinossi molto sintetica ma esauriente. Peccato che non ci dica come va a finire, è una sinossi non una seconda di copertina che deve lasciare il mistero.Un testo scritto benissimo, al punto che il racconto finisce in secondo piano. Uno stile particolare che si distacca dalla banalità ricorrente. Ha tutto per essere un ottimo scrittore.La storia non mi è sembrata originale, ma è costruita così bene che si fa accettare anche nei passaggi disgustosi (leggi: quando lecca il sangue)Se proprio debbo trovare qualcosa di negativo, sono alcuni refusi qua e la, ma presi dalla lettura passano inosservati. E magari l’eccessivo utilizzo di “cazzo”, fa parte del linguaggio vivo, ma a volte sembra forzato e non aggiunge nulla alla scrittura molto bella.
  • Scrivi in un modo abbastanza disturbante ed accattivante!Sono riuscito in poche pagine ad entrare in questo ragazzo disturbato ed a sentire il sapore del sangue nella bocca…Vorrei leggere il resto, e credo che questo sia il goal da raggiungere in questa fase, bravo!Attento a non entrare nel “caricaturale” ovvero nel troppo esagerato o gia’ sentito o “americanata”.AUGURI!
  • Il ritmo narrativo è molto buono, con un incipit cruento che cattura subito l’attenzione. Il protagonista è delineato con attenzione: il flusso di coscienza ci mette subito in contatto con le sue pulsioni che sembrano essere il motore dell’azione.L’introspezione psicologica emerge a poco a poco: Struggler non è un adolescente comune, così come non sono comuni le sue idee, le sue routine. La violenza come istinto animale innato a cui da voce, corpo e soprattutto lucido pensiero.I personaggi secondari sembrano delineare il background, più che avere (per ora) parte attiva nella vicenda.Lo stile è curato e pulito da giochi di retorica che avrebbero appesantito la narrazione. Nel complesso il giudizio è positivo, sarà interessante leggere l’evolversi dei fatti.
  • L’incipit è scritto in modo vivido e fluido e la scelta di un narratore in prima persona è azzeccata per la storia raccontata. Anche il flusso di coscienza si presta bene ed è efficace, lascia che il lettore segua in modo naturale il pensiero del protagonista in tutti i suoi meandri. I dettagli della vita di Struggler (anche se per il momento il suo nome è sicuramente un altro ma al lettore non viene dato sapere quale) vengono dati in modo metodico e efficiente (i.e. l’excursus sul patrigno) in modo da non appesantire la narrazione. Il senso del tempo e del luogo restano confusi, potrebbe essere una scelta intenzionale dell’autore che intende creare un mondo “altro”, distopico o fantastico, ma la mancanza di chiarezza su questi e altri punti essenziali lascia il lettore in un’inutile ambiguità. Il riferimento ai greci quando il motto della scuola è in latino andrebbe corretto. Il personaggio principale appare modellato in parte su uno dei cavalieri dello zodiaco, in parte su Patrick Bateman di American Psycho, ma la voce non è convincente per un sedicenne. Il consiglio sarebbe di lavorare di più sulla psicologia del personaggio e sui dialoghi che presentano delle debolezze evidenti (poco realistici).
  • L’incipit del romanzo “Heaven’s night” introduce direttamente nei meandri di una mente contorta e disturbata, suscitando efficacemente nel lettore emozioni contrastanti che vanno dalla curiosità al ribrezzo. La forza dei dettagli utilizzati e delle descrizioni si manifesta nell’immedesimazione del lettore che non vive gli accadimenti con distacco, ma ne viene coinvolto direttamente. La scrittura è articolata e scorrevole, coinvolgente, non banale e non eccessivamente perfetta. I dettagli sono scelti con accuratezza ed è evidente che l’autore conosce ciò di cui narra. Nell’incipit la trama si sviluppa solo in un paio di episodi di relativa rilevanza, per quanto sconcertanti, ma è evidente che si arricchirà più tardi. La curiosità del lettore a proseguire la lettura è stimolata principalmente dalle caratteristiche così singolari e sconvolgenti del protagonista più che dagli accadimenti. Ciò che manca è un inquadramento del protagonista e della sua personalità nella storia che aiuti il lettore a capire il motivo di alcuni suoi pensieri o quanto meno la loro evoluzione. Quando, come e perché è diventato così crudele, così spietato, così disturbato. Cosa lo ha portato ad assumere queste caratteristiche. Introdurre questi aspetti aiuterebbe a conferire maggiore autenticità ed efficacia alla storia. Una psicologia così contorta non può non avere un origine. Al contrario la mancanza di spiegazione a questo tipo di personalità, ha l’effetto a suo modo efficace di lasciare il lettore ancor più sconvolto e interdetto.
  • Nel giudicare gli altri incipit che ho letto finora, alcuni davvero pessimi, altri più meritevoli, ho avuto poche esitazioni nel formulare e nell’esprimere un giudizio, per quanto possa valere la mia modesta opinione ovviamente. Questo però mi lascia perplesso, sono abbastanza sicuro del fatto che riceverà giudizi tra loro contrastanti.Partiamo subito con gli aspetti puramente tecnici. L’incipit in questione è scritto davvero bene, l’aspetto prettamente narrativo è forse il migliore tra quelli che ho finora esaminato. Non vi sono praticamente errori se non una o due sciocchezzuole, la sintassi è pressoché perfetta, gli ambienti e i personaggi sono davvero molto ben descritti e caratterizzati. Nella votazione destinata alla grammatica e l’ortografia assegnerò certamente un 9 oppure un 10, ci devo pensare ancora un attimo. Sotto questo aspetto il testo merita ampiamente il passaggio alla fase successiva del concorso.Veniamo ora invece alla storia vera e propria. Il romanzo viene presentato come un fantasy, anche se non ho ben realizzato quali dovrebbero essere gli elementi fantasy né dall’incipit né dalla sinossi, che mi permette di avere le idee più chiare sugli sviluppi della trama. Può darsi che il fantasy sia più che altro simbolico. Ci sono alcuni elementi da cui posso dedurre che l’autore sia un appassionato di manga, anche se il protagonista non mi sembra per ora affine a nulla che viene presentato nell’ambientazione di Berserk. Mi ricorda molto piuttosto un ragazzino di nome Nishi nel manga conosciuto come Gantz.Il romanzo in questione chiaramente non è destinato a tutti, e molte persone potrebbero trovarne i contenuti poco accettabili o del tutto inappropriati. Io sono di ampie vedute, credo che il testo dovrebbe passare alla fase successiva del concorso e ricevere una votazione che possa tener conto della trama nella sua completezza. Nell’incipit “Struggler” mi ha ricordato il Nishi di Gantz, ma dalla sinossi ho trovato molti parallelismi con il film “E ora parliamo di Kevin”. Mi ricorda molto anche un personaggio minore di “IT”, presente solo nel romanzo, di cui ora non ricordo il nome.In questi casi specifici la psicologia dei personaggi viene esaminata in modo approfondito fin dalla prima infanzia, consentendo al pubblico di poter comprendere o quanto meno immaginare cosa abbia generato una mentalità tanto deviata. La mia paura è che per Struggler la cattiveria mostrata risulti del tutto gratuita e fine a se stessa. Credo che sia fondamentale esaminare più a fondo la sua psicologia e quindi motivare le sue deviazioni.Questo romanzo potrà essere maggiormente apprezzato se si riuscirà a creare un’empatia verso il protagonista. Un’immedesimazione da parte del lettore. Da ciò che si evince nell’incipit, Struggler vive con un certo complesso di inferiorità e medita la sua rivalsa con la violenza gratuita. Non è proprio per tutti.Darò in ogni caso buoni voti, il giudizio dev’essere fatto sull’opera completa.
  • Ho fatto fatica a leggere tutto l’incipit e dare un giudizio su questo romanzo fantasy.”Il vento passa attraverso le ossa e i peli del mio nuovo amico producendo una strana (ma intensa) melodia. C’è ritmo. C’è passione. Molta più passione di gran parte delle canzoni che ascolto alla radio”. Non ha un gran senso, come molte delle immagini accostate a delle situazioni:”La bocca sta vomitando sangue su tutto l’asfalto. Mi ricorda la lava del vulcano di cartapesta che ho creato per il progetto di scienze in terza elementare”.Il consiglio che mi sento di dare all’autore è che rischia di scatenare un effetto comico involontario. Per azzardare frasi ad effetto bisogna padroneggiare il regno delle emozioni, altrimenti è molto facile cadere nel ridicolo. Musahi, prova a mettere delle emozioni in ciò che descrivi, anche se è solo fantasy.
  • Il lessico è spesso inappropriato ed irritante – vedi l’utilizzo del termine ritardato. La trama è orribile, e il contesto e i personaggi, così come i dialoghi, sono spesso farciti con dettagli inutili tanto da risultare fastidiosi.
  • Genere violento. Dal punto di vista formale è ben scritto e il personaggio – per il fatto di essere così negativo – è originale. Forse gli manca un po’ di spessore: è un po’ troppo ossessionato da pensieri di prevaricazione e di invidia mista a disprezzo verso quelli che riescono ad ottenere il “prestigio sociale”. Sembra un po’ un adolescente in difficoltà, questo va benissimo ma ci vorrebbe una descrizione più accurata del contesto, diversamente somiglia a un diario di pensieri (incubi) intimi e privati, più che a un romanzo.
  • Ben scritto e ben strutturato, ma onestamente, nella mente del serial killer , non é uno dei miei temi preferiti. Nel complesso é interessante e se amassi il genere probabilmente lo leggerei per intero. Purtroppo per me non mi piace il genere.

Che dire… mi aspettavo molto peggio. Sono grato di tutte le persone che hanno trovato il tempo di commentare il mio incipit e sono grato tanto per le recensioni positive quanto per quelle negative (avrei solo voluto che ampliassero le loro critiche in maniera tale da capire cosa c’era di tanto sbagliato). Comunque sia sono grato. Cercherò di fare del mio meglio e punterò alla vittoria. Per chi fosse interessato alla trama: un ragazzo di sedici anni (Struggler) uccide i suoi genitori e fa un massacro nella sua scuola senza motivo. Va in prigione e viene violentato dal detenuto più potente e influente della prigionie, soprannominato ‘Dio’. Attirerà le simpatie del ‘diavolo di Shibukawa’, un ex-campione di MMA rinchiuso sotto falsa accusa. Grazie a un allenamento fisico e mentale, Struggler tenterà di sopravvivere e capire cosa significa essere realmente forti mentre escogita un piano per prendere il posto di Dio nella scala gerarchica della prigione.

Bella luna là fuori. È tardi e ho appena finito questo articolo con la vecchia colonna sonora di Berserk del ’97 sullo sfondo(Earth-link qua sotto). È una sensazione molto pacifica. Buona notte o buona giornata, fellow Strugglers.

Appunto per me stesso: leggere Gantz.

Tournament of power- Ioscrittore, Pugilato e Musashi Miyamoto

Gira voce che Musashi Miyamoto sia stato l’unico ronin (samurai senza padrone) in tutta la storia del Giappone a non essere mai stato sconfitto. Un uomo la cui storia si confonde con la leggenda: si sa davvero poco di Musashi. Venne addestrato nell’arte della spada sin da giovanissimo. Era un solitario che disprezzava l’igiene personale, il genere femminile e la debolezza. A 13 anni sconfisse un maestro samurai attaccandolo a sorpresa con la sua spada di legno. Da lì il nome di Miyamoto continuò a crescere. Trascorse gli anni dell’adolescenza con un cartello di legno appeso al suo collo: ‘chiunque voglia sfidarmi sarà il benvenuto’, recitava.

A 16 anni prestò il suo servizio al clan Mitsunari nella famosa battaglia di Sekigahara. Il clan Mitsunari venne sconfitto e Miyamoto riuscì miracolosamente a sopravvivere. Da quella battaglia, Miyamoto decise di perseguire la via della spada e diventare lo spadaccino più forte della storia. Ancora non è chiaro se Miyamoto vinse ogni singolo duello (un fatto davvero improbabile) ma una cosa è certa: morì in età avanzata (probabilmente intorno ai 61 anni) stroncato da un tumore allo stomaco. Considerando che la vita media di un guerriero del Giappone nell’età feudale si aggirava verso i trent’anni.

people watching two men in fighting arena
Photo by Coco Championship on Pexels.com

Un vecchio che sopravvive in un lavoro in cui si muore giovani potrebbe sapere una cosa o due sulla vita. Miyamoto scrisse della sua esperienza di vita nella sua opera più conosciuta, ‘Il libro dei cinque anelli’. Il libro è suddiviso in cinque parti: il libro della terra, il libro dell’acqua, il libro del fuoco, il libro dell’aria e il libro del vuoto. Ogni sezione indica il corretto comportamento che un aspirante guerriero deve adottare per trionfare sui suoi nemici: le tecniche di scherma, la supremazia fisica e mentale e la psicologia fanno tutti parti della ‘via della solitudine’ (la via che ogni guerriero deve percorre poiché solo nella solitudine si può trovare la via per la vittoria).

Questi sono i nove dogmi che elenca:

1: Non coltivare cattivi pensieri

2: Esercitati con impegno

3: Studia tutte le arti

4: Conosci anche gli altri mestieri

5: Distingui l’utile dall’inutile

6: Riconosci il vero dal falso

7: Percepisci ciò che non vedi con gli occhi

8: Non essere trascurato

9: Non abbandonarti in attività inutili

Musashi pensava che la via del successo fosse percorribile da tutti, ma che, allo stesso tempo, non tutti fossero capici di percorrerla. Spiego questa orribile frase: tutti potrebbero (in teoria) avere la capacità per raggiungere la grandezza ma sono davvero poche le persone che si impegnano con tutta la loro volontà e sacrificano la propria vita all’insegna del loro sogno.

Se un uomo non sacrifica i piaceri del presente e non dedica ogni minuto della propria vita al proprio futuro, ha poi ragione a lamentarsi se non raggiunge la vetta? Riuscirà ad essere abbastanza maturo e intelligente per dire, ‘è colpa mia e solo mia se ho fallito?’

Musashi ha colto nel segno. Solo con una grande fermezza mentale e un desiderio bruciante si può raggiungere la via del successo in qualsiasi campo.

Il pugile Mayweather non è mai stato sconfitto (si potrebbe definire il Musashi dei nostri tempi). Ma qual è stato il prezzo? Una routine disumana che ben pochi pugili possono riuscire a fare:

Tre round di shadowboxing. (ricordo che ogni round dura tre minuti)

Quattro round ai pads.

Due round focalizzati ai colpi al corpo.

Quattro round (12 minuti) al sacco.

E così via. Per quaranta round. Un totale di centoventi minuti. Senza contare il minutaggio di riposo, la corsa, lo sparring e la dieta ferrea. Come dice lui stesso: ‘Studio ogni avversario che combatterò. Se il mio avversario corre otto chilometri ogni mattina, io corro dieci chilometri. Se lui corre dieci chilometri, io corro 12 chilometri.’

Mayweather è il migliore per una ragione: antepone il suo allenamento, la sua carriera e il suo sogno a qualsiasi cosa. Il pugile, per diventare tale, non ha abbandonato la via.

Prendiamo un uomo molto diverso ma dallo stesso successo.

Stephen King ha un ritmo di scrittura di duemila parole al giorno, trascorrendo quattro ore sulla macchina da scrivere e le altre ore a leggere romanzi di narrativa. Tutto questo mentre lavorava come insegnate di inglese e lavorava come addetto alle pulizie a una lavanderia di Bangor, nel Maine. Lo scrittore, per diventare tale, non ha abbandonato la via.

E questo ci porta alla parte finale di questo articolo. Ho partecipato al torneo di Ioscrittore quest’anno. Per chi non lo sapesse, Ioscrittore è un ‘torneo’ di scrittura in cui mandi le prime venti pagine del tuo manoscritto al sito e dieci persone a caso (partecipanti anche loro del torneo) lo valutano. Tu fai la stessa cosa e leggi dieci opere di altri aspiranti scrittori. Dai un voto da 1 a 10 sui vari aspetti del romanzo che hai letto (un voto per i personaggi, trama, storia e grammatica) e scrivi un giudizio complessivo. Se le pagine del tuo romanzo raggiungono una certa media puoi passare alla fase successiva.

Ieri hanno annunciato i nomi dei vincitori della prima fase e io non ero tra quelli. Lo sapevo ancora prima di inviare le pagine che non avrei vinto. Il mio romanzo è in inglese. Per partecipare al concorso ho dovuto tradurre 40 pagine dall’inglese all’italiano in meno di sei ore (come sempre mi ero ridotto all’ultimo). Alla fine della quinta ora non avevo neanche la forza di rileggerlo per quanto duramente avevo lavorato per mandare quelle pagine al concorso. Quando le inviai sapevo di aver fatto un lavoro frettoloso e pieno di errori. Tuttavia, poco prima di sapere i risultati, una parte di me sperava di aver vinto. Anzi, ne ero sicuro… per quanto stupida fosse quella sicurezza.

Il fatto è che se non sono riuscito a nel mio intento devo maledire solo me stesso. Non i giudici troppo cattivi (suppongo siano stati anche troppo buoni), non il fatto che avessi poco tempo (avevo più di un mese per prepararmi), non il fatto che nessuno mi apprezza (forse sono davvero troppo scarso).

strong man with naked torso and tattooed body showing katana
Photo by TH Team on Pexels.com

In ogni caso la colpa è mia: per il fatto di essere troppo pigro nel rileggere quello che scrivo, per non metterci dedizione, per non lavorare ogni istante della mia vita per realizzare il mio sogno. Forse non sono neanche degno di chiamare la mia ambizione ‘sogno’.

Ma c’è sempre tempo per dedicarsi alla via del guerriero. Il tempo è dalla mia. Anche se non dovessi avere il talento necessario, ho speranza e resilienza. E per il momento è tutto ciò di cui ho bisogno.

Il principe nell’alta torre, Jordan Peterson II, Caino e Abele- Old boy (2003)

Il cinema vicino a me dava Old boy ieri sera e non ho perso l’occasione di vederlo per la quinta volta quest’anno. Spero di non essere stato il solo a identificarmi come Taesu in questi periodi di quarantena senza fine.

La trama da sola rende Old Boy uno di quei film che ti piace ancora prima di averlo visto: Taesu viene imprigionato per 15 anni in una stanza senza saperne il motivo. Sua moglie viene assassinata e i sospetti ricadono su di lui. Anche se riuscisse a scappare dalla sua prigione, Taesu non avrebbe alcun posto dove andare.

15 anni chiuso in una stanza senza alcuna possibilità di capire il perché di tutto ciò: non ci sono persone con cui interagire, non ci sono valvole di sfogo e non può nemmeno suicidarsi dato che ogni sua mossa nella stanza in cui è prigioniero è monitorata dai suoi carcerieri. La stanza è composta da: un letto, una scrivania, un televisore, una porta blindata (da cui Taesu riceve i pasti) e una finta finestra con il disegno di un mulino a vento in mezzo alla campagna tra le tende in modo da dare un’ illusione di un mondo esterno.

Nella mente di Taesu si forma un solo pensiero: capire il perché si trovi in quella situazione e soddisfare la sua sete di vendetta. Passa tutto il tempo a scrivere, a guardare la televisione e ad allenarsi facendo shadow boxing in dieci metri quadrati di cella e usando il muro come sacco da boxe, il che è alquanto pericoloso per la struttura della mano (ne so qualcosa).

Taesu tenta il suicidio più di una volta, ma i suoi carcerieri lo curano sempre poco prima che sia troppo tardi. Davvero un incubo senza fine per il protagonista.

15 anni spesi in agonia e rabbia vengono finiscono tutto d’un tratto. Taesu viene rilasciato e si sveglia sopra il tetto di un palazzo di trentacinque piani. Il suo incubo è finito. E adesso? Cosa può fare un uomo che ha bruciato quindici anni della propria vita e completamente fuori dal mondo? La vendetta è l’unica cosa che sembra motivare Taesu. Piuttosto facile simpatizzare per lui, giusto?

Uno dei motivi per cui credo sia così facile immedesimarsi in una storia di vendetta è il semplice fatto che fantasticare su quest’ultima fa parte della natura umana. Ognuno di noi ha subito un affronto e ognuno di noi (eccetto forse Madre Teresa) ha perlomeno sognato di ripagare colui che ci ha fatto del male con la stessa moneta. Lo stesso meccanismo di vendetta (o giustizia, o difesa personale) è stato alla base della creazione delle leggi scritte (come ne ho parlato qui). La crociata di Taesu, del ‘ragazzo vecchio’ che è stato derubato di gran parte della sua vita, è diventata anche la mia crociata. Qualcuno deve pagare. Ma cosa succede quando si ottiene la propria vendetta? I quindici anni torneranno? Taesu sarà una persona più giovane? La risposta è nella scienza: la vendetta fa bene. Chiunque ottenga la sua rivincita ottiene nuovamente l’autostima che gli è stata rubata. Ma qual è il prezzo della vendetta? Cosa si è disposti a fare pur di raggiungerla? E se ottenere la vendetta fosse impossibile? E se per ottenerla ti macchiassi di crimini orribili che finirebbero seriamente la tua vita? E se il tizio che ti ha fatto del male avesse avuto più di un buon motivo per fare ciò che ti ha fatto? Il confine è labile da definire e lo stesso concetto di giustizia è fallace. Il film Old boy esplora proprio questo tema e lo fa in maniera magistrale: senza degnare lo spettatore di una risposta precisa.

Per quanto mi riguarda credo di essermi fatto un idea. Ancora una volta invoco il nome del dottor Jordan Peterson e la sua settima fenomenale regola del suo ancora più fenomenale libro ’12 rules for life’.

‘Pursue what is meaningful and not what is expedient’ (Concentrati su ciò che ha importanza non sulle cose di poca importanza; o anche: concentrati su ciò che ti porterà dei risultati e non su ciò che ti porta piacere).

Il dottor Peterson porta l’esempio di Caino e Abele, una storia biblica che conosciamo tutti. Dio richiede un sacrificio (Griffithhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!!!!) periodico in suo onore. Abele, il più laborioso e il maggiore dei due fratelli, compiace Dio con i suoi grandiosi sacrifici e Dio fa di lui il suo preferito; i sacrifici di Caino, d’altro canto, non vengono accettati da Dio e ciò suscita la rabbia e l’invidia del fratello minore nei confronti di Abele. Invece analizzare se stesso, di capire perché i suoi sacrifici non sono degni di Dio, Abele viene consumato dalla rabbia e uccide suo fratello, la cui unica colpa è stata quella di essere una persona di ‘successo’ agli occhi di Dio.

Che storia tragica e profondamente umana. Molti di noi sono così (nonostante non vogliamo ammetterlo). Taesu è così. Magari non arriviamo a uccidere una persona, ma ogni volta che falliamo e ogni volta che non rispettiamo alcuni standard o che qualcuno ci fa del male, invece di pensare che è colpa nostra, pensiamo subito che è colpa di qualcun altro. Non abbiamo abbastanza successo? Incolpiamo qualcun altro che ce lo ha dicendo che il nostro paese è alla deriva (non sapete quante volte ho sentito scrittori di bassa lega parlare male di Fabio Volo perché ha avuto l’audacia di ‘vendere’ i suoi libri…).

Pensate se tutta quell’energia basata sull’odio venisse concentrata nel creare qualcosa di costruttivo. Pensate quanto il singolo individuo e il genere umano in generale ne gioverebbero. Cosa accadrebbe se gli Incel smettessero di essere divorati dall’odio e lo usassero come benzina per migliorarsi la vita? Cosa accadrebbe se ognuno di noi pensasse più a se stesso e meno agli altri? Cosa accadrebbe se Taesu rinunciasse alla sua vendetta e decidesse di trascorrere una vita tranquilla e pacifica orientata a migliorare se stesso e usare la sua fonte inesauribile di rabbia per fare qualcosa di concreto? (fatto che ha già dimostrato usando emozioni negative per imparare il pugilato da autodidatta, perdere peso e studiare durante il suo imprigionamento). Ciò richiede una forza enorme che potrebbe essere quasi definita divina.

Un grande film che racchiude un grande messaggio. Non sprecate la vostra vita nell’odio. Non importa quali torti e quali brutte carte vi ha riservato la vita. Non diventate mostri che vivono nell’odio, nel cinismo e nella rabbia ma usate le esperienza negative per forgiarvi e vivere una vita degna di tale nome.

Leggete, fate attività fisica, dedicatevi a molti hobby, lavorate duramente. E questo che porta alla felicità e non la miseria degli altri.

Oppure non fatelo, come direbbe Jordan Peterson. La scelta è vostra.

Spero che ognuno che legga queste righe possa ottenere un successo enorme; il fatto è che la mia speranza non conta nulla. Bisogna guadagnarselo e andare avanti nonostante le sconfitte e i torti che si subiscono e ce ne saranno molte…credetemi. Ci saranno tante sconfitte quante vittorie. Non siate i peggior nemici di voi stessi. La vendetta regalerà solo una gioia temporanea; il successo sarà per sempre.

Guardatevi Old Boy.

Jordan Peterson, emozioni negative e riflessioni sul falò dei sogni

Non bazzico molto internet e i social network per due motivi: ci tengo alla mia salute mentale e, in fin dei conti, non c’è mai niente di interessante. Ultimamente, però, sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla grande quantità di fan di Berserk che omaggiano l’opera e l’autore con aneddoti, storie, art design, disegni e AMV (anime music video). La grandissima maggioranza di quei commenti cominciava -o finiva- con le stesse identiche parole:

‘Grazie di tutto Kentaro Miura’.

Alcuni riflettevano su come il manga avesse influenzato positivamente le loro vite e come li avesse aiutati ad andare avanti nonostante vivessero un periodo molto difficile. Un commento di un anonimo narrava di come l’opera di Miura lo avesse distolto dall’idea del suicidio. La lista potrebbe andare avanti all’infinito ma non farebbe altro che confermare e riconfermare l’idea che la narrazione e la finzione possano difatti cambiare completamente la vita di un uomo. Chiunque abbia letto Berserk si è identificato in Guts, un guerriero simbolo della resilienza e della caparbietà umana che non rinuncia al diritto di vivere nonostante le tragedie della sua vita. Chiunque si è identificato con Griffith, con la sua ambizione e la sua volontà di trasformare il suo sogno in realtà.

Berserk è più utile e catartico del novanta percento dei libri di aiuto personale. Stai affrontando un momento difficile della tua vita? Anche Guts lo sta affrontando ma non cerca scuse o vie di fuga. Lui è uno ‘Struggler’ (una parola inglese meravigliosa che tradotta è una via di mezzo tra ‘combattente’ e ‘sofferente’) e continuerà a esserlo fino a quando anche lui avrà il lieto fine che si merita. Non importa quante sconfitte e quante umiliazioni subirà: lui combatterà con coraggio fino alla fine, danzerà nel caos della casualità e ne uscirà vincitore.

Sono orgoglioso della razza umana e di come molti amino Berserk: un inno alla vita e al sacrificio che non consce eguali nella storia della letteratura. Ma cosa c’entra Jordan Peterson? Cosa potrà mai centrare una delle menti più fini della nostra epoca con una opera senza eguali come Berserk? A mio modesto parere? Molto.

Per chi non lo sapesse, Jordan Peterson è uno psicologo e accademico caratterizzato da un acceso interesse per la psicologia della religione, della storia degli umani e del potenziale di questi ultimi. Da poche settimane ho cominciato il suo libro 12 rules for life che, come si evince dal titolo, propone 12 regole per migliorare la propria esperienza e qualità di vita. All’inizio di questo articolo sono stato un filino severo verso i libri di aiuto personale, ma questo titolo è l’eccezione che conferma la regola. Prendiamo i primi due dogmi del dottor Peterson:

  1. Stand up straight with your shoulders back (sta dritto con il petto in fuori e le spalle indietro)
  2. Treat yourself like someone you are responsible for helping (sii responsabile per te stesso e trattati come se tu fossi qualcuno che volessi aiutarti)

Oltre ad espandere e spiegare ciascuna regola con evidenti dati scientifici, aneddoti e citazioni bibliche (credetemi… hanno molto senso) Peterson spiega pazientemente, anche grazie all’uso della letteratura, perché questo possa condurre a una vita migliore.

La prima regola parte con un paragone molto strano: gli esseri umani sono molto simili alle aragoste per quanto strano possa sembrare. Le aragoste combattono tra di loro in spietate lotte territoriali per guadagnarsi un posto dove vivere in quello che potrebbe essere definito come un duello vero e proprio. Questi duelli all’ultimo sangue, ovviamente, prendono luogo anche per altre motivi, come, ad esempio, una semplice dimostrazione di potere, attrarre un partner sessuale o semplicemente per prevalere su un nemico.

Vincere, significa acquisire prestigio sociale e un posto preciso nella scala gerarchica il che significa avere più accesso a cibo, un alloggio dove vivere ed essenzialmente una vita più ricca e soddisfacente. Perdere, d’altro canto, significa essere sottomessi, essere cacciati, perdere status sociale (che è una cosa importante anche tra le aragoste apparentemente) e vivere una vita dalla qualità molto inferiore. Ecco cosa accade al livello fisico: il vincitore rilascia più endorfina, dopamina e serotonina (neurotrasmettitori associati al buon umore) che attrae più potere, confidenza, autostima e una probabilità di vittoria maggiore se mai dovesse combattere in futuro. La sua postura è imponente e grandiosa nonostante possa persino avere delle dimensioni piccole non adatte a un guerriero.

Il perdente non viene beneficiato da queste importanti reazioni chimiche e aumenta il suo livello di stress, ansia, depressione (malattia dovuta in parte alla mancanza di serotonina) poiché ha perso e la sua confidenza è ai minimi storici. Molto probabilmente, perderà anche le prossime battaglie in cui sarà partecipe perché nella sua mente il suo status di ‘perdente’ è ormai consolidato. La sua postura è curva, con le spalle cadenti (postura che dovrebbe in teoria proteggere dai predatori comunicando non verbalmente ‘sono un perdente, lasciatemi in pace).

La stessa cosa può essere percepita negli esseri umani. A nessuno di noi piace perdere e la vita non è esattamente un parco divertimenti. Ma perdere ogni singola volta potrebbe avere delle cause fatali sulla nostra salute, sul nostro lavoro e sulle nostre ambizioni. Qualche sconfitta di troppo potrebbe benissimo toglierci dalla strada per il successo e imbarcarci con un biglietto di sola andata per la depressione. Credo che Griffith ne sappia qualcosa quando il buon Guts se ne andò dalla squadra dei Falchi.

Post nut clarity, bro?

Abbiate una buona posizione eretta mentre parlate con qualcuno. Non importa quanto inadeguati e stupidi vi sentiate. Non comportatevi come una aragosta perdente e camminate nel caos a testa alta dopo la sconfitta come fa Guts.

La seconda regola va di pari passo con la prima. Vogliate il meglio per voi stessi e comportatevi come se voi foste i vostri stessi genitori. Non lasciate che il caos vi faccia disperare a tal punto da assumere dei comportamenti negativi e distruttivi. Siate forti fisicamente e mentalmente. Fate ciò che è meglio per voi e dominate il caos prima che quest’ultimo domini voi esattamente come Guts combatte contro la stessa idea di casualità e divinità trovando un senso in un mondo che raramente ne ha. Uccidete Dio anche se dovesse trovarsi sul vostro cammino e vivete una vita devota al vostro sogno. Lasciate che le emozioni negative costruiscano un futuro migliore e non diventate schiavi di esse.

Oppure fate l’esatto opposto.

Oppure io stesso potrei fare l’esatto opposto. Ma in entrambi i casi dovrò vivere con le conseguenze delle mie azioni. Quella è la parte più difficile, non trovate?

In ogni caso… grazie di tuttto Kentaro Miura. Ancora una volta.

Grazie di tutto Kentaro Miura (un pensiero personale)

Sono sicuro di avere avuto una contusione l’ultima volta che ho fatto hard sparring. Mi è stata prescritta una risonanza magnetica e ho visitato un neurologo ma non è stato rilevato alcun danno cerebrale (che sollievo). Eccetto un mal di testa durato tre mesi me la sono cavata con poco.

Questo è stato un periodo strano.

Non ho avuto nulla da fare questi giorni. Non ho scritto più (il che è abbastanza grave per una persona che desidera diventare uno scrittore). Il mio futuro appariva ancora più incerto di prima. Non posso tornare in UK dove mi sono trasferito tre anni fa. Ho lasciato che gli eventi plasmassero le mie ambizioni.

Ho passato le giornate a guardare il vuoto, vecchi film, a leggere gli stessi libri di sempre (qualsiasi cosa scritta da Murakami e Jordan Peterson) e su internet dato che sono pur sempre un millenial.

Giorni passati ad aspettare Godot che mi indicasse la via da seguire.

Ore passate a scorrere la home di twitter mi hanno informato di molte cose tra cui:

-Alcuni odiano Trump per qualche ragione

-Alcuni odiano Biden per qualche ragione

-Alcuni diffidano del vaccino

-Alcuni piangono per la morte di Kentaro Miura

-Alcuni credono che Logan Paul sia il futuro della boxe

Aspetta… che cosa? Alcuni piangono per la morte di Kentaro Miura.

Sul serio?

Inizialmente non ci credevo. Ero sicuro si trattasse di uno scherzo come a volte fa chi annuncia la morte a caso delle persone famose. Poi andai a controllare la fonte. Non era uno scherzo. Morto per dissezione aortica acuta a 54 anni.

Berserk è una delle opere che più mi ha aiutato all’Università. Ero una persona introversa, buia, scontrosa, tormentata dagli errori del proprio passato (sotto molti aspetti lo sono ancora).

Essere partecipe delle vicende di Guts mi ha portato ad ammirarlo e ad emulare il suo carattere: un uomo solo che combatte contro un essere che potrebbe essere definito divino, che porta un fardello più grande dell’umanità stessa e che, nonostante le cose che ha dovuto sopportare, trova sempre una ragione per vivere e combattere.

Leggere Berserk mi ha fatto sentire meno solo e, in qualche modo, più coraggioso. Trovavo conforto nel chiamare me stesso ‘Struggler’.

‘Se Guts può continuare il suo viaggio verso il Caos, allora forse anche io posso farlo,’ Ho pensato. Da allora sono rimasto ossessionato dall’idea di diventare forte abbastanza per potere sopravvivere a tutto ciò che avrei incontrato nella lunga strada verso il mio sogno.

Pugilato, scrittura, lettura, palestra. Volevo (e voglio) diventare la versione migliore di me stesso, avanzare verso il mio sogno e creare una mia identità. Tutto questo grazie a Kentaro Miura. Tutto questo grazie a Berserk.

Ultimamente, però, mi sono perso come migliaia di altri nel ‘falò dei sogni’ in cui tutti si perdono almeno una volta nella vita. Con la mia inerzia ho lasciato che io fossi la vittima sacrificale del mio stesso sogno. Ma questo non è un qualcosa che farebbe Guts. Questo non è un qualcosa che farebbe uno struggler.

Grazie di tutto, Kentaro Miura. Hai dedicato tutta la tua vita ad aiutare me e infinite altre persone. Se sono una persona migliore (o se posso anche solo essere definito come tale) lo devo soprattutto a te.